Nei libri di storia, il toponimo “Novara” è sinonimo di sconfitta, di disfatta militare giunta al termine di una serie di conflitti noti come Prima guerra di indipendenza che costarono la corona a Carlo Alberto di Savoia. Ciononostante, da più di vent’anni un’associazione ricorda l’importanza che quei traumatici eventi ebbero per il futuro del Piemonte e per il resto del paese. Si tratta dell’Associazione Amici del Parco della Battaglia, nata a Novara nel 1994 e diventata ONLUS nel 1999. Tra i suoi obiettivi, l’apertura al pubblico dell’Ossario dei Caduti della Battaglia, il nuovo allestimento del Museo del Risorgimento in un’ala del Castello visconteo-sforzesco di Novara, che ospiterà anche una delle tre maschere funerarie di Cavour, e la tutela del territorio denominato “Parco della Battaglia del 23 marzo 1849”. Finalità principale rimane l’opera di salvaguardia, sensibilizzazione e divulgazione del patrimonio storico racchiuso in questo angolo di terra piemontese.
Può un’associazione avere simili obiettivi e al tempo stesso rifarsi a una sconfitta così cocente da essere stata rimossa dalla memoria collettiva per lungo tempo? Per il presidente Paolo Cirri,
benché una sconfitta non sia mai facile da accettare, non si è rivelata una vicenda totalmente negativa. Anzi, a Novara si fece una parte importante della storia nazionale. Le conseguenze dell’insuccesso servirono a far comprendere ai politici dell’epoca l’impossibilità di combattere un possente impero senza un’economia solida e un forte alleato militare in grado di sostenere lo sforzo bellico.
A Novara i combattimenti iniziati l’anno precedente raggiunsero il culmine il 23 marzo 1849. Nel 1848, in pochi mesi, prima Milano e Venezia insorsero, poi Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria. Il conflitto iniziò col piede giusto per i piemontesi grazie a una serie di vittorie. Dopo un periodo di incertezza, gli austriaci passarono al contrattacco sconfiggendo l’Armata Sarda a Custoza nel luglio 1848. Il mese successivo il generale Salasco siglò l’armistizio e l’esercito sabaudo si ritirò oltre Ticino. Soltanto sette mesi dopo, i piemontesi ruppero la tregua e il 20 marzo 1849 riaprirono le ostilità tra l’entusiasmo delle truppe sfiancate da lunghi mesi d’attesa.
In seguito alle débâcle di Mortara e della Sforzesca, all’Armata Sarda non restò che ripiegare su Novara. Particolarmente nella zona sud della città, nel quartiere noto come Bicocca — fulcro della difesa piemontese e obiettivo strategico degli Asburgo, si sarebbe consumato l’evento decisivo del Primo conflitto d’indipendenza.
Circa 100 mila soldati incrociarono le baionette, anche se solo 40 mila si affrontarono direttamente e in maniera continuata. Da un lato, cinque divisioni dell’Armata Sarda più una sesta, a difesa del fianco sinistro dell’esercito lungo la strada per Trecate, comandata dal generale Paolo Solaroli.
Solo tre furono impegnate in prima linea: la I e II Divisione, agli ordini rispettivamente di Giovanni Durando e di Michele Bes, a sud-ovest di Novara, e il reparto guidato dal generale Ettore Perrone, nobile canavesano già soldato di Napoleone, cospiratore anti-Savoia richiamato dall’esilio nel 1848 proprio alla guida della III Divisione Fanteria. Fu questo reparto, a ridosso della Bicocca, maggiormente coinvolto negli scontri. Lo stesso comandante venne ferito alla testa nel tentativo di sostenere l’attacco austriaco e morì dopo sei giorni di agonia. Due altre divisioni erano poste alle spalle delle prime tre. Alla loro testa i figli di Carlo Alberto: Ferdinando Maria, Duca di Genova, e il futuro monarca Vittorio Emanuele.
Allo schieramento piemontese il Comandante austriaco, l’ottantatreenne Josef Radetzky, oppose tre corpi d’armata effettivi più uno di riserva. Provenendo da Mortara, quello comandato dal barone d’Aspre s’imbatté per primo nel nemico e sostenne gli scontri più a lungo.
Il terreno sul quale alle 9 del mattino del 23 marzo 1849 l’Armata Sarda si dispose in ordine di battaglia non si presentava affatto regolare, bensì intervallato da alture e attraversato da canali, filari di vigne e alberi. Lo sviluppo urbano non aveva ancora invaso i campi. Gli edifici rurali e i cascinali ebbero pertanto notevole peso strategico: posizioni protette da cui far fuoco, o dietro le quali ripararsi, oppure utilizzate come quartier generali.
Intorno alle 10:30, sotto un cielo livido e una pioggia leggera, esplosero i primi colpi di cannone. Le avanguardie asburgiche puntarono sulle cascine Boriola e Bojotta, da un lato, e sulla Castellazzo dall’altro, tutte sulla strada per Mortara. L’armata di d’Aspre attaccò convinta di trovarsi di fronte solo le retroguardie sabaude. Invece si trattava dell’intera divisione di Perrone che non esitò a controbattere. Particolarmente violenta fu la lotta intorno alla cascina Cavallotta, roccaforte austriaca più volte ceduta ma sempre riconquistata.Verso le 13 la reazione piemontese, grazie all’appoggio del Duca di Genova, produsse il massimo sforzo riuscendo a scacciare i nemici dai casolari intorno alla Bicocca. Furono ore decisive: tuttavia, invece di inseguire il nemico, il comandante dell’Armata Sarda, il polacco Wojciech Chrzanowski, preferì restare sulla difensiva a protezione della città. Questa mossa diede agli austriaci il tempo di riorganizzarsi e al III Corpo d’Armata capitanato da Appel l’opportunità di intervenire a sostegno di d’Aspre.
A sinistra facciata della Chiesa della Bicocca, intorno alla quale si combatté nella fase finale della battaglia. A destra una palla di cannone conficcata nella parete laterale della chiesa.
Verso le 16 le truppe asburgiche riconquistarono le posizioni perdute e, poco prima delle 17, sferrarono l’attacco decisivo. Cruciale fu l’arrivo dell’armata del generale Thurn, inizialmente dirottata verso Vercelli per tagliare l’eventuale ritirata, poi provvidenzialmente richiamata a Novara da Radetzky. Alle 17:30, mentre la pioggia s’infittiva, i reparti piemontesi più lontani iniziarono la ritirata verso Novara. Se fino a quel momento l’esito della lotta rimase in bilico, l’assalto austriaco apparve da subito irresistibile. Mentre tutte le truppe piemontesi, incalzate dai nemici, ripiegavano verso la città, Carlo Alberto inviava il suo aiutante di campo, Luigi Fecia Di Cossato, presso il campo austriaco per trattare la resa.
Quando Cossato tornò a Palazzo Bellini, sede del comando sabaudo, a comunicare le durissime condizioni di Radetzky, i combattimenti erano ormai finiti e i soldati piemontesi si trovavano tutti entro le mura di Novara. Lo spettacolo, se così si può definire, offerto dalla battaglia era di imponente grandezza. Gli scontri furono durissimi e devastanti gli effetti dell’artiglieria. Così apparve il campo di battaglia sotto il limpido sole del mattino successivo:
alberi possenti spezzati come fuscelli, le granate avevano scavato solchi tra le sementi in germoglio, pietre stradali e pesanti recinzioni degli orti giacevano distrutte tutt’intorno.
La battaglia costò più sangue di quanto dicano le cifre ufficiali. Verosimilmente furono 7.000 le perdite complessive — prigionieri esclusi. Sulle cause della sconfitta dell’Armata Sarda gli storici sono concordi: fu soprattutto la scarsa preparazione degli ufficiali, il loro numero insufficiente e le conseguenti promozioni affrettate a facilitare il compito austriaco. Emersero anche i limiti strutturali dell’esercito dovuti agli scarsi investimenti e a un’organizzazione poco funzionale, evidente nella mancanza della cavalleria leggera e nella debolezza del genio e della logistica, fondamentali per la raccolta di informazioni e per l’uso tattico del terreno.
Se gli ufficiali delusero, i soldati fecero il loro dovere fino all’ultimo. Perfino gli austriaci lodarono il coraggio delle truppe sabaude, che si batterono malgrado il cibo rimasto nelle retrovie e il servizio di infermeria quasi assente. In un momento di incertezza negli scontri, il feldmaresciallo austriaco, mai tenero con i piemontesi, osservò che i soldati dell’Armata Sarda combattevano come “diavoli”, e pare salutò con un sollevato “grazie a dio se la danno a gambe” il momento della ritirata sotto i cannoneggiamenti del Corpo d’Armata di Thurn.
A testimoniare il grado di difficoltà dell’impresa, la vittoria ebbe istantaneamente grande risonanza nei confini dell’Impero asburgico. Perfino il generale Wellington si congratulò inviando una lettera colma di complimenti al vecchio alleato antinapoleonico. Qualche anno dopo, a Vienna fu inaugurata la Novaragasse, una strada per ricordare il glorioso evento.
Se non mancarono atti di eroismo, alcuni reparti piemontesi, affamati dalla mancanza di provviste e avvelenati contro i “signori” responsabili della guerra, si abbandonarono a furiosi saccheggi. Ufficiali austriaci descrissero così i disordini:
si rompevano i vasi nelle farmacie… si saccheggiavano le botteghe, per ottenere cibo e vino, e le oreficerie, svuotandole e poi appiccandovi incendi, anche se pochi edifici erano andati in fiamme.
Si resero necessarie alcune cariche della cavalleria, che “molti ne uccise”, per porre fine alle scorribande.
Carlo Alberto capì che doveva togliersi di mezzo per ammorbidire le condizioni di resa. Dunque, la sera del 23 marzo, annunciò la propria abdicazione a favore di Vittorio Emanuele.
L’amletico sovrano aveva dimostrato forse un eccessivo presenzialismo durante gli scontri cercando, ma mai trovandola, la “bella morte” sul campo. Appresa la notizia della disfatta, avrebbe detto affranto: “C’est fini pour moi”. E così fu. Intorno a mezzanotte, salì su una carrozza diretta a Oporto. Con sé aveva soltanto due accompagnatori e un passaporto a nome del “conte di Barge”. Un’ora dopo, un posto di blocco austriaco fermò il presunto ufficiale piemontese. Alle prime ore dell’alba, quando il generale Thurn fu svegliato si accorse chi aveva veramente di fronte. Ciononostante lo lasciò andare — l’arresto avrebbe procurato soltanto noie, e dopotutto la battaglia era vinta e Carlo Alberto in fuga. L’ex monarca giunse in Portogallo il 19 aprile e là morì pochi mesi dopo passando alla storia come il martire dell’indipendenza. Ma fu davvero una vittima?
Chi pagò un prezzo altissimo fu il generale Gerolamo Ramorino.
Genovese classe 1792, era stato ufficiale napoleonico e aveva partecipato, come Perrone, ai moti piemontesi del 1821 e alla spedizione mazziniana in Savoia del 1834. Apprezzato negli ambienti democratici, rientrò in Italia nel 1848 ottenendo il comando della V Divisione piemontese. Secondo i piani di Chrzanowski, il generale avrebbe dovuto raccogliere le truppe in Lomellina per impedire lo sconfinamento degli austriaci. Disobbedendo senza avvertire, Ramorino pensò di spostarsi più a sud, verso Voghera, ma così facendo lasciò via libera agli Asburgo. Vero, da Novara gli ordini giungevano spesso confusi e maldestri e la sua divisione non sarebbe bastata ad arrestare l’offensiva; tuttavia, il generale fu riconosciuto colpevole, processato e condannato a morte. L’esecuzione avvenne a Torino, in Piazza d’Armi. Ramorino dimostrò notevole coraggio: rifiutò di farsi bendare e chiese che fosse lui stesso a comandare il fuoco. Era il 22 maggio 1849.
Chrzanowski se la cavò meglio. A causa di contrasti ai vertici dell’Armata Sarda e per la diffusa sfiducia nei generali piemontesi, Carlo Alberto aveva affidato il comando dell’esercito all’esule polacco. Come detto, l’ex soldato di Napoleone fu troppo prudente, permettendo agli austriaci di riorganizzarsi e contrattaccare in forze. Che Chrzanowski non fu una scelta felice dovette essere chiaro a molti soldati piemontesi, i quali fin dall’inizio sollevarono parecchie perplessità. Il comandante dal nome impronunciabile aveva infatti un aspetto poco marziale: piccolo, grassottello, portava “occhiali spessi come un binocolo”. Per di più non parlava italiano ma solo francese. Proprio in Francia riparò e visse fino alla morte, giunta proprio nell’anno dell’Unità d’Italia.
Quando tra il 23 e il 24 marzo 1849, a ventinove anni d’età, Vittorio Emanuele subentrò al padre, non ne aveva alcuna voglia. Alla vita di corte, il futuro re d’Italia preferiva quella di caserma, e certamente non immaginava che avrebbe presto guidato il movimento nazionale italiano. La mattina del 24 marzo il giovane sovrano incontrò Radetzky in una cascina di Vignale per fissare i punti dell’armistizio siglato due giorni dopo. Le descrizioni di alcuni ufficiali austriaci alimentarono i sospetti di una discendenza illegittima. Il monarca appariva effettivamente diverso dal padre e, secondo gli austriaci, aveva tratti poco regali. Era “basso di statura”, ruotava gli occhi “in una maniera particolare” e dimostrava impazienza — evidentemente poco consona a un sovrano. Ma fu il suo abbigliamento informale a stupire maggiormente. Vittorio Emanuele indossava una “giacca polacca blu decorata di cordoncini, il fazzoletto rosso dei savoiardi al collo, pantaloni blu con galloni dorati e un bonetto da fatica con orlatura rossa di molto reclinato sull’orecchio”―quest’ultimo decisamente inconsueto per un sovrano.
Una parte del conflitto si consumò a Torrion Quartara, frazione cittadina a ovest della Bicocca. Proprio sugli stessi campi 170 anni più tardi, nel pomeriggio di domenica 24 marzo 2019 il Gruppo Storico “23 marzo 1849”, grazie allo studio dei movimenti delle truppe e con l’impiego di armi e divise d’epoca, ha rievocato alcune fasi degli scontri avvenuti in questa parte della città.
Nelle parole di Cirri,
la battaglia di Novara mise fine a quella fase del Risorgimento fatta di tanti entusiasmi ma di scarsa strategia. Dopo Novara, l’obiettivo divenne più chiaro. Fu lo stesso Massimo D’Azeglio ad ammetterlo: il Piemonte doveva prendere in mano la lotta per l’indipendenza e per l’unità d’Italia.
In effetti, malgrado la batosta, il Piemonte uscì rafforzato dalla Prima guerra di indipendenza — forte di un’esperienza che prima non aveva, sia perché i Savoia rimasero al loro posto, lo Statuto non fu abrogato, e il Regno di Sardegna ospitò molti esuli da altri stati italiani diventando il più concreto punto di riferimento per la creazione di uno stato nazionale unitario.
Insomma, il Risorgimento passò anche da Novara, dove un grave scacco si rivelò inaspettatamente di grande aiuto.
👍 Un sincero ringraziamento a Paolo Cirri, Donatella Manzato e a tutti gli “Amici del Parco della Battaglia” per la cortesia dimostrata e il prezioso aiuto offerto.