Nel secolo scorso dall’Osservatorio Astronomico di Torino l’allora direttore Luigi Volta, nipote del famoso Alessandro, scopriva diversi “pianetini”, ovvero gli asteroidi che orbitano tra Giove e Marte; oggi si punta anche molto più lontano, verso nuovi mondi orbitanti attorno ad altre stelle diverse dal Sole. Questa caccia è partita già alla fine del secolo scorso: nel 1995, infatti, venne scoperto il primo pianeta extrasolare. Ma come si arriva a studiare i pianeti al di fuori del nostro Sistema? Possono queste notizie indirizzare il piano di studi di un giovane ricercatore?
Lo abbiamo chiesto al ricercatore Mario Damasso dell’Osservatorio Astronomico di Torino che, proprio nel 1995, ha iniziato a frequentare la facoltà di Fisica dell’Università di Roma Tre e da gennaio di quest’anno è ufficialmente lo scopritore di un pianeta molto particolare.
Potrei quindi rispondere che la scoperta del primo pianeta extrasolare in orbita a una stella simile al Sole mi abbia spinto a intraprendere quella strada. In realtà, non ne ero a conoscenza e per tutto il corso dei miei studi nessun professore ha mai menzionato la ricerca dei pianeti extrasolari durante le lezioni di astronomia e astrofisica. Era un tema ancora troppo giovane per poter essere trattato in un corso universitario all’inizio del nuovo millennio.
Mario Damasso ha quindi iniziato a interessarsi di pianeti extrasolari solo dopo la laurea, provando a intraprendere un dottorato all’estero. Purtroppo la strada non fu semplice, arrivarono incoraggiamenti, ma concretamente nessuna possibilità, tanto che uno dei due astronomi svizzeri autori della scoperta del 1995 e premiati lo scorso anno con il Nobel, gli rispose che non aveva fondi per pagare un dottorato di ricerca.
A distanza di poco più di una ventina d’anni da allora la ricerca di nuovi mondi è diventata uno degli argomenti di punta della moderna astrofisica e in Italia, anche se in ritardo rispetto ad altri paesi europei, è attivo da qualche anno presso l’Osservatorio Astrofisico di Torino un gruppo di ricerca che lavora per scoprire e misurare le proprietà fisiche dei pianeti al di fuori del Sistema Solare. Di questo gruppo Damasso è membro attivo da circa 10 anni.
Lo studio dei pianeti extrasolari è molto importante in quanto strettamente legato alla ricerca di un pianeta simile alla nostra Terra dove eventualmente si possano verificare tutte le condizioni necessarie alla comparsa ed evoluzione della vita. Una spiegazione certamente molto semplificata, in quanto cosa sia la vita, come si sia sviluppata ed evoluta, e quali condizioni l’abbiano permesso sono questioni complesse che richiedono competenze multidisciplinari per essere affrontate.
Io posso parlare dal punto di vista di un “cacciatore di pianeti”, il cui compito è quello di individuare — tra gli altri — quei mondi che possano rivelarsi interessanti per la loro potenziale abitabilità. Sicuramente questa prospettiva ha rappresentato uno stimolo decisivo per intraprendere questa carriera, ma andando avanti nel tempo mi sono appassionato a molti altri aspetti legati alla ricerca dei pianeti extrasolari, in particolare di quelli che non hanno somiglianza alcuna con i pianeti del nostro Sistema Solare.
Come spiega Damasso scoprire mondi e architetture diverse da quelle del Sistema Solare offre un’incredibile opportunità per capire come quest’ultimo si sia formato ed evoluto. Fino a 25 anni fa non avevamo sistemi planetari con cui confrontare il nostro, mentre ora possiamo parlare di planetologia comparata e demografia planetaria, cosa che rende lo studio dei pianeti extrasolari molto affascinante e importante.
Com’è organizzata la giornata di uno scienziato che guarda così lontano? Curiosamente per la maggior parte del tempo… in ufficio, per l’analisi dei dati raccolti dalle osservazioni astronomiche fatte con telescopi a terra o dallo spazio.
Il mio lavoro è fatto di collaborazioni internazionali, per questo motivo organizziamo molto spesso delle videoconferenze per discutere nuovi risultati e novità con colleghi sparsi in Europa, negli Stati Uniti e in Sud America. Alcune volte succede che vada personalmente a trascorrere delle notti osservative per raccogliere parte dei dati su cui poi lavorerò.
Queste osservazioni sono principalmente condotte al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) alle isole Canarie, che ospita anche uno strumento molto particolare chiamato spettrografo HARPS-N. Uno dei più potenti per la ricerca dei pianeti attorno ad altre stelle, lo spettrografo HARPS-N è in grado di suddividere la luce proveniente dalle stelle nelle sue varie componenti per poterla analizzare. Anche gli osservatori astronomici sopra le nostre teste aiutano però in questo campo della ricerca ad esempio, spiega Damasso,
il telescopio chiamato Kepler ha fornito un notevole contributo alla scoperta di nuovi mondi, grazie al quale sono stati rivelati pianeti in transito di fronte alla loro stella.
Osservare dallo spazio è molto utile perché, in assenza del disturbo dell’atmosfera terrestre, è stato possibile scoprire pianeti di piccole dimensioni (all’incirca come la nostra Terra), cosa che non sarebbe possibile fare utilizzando telescopi da terra a causa dei deboli segnali prodotti da questi pianeti. Spiega Damasso,
Per le mie ricerche utilizzo soprattutto dati raccolti da strumenti chiamati spettrografi montati su telescopi di grandi dimensioni che osservano dalla Terra.
Oltre all’HARPS-N montato presso il telescopio TNG delle Canarie, in Cile nel deserto dell’Atacama, c’è l’HARPS montato al telescopio svizzero da 3.6 metri di diametro e lo spettrografo di ultima generazione chiamato ESPRESSO, montato su uno dei telescopi da otto metri che costituiscono il Very Large Telescope (VLT).
Una volta raccolti i dati osservativi ha inizio il vero e proprio lavoro e in particolare per scoprire nuovi pianeti esistono diverse tecniche:
Per le mie ricerche utilizzo due tecniche chiamate “metodo del transito fotometrico” e “metodo delle velocità radiali”, che sono quelle più prolifiche: la gran parte dei pianeti extrasolari è stata scoperta e studiata utilizzando una (o entrambe) di queste tecniche.
Si tratta di metodi “indiretti”, nel senso che il pianeta non viene osservato, non viene visto, ma se ne deduce l’esistenza dalla presenza di segnali specifici che si possono rivelare analizzando la luce della stella attorno alla quale orbitano. Queste tecniche sfruttano effetti fisici piuttosto semplici, ma richiedono una strumentazione sofisticata che fino a venticinque anni fa non era disponibile, a maggior ragione quando si parla di pianeti di piccole dimensioni e piccola massa, come la Terra.
Il metodo dei transiti si basa sulla possibilità che, dal punto di vista della Terra, un pianeta venga osservato passare di fronte — transitare, appunto — al disco della propria stella, producendo una caratteristica diminuzione della sua luminosità per tutta la durata del passaggio. Un fenomeno che, se si considera una singola stella, è a priori molto difficile da osservare, perché l’allineamento necessario tra Terra, pianeta e la sua stella è una condizione che si verifica molto raramente. Per questo motivo le campagne osservative condotte da terra e dallo spazio cercano i segnali dovuti ai transiti prendendo in considerazione il maggior numero di stelle possibili, aumentando così la probabilità di rivelarne qualcuno. Il satellite Kepler è stato il più prolifico cacciatore di pianeti con il metodo dei transiti, permettendo anche la scoperta di pianeti di piccole dimensioni.
Il metodo delle velocità radiali, invece, si basa sulla misura della velocità con cui una stella si muove attorno al baricentro del sistema stella-pianeti. Questo metodo non è influenzato dall’allineamento tra stella e pianeta, come nel caso del metodo dei transiti, e richiede una strumentazione diversa come gli spettrografi menzionati prima.
E come fa notare Damasso,
attualmente siamo in grado di misurare la velocità di una stella che corrisponde a quella di una persona media mentre cammina tranquillamente durante una passeggiata… incredibile!
Ma torniamo alla sua scoperta: il 15 gennaio 2020 è stato ufficialmente battezzato come Proxima Centauri c il nuovo pianeta, scoperto da Damasso con il suo gruppo, che ruota attorno alla stella Proxima Centauri (la stella più vicina al Sole e per questo particolarmente interessante per la ricerca di nuovi pianeti). Bisogna dire che non è il primo pianeta scoperto attorno a questa stella, già nel 2016 ne era stato scoperto uno chiamato Proxima Centauri b, la cui stella, come spiega sempre Damasso, è circa dieci volte più piccola del Sole. Attorno a questo tipo di stelle ci si aspetta di trovare sistemi planetari composti di pianeti di piccolo raggio e piccola massa.
Mi sono interessato allo studio di Proxima dopo la scoperta del primo pianeta Proxima b, effettuata con il metodo delle velocità radiali, con lo scopo di confermare la sua esistenza tramite tecniche di analisi dati alternative e cercare la presenza di altri segnali interessanti che potessero essere attribuiti ad altri pianeti. Ho iniziato così una collaborazione con altri colleghi per intraprendere questa nuova avventura, e ho avuto la possibilità di analizzare in anteprima nuove misure raccolte dal Cile anche perché la stella Proxima non può essere osservata dal nostro emisfero. Le analisi hanno rivelato la presenza di un secondo segnale che noi abbiamo catalogato come di possibile origine planetaria, anche se saranno necessarie altre osservazioni nei prossimi anni per confermare l’esistenza di Proxima c.
Ormai sono accreditati più di 4.000 mondi che orbitano attorno a stelle lontane, perché questa scoperta è così importante? Se confermato, Proxima c sarebbe il pianeta con la massa più piccola scoperto finora con il metodo delle velocità radiali alla distanza di 1.5 unità astronomiche dalla sua stella, che è la stessa distanza che separa Marte dal Sole. Infatti, più un pianeta si trova lontano dalla sua stella più diventa complicato rivelarlo, specialmente se si tratta di un pianeta di massa relativamente piccola. Secondo i calcoli effettuati, Proxima c avrebbe una massa pari ad almeno sei volte quella della Terra.
C’è un’altra ragione che renderebbe Proxima c molto accattivante. Data la distanza del pianeta dalla sua stella, e considerata la “breve” distanza che ci separa da Proxima, i telescopi più grandi attualmente in funzione sarebbero in grado di osservare direttamente il pianeta, ma c’è un grande ostacolo che probabilmente impedirà di farlo ancora per molti anni.
Alcuni pianeti sono stati realmente fotografati, ma come fa giustamente notare Damasso – tenendo presente che quello che si osserva sono punti di luce, non è infatti possibile distinguere il disco del pianeta – si tratta di pianeti giganti appena formati attorno alla loro stella, i quali emettono ancora luce che proviene dal processo della loro formazione: tali pianeti si stanno infatti raffreddando.
Nel caso di Proxima c abbiamo due differenze principali: non è un pianeta gigante, ed è un pianeta già vecchio. Si stima che Proxima abbia un’età di poco superiore a quella del Sistema Solare, circa cinque miliardi di anni, che in termini di formazione planetaria è un’età molto avanzata. Per questo, l’unica possibilità di osservare direttamente Proxima c è rivelare la luce della sua stella che viene riflessa dal pianeta verso di noi.
Perché i nostri telescopi ne ricevano abbastanza da poter far emergere il segnale del pianeta occorre però che Proxima c sia per esempio circondata da un esteso sistema di anelli come quello di Saturno, in grado di riflettere molta più luce di quella che potrebbe riflettere il solo disco del pianeta. Insomma, fotografare direttamente Proxima c è probabilmente al di là delle nostre possibilità attuali, ma una cosa è comunque sicura: se non riusciremo a dimostrare la presenza di Proxima c tentando di fotografarlo, questo fallimento non sarà una prova che il pianeta non esiste, ma probabilmente una dimostrazione dei limiti attuali della strumentazione a nostra disposizione.
Questo nuovo pianeta, la cui massa è metà di quella di Nettuno, e dista meno di 1.5 unità astronomiche, viene definito una Super-Earth, ovvero una Super-Terra, ma cosa significa? Il termine Super-Terra è un neologismo che gli astrofisici hanno introdotto per indicare una nuova categoria di pianeti che, pur essendo molto frequenti attorno ad altre stelle, non ha alcun rappresentante nel nostro Sistema Solare, circostanza che rende le Super-Terre particolarmente intriganti.
La definizione, come spesso accade in ambito scientifico, non deve essere considerata immutabile, ma frutto dei risultati ottenuti fino ad ora. Definiamo Super-Terre quei pianeti che hanno una massa tipicamente inferiore a 10 volte la massa della Terra, ma il termine non vuole identificare una categoria di pianeti con precise caratteristiche come per esempio la composizione chimica e la presenza di una determinata atmosfera, poiché non siamo ancora in grado di identificare tali caratteristiche in modo accurato e univoco.
I dati analizzati provengono da quelli raccolti dal 2000 al 2017, un periodo apparentemente molto lungo, ma il periodo del segnale attribuito a Proxima c, di poco superiore a cinque anni, è circa 3 volte più breve dell’intervallo di tempo durante il quale sono state collezionate le osservazioni di Proxima su cui hanno lavorato gli scienziati. Come fa notare Damasso, per poter essere sicuri che il segnale sia di natura planetaria — per sua natura “regolare”, cioè tale da ripetersi periodicamente senza modificare le sue caratteristiche da un’orbita all’altra — avremmo bisogno che il pianeta completasse molte più orbite. Questo richiede di avere molta pazienza!
Damasso e il suo gruppo nell’annunciare la scoperta hanno anche detto chiaramente che il segnale deve essere necessariamente confermato continuando a osservare Proxima nel corso degli anni. Fortunatamente però, oltre alla tecnica delle velocità radiali, possono contare sulle misure complementari eseguite dal satellite Gaia, un’altra missione spaziale che ha l’obiettivo di realizzare una mappa della nostra galassia e che vede un’importante partecipazione dell’Italia e dell’Osservatorio di Torino. Grazie al satellite Gaia dovrebbe essere possibile avere una conferma della scoperta entro due o tre anni.
Quali sono le difficoltà di attribuire il segnale esclusivamente a un pianeta?
Quello che sappiamo è che fenomeni legati all’attività magnetica di una stella, possono “contaminare” i dati come quelli che abbiamo analizzato, introducendo dei segnali reali a tutti gli effetti che possono essere erroneamente attribuiti a pianeti. L’attività stellare si può manifestare attraverso segnali con periodo corrispondente a quello di rotazione della stella, e questo segnale lo abbiamo trovato nei dati di Proxima Centauri, che ruota su se stessa con periodo vicino ai 90 giorni. Inoltre, possiamo aspettarci di trovare nei dati segnali che possono essere dovuti a un ciclo di attività magnetica di lungo termine, quello del Sole ad esempio ha un periodo di circa 11 anni, e si è scoperto che quello di Proxima — con i dati attualmente a nostra disposizione — ha una durata di circa sette anni. Questo intervallo di tempo è diverso dal periodo orbitale del pianeta Proxima c, ma non così tanto da renderci certi che il segnale che abbiamo trovato non sia dovuto al ciclo di attività stellare. Occorre ancora capire che caratteristiche ha precisamente il ciclo di attività di Proxima e per farlo si può solo continuare ad accumulare osservazioni della stella per altri anni, esattamente ciò che dobbiamo fare per poter confermare il segnale planetario.
Visto che la stella Proxima Centauri è a poco più di quattro anni luce dalla Terra, uno scenario plausibile potrebbe essere l’invio di una sonda in prossimità della stella per raccogliere dati più da vicino.
Sono a conoscenza dell’iniziativa “Breakthrough Starshot” che ha proprio la finalità di costruire e inviare nanosonde verso il sistema di Proxima Centauri. L’idea è certamente avveniristica e presuppone l’utilizzo di sistemi di propulsione innovativi per permettere a queste sonde di raggiungere Proxima in circa 20 anni.
Molte sfide di tipo ingegneristico devono essere affrontate prima che quest'idea si concretizzi, e alla base del progetto c’è senz’altro la speranza dei responsabili di ottenere risultati già nel corso della loro vita.
Da parte mia, spero che la scoperta di Proxima c possa essere confermata prima di intraprendere questo viaggio ma senza equipaggio: se il pianeta esiste davvero, a quel punto sarebbe splendido ricevere una foto da una delle nanosonde che invieremo!
Tornando con i piedi per terra, la prossima tappa dello studio sarà attendere i dati della missione Gaia, e nel frattempo tentare di osservare direttamente il pianeta rivelando la luce di Proxima riflessa da Proxima c, per esempio utilizzando strumenti come SPHERE installato al VLT in Cile.
Fotografare un pianeta con le caratteristiche di Proxima c utilizzando la strumentazione a disposizione è un’impresa davvero ardua, con poche possibilità di riuscita a priori, ma c’è una differenza tra cercare un pianeta procedendo alla cieca e cercarlo sapendo più o meno dove guardare. Infatti, i risultati dello studio indicano qual è l’orbita del pianeta e in particolare qual è la distanza massima che può raggiungere dalla sua stella. Questo permette di restringere molto il campo di osservazione attorno a Proxima, concentrandosi su regioni di spazio definite e delimitate, ma con tutta la ricerca che ci sarà ancora da fare la caccia resterà aperta ancora per lungo tempo.
👍 Si ringrazia il dott. Mario Damasso dell’Osservatorio Astronomico di Torino per l’intervista e la sua preziosa attività di ricerca.