Si è da poco celebrato il centenario dell’armistizio che, nel novembre 1918, pose fine alla Grande Guerra. Guerra mondiale, quella del '15-'18, colossale mattanza nella quale un’intera generazione venne decimata. E guerra tecnologica, non la prima — il dubbio onore spetta alla guerra di Secessione americana — ma certo quella nella quale, per la prima volta, la tecnologia divenne il vero grande fattore critico.
Circa 10 milioni di morti fra i militari e non, meno di 8 milioni di morti fra i civili (e di questi, circa 6 milioni in seguito a carestie e malattie dovute alla guerra). E altri 10 milioni di prigionieri, internati in campi di lavoro.
Di questi, una percentuale in fondo modesta, “solo” 25.000 uomini, era costituita da “Italiani irredenti” — vale a dire da quei soldati di origine italiana provenienti da quei territori ancora sotto controllo dell’Impero austro-ungarico. Erano stati arruolati nelle truppe imperiali, e mandati sul fronte russo perché sul fronte occidentale non avevano soddisfatto i propri ufficiali, che ritenevano opportuno utilizzare solo “elementi di pura razza tedesca”. Gli italiani andavano bene solo per combattere i russi.
Una testimonianza di prima mano, quella di Silvio Zucchelli di Riva, ci permette di capire il senso di disorientamento di questi uomini:
Il 16 agosto arrivammo in Galizia, vicino a Leopoli, in una zona di pianura: arrivammo col treno di notte ed eravamo già sulla linea del fronte. Noi eravamo nei campi di patate e i russi erano trincerati sulle colline. Ci mandarono all’attacco il giorno dopo: attaccammo coi cannoni e coi fucili e riuscimmo a prendere le trincee russe. Mi ricordo che il fondo delle trincee era tutto coperto di scorze di semi di girasole che i russi mangiavano in continuazione. Il 5 di settembre attaccammo nella zona di Bels; ma i russi riuscirono a chiuderci in una specie di ferro di cavallo. Il 7 attaccarono i russi; erano almeno il doppio di noi e ci ritirammo. Io feci una fuga di almeno un chilometro e finii… in bocca a loro. Fui fatto prigioniero nel paese di Rovaruska.
Questi prigionieri Talianski si trovavano ora in un curioso limbo diplomatico — la nazione per la quale avevano combattuto era stata sconfitta, e i territori dai quali provenivano (Friuli, Trentino, Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e Zara) appartenevano ora a una diversa nazione. Chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro?
Nel luglio del 1917, nel campo di lavoro di Kirsanov, ce n’erano 2.600, di questi “Irredenti”. Soldati di truppa, ai quali si aggiungevano 52 ufficiali. Erano in attesa di essere rimpatriati, ma la loro posizione era ambigua. A dire il vero, nel 1914, il governo russo si era offerto di restituire immediatamente i prigionieri provenienti dai territori irredenti all’Italia, a patto che gli italiani (all’epoca neutrali), si schierassero con gli alleati. Ma il governo italiano aveva declinato l’offerta, preferendo preservare la propria neutralità. Poi l’Italia era entrata in guerra, e l’intera questione era passata in secondo piano. A Kirsanov, nel 1917, arrivò Marco Cosma Manera, astigiano, classe 1876.
Manera aveva iniziato la propria carriera militare in Fanteria per poi passare ai Carabinieri. Nel 1904, col grado di tenente, era stato assegnato al Ministero degli Interni, che lo aveva mandato in Macedonia come consulente per la riorganizzazione della Gendarmeria macedone. In quell’occasione Manera decise di farsi conoscere col suo secondo nome: dopo uno scontro la vita gli era stata risparmiata perché il suo avversario aveva scoperto di essere suo omonimo.
In seguito a quella missione per il Governo italiano Manera divenne l’uomo da mandare all’estero: conosceva l’inglese, il tedesco, il francese e il russo, e sapeva cavarsi d’impaccio anche in greco, turco e bulgaro. Era un uomo pratico, che risolveva problemi, e godeva del rispetto dei comandi alleati. Nel 1908, per il suo servizio nei Balcani, Manera venne insignito del titolo di Commendatore dell’Ordine del Madjdieh da parte del governo ottomano.
Col grado di capitano Manera era stato in Albania, e dopo aver servito nell’area del Cadore, allo scoppio della Grande guerra, venne inviato a Bengasi. E poi, nel 1916, in Russia come parte della Missione Italiana in Siberia, il cui scopo era trovare e recuperare gli Italiani irredenti. Un pugno di ufficiali, poche carte diplomatiche, e un gruzzolo in oro per coprire le spese. I rimpatri avevano avuto inizio attraverso infinite difficoltà, fra lungaggini, disguidi e confusione. Il comando della missione era affidato al colonnello Achille Bassignano, ma quando questi venne rimpatriato all’inizio del 1918, e gli altri ufficiali si imbarcarono per accompagnare i prigionieri sulla strada di casa, Cosma Manera assunse il comando e arrivò a Kirsanov.
Con la partenza del magg. Squillero e del cap. Moda per Arcangelo, onde proseguire per l’Inghilterra e per l’Italia, io rimango l’unico ufficiale dell’Arma distaccato in Russia… Finora abbiamo raccolto e spedito per l’Italia circa 1.700 prigionieri al comando dei predetti due Ufficiali; un altro scaglione altrettanto forte partirà il mese venturo… Io sono destinato al comando di un terzo scaglione di eventuale formazione e d’incerta partenza, per la probabile chiusura dei mari polari.
A Kirsanov Manera raccolse gli uomini nel campo di prigionia e li organizzò in tre battaglioni, come membri delle forze armate italiane, provvedendo al loro ri-addestramento — bisognava pur fargli fare qualcosa, mentre si attendeva il rimpatrio e il ripristino della disciplina militare divenne uno strumento psicologico per riscuotere gli uomini dalla disperazione della prigionia. Manera aveva già visto gli effetti della disciplina sul morale proprio nel suo primo incarico, quando aveva dovuto formare un corpo di polizia in Macedonia, nel quale lavoravano fianco a fianco cristiani ortodossi e musulmani. Dare ai propri uomini un’uniforme, un inquadramento e soprattutto uno scopo era indispensabile per permettere loro di sopravvivere.
Gli Irredenti cominciarono quindi il proprio addestramento in attesa del rimpatrio. Ma il rimpatrio non arrivò. Scoppiò invece la Rivoluzione. Per evitare che gli italiani fossero coinvolti negli scontri, mentre la nazione sprofondava nel caos, Manera decise di portare i suoi uomini a Vladivostok affinché venissero imbarcati e riportati in Italia.
I porti sul Baltico e sul Mar Nero erano inagibili, ma con la Transiberiana era ancora possibile raggiungere il Pacifico e il grande porto di Vladivostock. Ma anche il lungo viaggio in treno lungo la Transiberiana si concluse in un vicolo cieco. Non c’erano passaggi disponibili, per gli italiani o per chiunque altro, nella città serrata dai ghiacci e minacciata dalla guerra civile. Cosma Manera decise allora di puntare verso Tientsin, sede della Legazione Italiana in Cina. Circa 1.200 chilometri a piedi attraverso la Manciuria, in pieno inverno.
La traversata della Manciuria non solo si concluse con successo e con pochissime perdite, ma permise a Manera di allacciare dei contatti con elementi russi lealisti (i cosiddetti “Russi Bianchi”), che di fatto rappresentavano ciò che restava del governo russo alleato dell’Italia allo scoppio della guerra. Ciò spinse Manera a decidere di riorganizzare il proprio contingente di Irredenti, per impiegarlo come truppe italiane in appoggio alle attività degli alleati. Non facile, considerando che dei 1.500 uomini del distaccamento di Manera presenti a Tientsin (gli altri erano stati trasferiti alla Legazione di Pechino), solo 300 avevano in dotazione dei fucili, presi a prestito dai francesi, e delle uniformi (incluso un cappello da alpino con coccarda tricolore) fornite dai giapponesi. Gli uomini erano ospitati nelle Indian Barraks del Consolato Inglese. Manera, dal canto suo, era stato nominato “attaché militare italiano a Tokyo con residenza a Pechino”, in modo da risolvere i garbugli diplomatici della sua effettiva posizione, e quella dei suoi uomini.
Nasce in questo modo la Legione Redenta che viene aggregata al Corpo italiano di spedizione in Estremo Oriente. La missione di queste unità: mantenere aperta la linea ferroviaria attraverso la Manciuria che gli alleati usano per rifornire i Russi Bianchi in Siberia. Fra l’estate del 1918 e quella del 1919, gli italiani si scontrano con i sovietici a Irkutsk, Harbin e Vladivostok.
Agli Irredenti di Manera si unisce l’improbabile “Brigata Irregolare Savoia”, un’“unità” di circa trecento ex prigionieri italiani che un ragioniere italiano, Andrea Compatangelo, aveva liberato spacciandosi per ufficiale dell’Esercito italiano. Dotati di uniformi italiane confezionate ad hoc a spese del loro “capitano”, questi uomini avevano percorso la Transiberiana su un treno blindato, combattendo al fianco di forze cecoslovacche e Russi Bianchi. Un’altra storia improbabile che vale la pena ricordare.
Poi, finalmente, nel 1920, gli uomini di Manera rientrarono in Italia, sbarcando a Trieste e poterono tornare alle proprie case. Ricevettero un Encomio Solenne e, alcuni di loro, la Croce al Merito. Uno di loro, secondo la leggenda, si portò a casa un orso che regalò allo zoo di Roma. Cosma Manera, promosso tenente colonnello per meriti speciali, venne nuovamente assegnato al servizio internazionale e trasferito a Batum, sul Mar Nero, a capo della missione italiana. La lettera nella quale si caldeggia la promozione di Manera, e la sua assegnazione all’Ordine di San Maurizio e Lazzaro, recita:
Dando uno sguardo a tutta l’opera spiegata in Russia dal Maggiore Manera non si può non rimanere ammirati di fronte a tanta feconda attività. Sono tre anni interamente dedicati alla causa dei redenti che di lui sono stati e sono la occupazione e la preoccupazione costante, che di lui hanno assorbita ogni attività fisica e intellettuale, attraverso difficoltà d’ogni genere dalle quali solo una tempra salda quale è quella del maggiore Manera poteva trionfare […] si tratta di ufficiale che conta 25 anni di spalline, la maggior parte dei quali impiegata in importanti missioni all’estero i cui ottimi risultati dicono delle di lui elevate qualità personali […] ottimo conoscitore di uomini e di cose, dotato di spirito di penetrazione, sa in ogni questione scegliere la via giusta e va senza tergiversare diritto allo scopo.
Manera servì successivamente in Italia. Nominato colonnello nel 1927, fu destinato a comandare la Legione di Roma, e in seguito quelle di Milano, Livorno e Bologna. La sua carriera proseguì fino agli anni ’40, quando si ritirò dal servizio attivo col grado di generale di brigata. Le sue operazioni in Russia gli erano valse anche la Croce di Guerra del governo britannico, oltre alle onorificenze ricevute da Russia, Polonia e Bulgaria. Si spense nel 1958, all’età di 82 anni.