Illustrazione © Giuseppe Conti
A lungo il Piemonte è stato il punto di partenza per numerosi migranti: prima stagionali, in seguito sempre più definitivi. Solo in tempi più recenti la regione è diventata meta di robusti flussi migratori in entrata. Da qualche anno, invece, quest’ultima tendenza pare essersi invertita, e il Piemonte sembra tornata una regione prevalentemente di emigranti.
Ad andarsene all’inizio erano artigiani, agricoltori e allevatori provenienti dalle località montane e temporaneamente diretti in Svizzera o in Francia.
Nel 1851 il numero di italiani oltralpe ammontava già a 63.000 su un totale di 380.000 stranieri, cifra che lievitò a 163.000 nel 1876 e a 240.000 nel 1881: il 30% di questi era composto da piemontesi. Dopo l’Unità ai fenomeni stagionali si sommarono flussi migratori permanenti. Non è facile distinguere chi andava all’estero soltanto per qualche stagione da chi invece optava per mete più lontane e definitive. Tuttavia, a un certo punto la quota di emigrazione definitiva aumentò vistosamente, visto che già nel biennio 1876–78 il 94% dei piemontesi scelse destinazioni diverse dalle tradizionali. Infatti, circa 5.500.000 migranti si trasferirono negli Stati Uniti e 700.000 in Canada tra il 1861 e il 1965, mentre, nell’arco di quindici anni, le partenze piemontesi per Argentina e Brasile balzarono dal 3 al 43%. Tra il 1876 e il 1900, circa la metà degli emigrati italiani proveniva da tre regioni settentrionali: Veneto (17,9%), Friuli Venezia Giulia (16,1%) e Piemonte, contribuendo quest’ultima con una quota pari al 13,5%.
Tra fine Ottocento e il 1914 l’emorragia proseguì visto che, ogni anno, circa l’1% dei piemontesi abbandonava la regione. Poco alla volta questa tendenza si invertì: a partire dalla conclusione del Primo conflitto mondiale i trasferimenti dei piemontesi diminuirono progressivamente e si intensificarono gli arrivi. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale i flussi in uscita rallentarono ulteriormente, mentre negli anni del boom le correnti migratorie da altre regioni italiane si fecero inarrestabili. Tra le regioni settentrionali il Piemonte fu quella che, nella decade 1950–60, attirò il numero maggiore di immigrati. In un primo tempo, gli immigrati giungevano da altre regioni settentrionali; a partire dal 1955, i flussi provennero con crescente intensità dalle regioni meridionali. Questi movimenti furono l’elemento principale del ricambio della popolazione piemontese e dell’interruzione del decremento demografico iniziato nel decennio bellico.
La recessione economica degli anni Settanta provocò una graduale diminuzione degli spostamenti interni verso il Piemonte, mentre una quantità sempre maggiore di individui provenienti dal sud-est del mondo cominciò a muoversi verso l’Italia. Come altre regioni economicamente avanzate, anche il Piemonte è stata una delle destinazioni favorite dai migranti stranieri. Nel 1981 il numero di nuovi arrivi fu soltanto di 8.200 unità, ma dodici anni più tardi la quota balzò a 39.000. Nel 2000 gli stranieri raggiunsero i 107.000, e 231.000 nel 2006, il 5,3% della popolazione complessiva. Gli stranieri attualmente presenti in Piemonte sono 422.000.
Dopo circa dodici anni di continua crescita demografica, dovuta soprattutto ai movimenti migratori in entrata, nel 2014 si è osservata per la prima volta un’inversione di tendenza, confermata dai dati dell’anno successivo. Al 31 dicembre 2015 la popolazione residente in Piemonte ammontava infatti a 4.404.246 unità, 20.000 in meno rispetto all’anno precedente. Il calo non è dovuto soltanto al fenomeno della denatalità, ma anche all’intensificarsi di due movimenti opposti tra loro: l’aumento delle partenze verso l’estero e la parallela frenata delle immigrazioni. Da notare, inoltre, una decisa diminuzione delle persone che lasciano il Piemonte per altre regioni italiane (erano 140.718 nel 2012, sono scese a 118.549 nel 2015) dovuta al perdurare delle difficoltà economiche del paese. Se la media del numero delle cancellazioni dalle anagrafi piemontesi si è aggirata, dal 1999 al 2007, sulle 3.000 unità annuali, senza grandi oscillazioni da un anno all’altro, solo nel 2008 si è registrato un incremento di 1.500 partenze in più rispetto ai dodici mesi precedenti. Da allora la crescita non si è più arrestata, arrivando a 11.295 cancellati per l’estero nel 2015, il 52% in più rispetto al 2008.
Questo indirizzo è ribadito anche dai dati relativi ai primi nove mesi del 2016. Da gennaio a settembre 2016 dalle anagrafi piemontesi risultano infatti 9.056 iscritti in meno dell’anno precedente. Se il trend sarà confermato anche nei restanti mesi del 2016, significherà che tra gennaio 2016 e gennaio 2017 avranno lasciato la regione più di 12.000 piemontesi. A questo movimento in uscita si affianca una ragguardevole diminuzione delle iscrizioni dall’estero: dopo il picco di arrivi del 2007, dal 2008 al 2014 si è rilevata una riduzione del 60% degli iscritti, passati da 45.600 a quasi 19.000 unità.
Secondo l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, al 1° gennaio 2016 gli italiani oltreconfine sarebbero 4.811.163. Di questi, 258.034 hanno origine piemontese, rendendo così il Piemonte l’ottava regione italiana per partenze verso l’estero. Ma chi sono i piemontesi che espatriano, e quali ragioni li spingono ad andarsene? Prendendo come riferimento il periodo 2008–2014, risulta che il 60% dei migranti provenienti dal Piemonte siano italiani appartenenti alla fascia d’età compresa tra i 20 e i 44 anni. Solo il 21% ha meno di 20 anni. Il restante 40% dei cancellati per l’estero, invece, è cittadino straniero, e tale popolazione è aumentata di oltre il 120% in sette anni. Tra il 1999 e il 2015, la provincia di Torino ha fatto registrare la percentuale maggiore di cancellazioni anagrafiche per l’estero, seguita da Cuneo, Alessandria e Novara. I motivi principali dietro queste partenze, almeno per quanto riguarda i cittadini italiani, sono da ricercare nel periodo di difficoltà economica che il paese sta attraversando e nella conseguente crisi occupazionale. Non solo: a quanto pare anche il contesto relazionale del paese accogliente, ossia la presenza di reti sociali, più ampie rispetto al passato, in cui si muovono i migranti, gioca un ruolo importante.
Tra i paesi con maggiore presenza di piemontesi ci sono l’Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti. Tra il 1876 e il 1976 sbarcarono in Argentina 2.969.402 italiani: inizialmente si trattava di individui provenienti dall’Italia nordoccidentale. Il Piemonte ha fornito all’Argentina il maggior numero di emigranti in assoluto. Il periodo di maggior boom emigratorio fu quello tra il 1881 e il 1900, quando più di un piemontese su quattro che lasciava la sua terra lo faceva scegliendo come destinazione l’Argentina. I piemontesi inizialmente si diressero nel nord-ovest del paese, mentre successivamente preferirono Santa Fé e Còrdoba. La provincia di Cuneo fornì il contributo maggiore: dalla sola provincia Granda tra il 1876 e il 1915, ben 90.759 persone si trasferirono in Argentina senza fare più ritorno in patria.
Anche il Brasile fu meta prediletta per molti piemontesi. L’emigrazione italiana di massa in Brasile prese il via intorno al 1875, quando veneti, lombardi e piemontesi si trasferirono nello stato di Espírito Santo, nel sud-est, e a Rio Grande do Sul, nella parte meridionale del paese. I piemontesi, in particolare, scelsero in prevalenza le città di San Paolo e Belo Horizonte. Complessivamente, tra il 1884 e il 1959 arrivarono circa 4.700.000 persone da tutto il mondo, di cui pressappoco 1.500.000 italiani.
Come accennato, tra il 1861 e il 1965 circa 5.500.000 italiani giunsero negli Stati Uniti. È difficile oggi quantificare con esattezza i piemontesi e le famiglie di origine piemontese residenti negli Stati Uniti. Tuttavia, grazie agli apporti dei piemontesi alla società americana, nel 2016 il Piemonte è stato scelto come “Region of Honor” dalla National Italian American Foundation, un’associazione rappresentante gli oltre 20 milioni di italo-americani negli Stati Uniti. Per tutto lo scorso anno, e fino al mese di aprile 2017, l’associazione ha organizzato una serie di eventi per far meglio conoscere le ricchezze piemontesi a tutti gli americani.
Una peculiarità piemontese, ossia l’estrema varietà linguistica, in parte si deve proprio ai movimenti migratori. In aggiunta all’ampia gamma di dialetti regionali (alcuni dei quali non hanno origine piemontese, come le parlate lombarde del Verbano-Cusio-Ossola e di Novara, le parlate emiliane diffuse nel sud-ovest della regione e quelle liguri dell’Alta Valle del Tanaro e della Bormida, delle Langhe e del Monferrato meridionali e delle Valli della Scrivia), in Piemonte si contano ben quattro comunità linguistiche minoritarie. Si tratta delle comunità occitane, franco-provenzali, francesi e walser. La lingua minoritaria più diffusa è l’occitano (conosciuto dal 3,9% dei residenti), seguita dal francoprovenzale (1,6%), dal francese (1%), e infine dalla lingua walser, conosciuta soltanto dallo 0,2% dei piemontesi. I piemontesi in grado di utilizzare questi idiomi ammontano a circa 281.000 unità.
La parlata occitana è utilizzata nelle vallate alpine occidentali lungo il confine francese. Si tratta di una lingua galloromanza conosciuta da circa 180.000 persone sparse in più di cento comuni. Anche a Guardia Piemontese (Cosenza) è sopravvissuta un’isola linguistica occitana. La sua presenza si deve all’insediamento di comunità valdesi, originarie della val Pellice, le quali, tra il XIII e il XIV secolo, per sfuggire alle persecuzioni, si trasferirono a Guardia Piemontese e in altre località, come Montalto Uffugo, Vaccarizzo, San Vincenzo La Costa e San Sisto dei Valdesi. Tra queste, l’occitano è sopravvissuto soltanto a Guardia Piemontese.
Veduta e costumi tradizionali di Guardia Piemontese.
Anche il francoprovenzale appartiene alla famiglia delle parlate galloromanze, comprende diversi dialetti ed è diffuso nelle valli della provincia di Torino a nord della Val Sangone. L’area francoprovenzale, che comprendeva circa 80.000 abitanti negli anni Novanta, ora racchiude meno di 70.000 persone distribuite in una cinquantina di comuni. Il francoprovenzale è parlato anche in Valle d’Aosta, nei distretti francofoni della Svizzera, e nelle regioni francesi della Savoia e della valle del Rodano. Il francoprovenzale è conosciuto, insieme all’italiano e al dialetto pugliese, anche nei centri di Faeto e Celle di San Vito (Foggia). Come sia giunta così a sud una comunità francoprovenzale è ancora tema di dibattito tra i linguisti.
Isole linguistiche francesi sono presenti in Alta Val Susa e in Val Pellice. Nei diciotto comuni che nel 2006 si sono dichiarati appartenenti al gruppo minoritario francese (tra cui Susa, Torre Pellice, Pinasca e Villar Perosa), il francese è affiancato all’occitano a eccezione di Susa, dove invece l’altra lingua minoritaria è il francoprovenzale. Il francese è inoltre lingua di culto e della cultura teologica nelle Valli valdesi dal 1532.
La varietà walser è la meno diffusa in Piemonte. Si tratta di una parlata di origini germaniche il cui nome significa “vallesano”, ossia proveniente dal Canton Vallese. Da qui, a partire dal Medioevo, gruppi di dissodatori di terre poste in alta montagna si spostarono verso sud. Essi erano diretti verso l’Italia nordoccidentale, e i feudatari li chiamavano, con la promessa di affidare loro i terreni resi coltivabili, con lo scopo di allargare e di assicurare la difesa dei propri domini. La lingua walser è oggi conosciuta in alcuni centri del Verbano-Cusio-Ossola e della Val Sesia. Il numero di coloro in grado di parlare il walser si dovrebbe attualmente aggirare sulle 8.000 unità.
I movimenti migratori sopraccennati hanno ispirato numerosi autori e trovato spazio in opere di pressoché tutti i generi letterari: dalla lirica al teatro, dalla saggistica alla narrativa, fino alla musica popolare. Sono svariate, infatti, le canzoni, frequentemente scritte in dialetto, in grado di dare voce ai timori e alle speranze comuni a molti migranti piemontesi. Tra queste, spesso anonime e diffuse con molte varianti, basti ricordare Jolicoeur e Quand ca na sie la-su ‘n Savoia, incentrate sull’emigrazione piemontese in Francia. Anche il poeta Nino Costa, tra i più importanti dialettali piemontesi, nel 1924 rivolse alcuni versi “aj Piemunteis ch’a travajo fora d’Italia” nella lirica Rassa nostrana, peraltro ricordata nel 2015 da Papa Francesco in occasione di un’omelia a Torino.
Proprio dall’esperienza di un viaggio compiuto in Argentina nel 1884, Edmondo De Amicis (nato in Liguria nel 1846, allora appartenente al Regno di Sardegna, e cresciuto in Piemonte) ricavò il materiale per il romanzo Sull’Oceano (1889), forse la prima cronaca letteraria dedicata all’emigrazione transoceanica. L’intreccio dei racconti raccolti a bordo del piroscafo Galileo, diretto in Argentina, permette una graduale presa di coscienza sul problema dell’emigrazione e delle drammatiche condizioni a cui erano costretti molti migranti piemontesi (e non solo) durante il viaggio e nel corso della permanenza all’estero. Gli stessi temi furono ripresi nei bozzetti raccolti nel volume In America (1897). Testimonianze dei movimenti migratori interni e di quelli diretti verso la Francia si trovano anche in molte pagine del cuneese Nuto Revelli, in particolare in uno dei suoi scritti migliori, Il mondo dei vinti (1977), e ne L’anello forte (1985), quest’ultimo dedicato al ruolo svolto dalle donne nella società contadina piemontese, da decenni minata da trasformazioni continue e svuotata dalle migrazioni verso la città.
Alla luce di quanto esposto, le notizie dei continui arrivi di migranti in Italia dovrebbero perdere il loro carattere straordinario poiché spostamenti di popolazioni sono pressoché sempre avvenuti: oggi cambiano soltanto le destinazioni e le provenienze degli individui coinvolti. Fatta ovviamente salva la necessità che spesso spinge le persone ad abbandonare il proprio paese d’origine, ciò che preoccupa dell’attuale tendenza migratoria sono le ricadute negative per la popolazione piemontese: un generale invecchiamento dovuto a un insufficiente processo di rinnovamento, la ripercussione economica sul welfare regionale, e lo squilibrio tra forze in entrata e in uscita. La mobilità è infatti una risorsa preziosa finché la circolazione avviene secondo un giusto equilibrio, ma perde i propri benefici se l’allontanamento di talenti non è compensato dalla permanenza di legami con la regione di partenza e dalla capacità di attrarre nuovi soggetti con pari competenze. Infatti, se complessivamente il 12% dei piemontesi è in possesso di un titolo di studio terziario, ben il 26% dei cancellati per l’estero è laureato o possiede un titolo superiore alla laurea; per contro, metà della popolazione straniera residente in Piemonte ha al massimo la licenza media, e solo il 10% un titolo di studio. Se, come pare, queste tendenze si confermeranno anche in futuro, nel medio e lungo termine ci potrebbero essere conseguenze negative per i piemontesi che hanno deciso, o sono stati costretti, a restare tra i confini regionali.
FILMOGRAFIA