Marzo del 1959, sulla sommità di una collina prossima alla piazza di Valmontasca (frazione di Vigliano d’Asti). Durante le operazioni di scavo per la posa di una conduttura dell’acquedotto, alcuni operai rinvengono a 70 cm di profondità dei frammenti ossei di grandi dimensioni. Il sindaco, Giovanni Battista Conti, avvisa la Soprintendenza alle Antichità. Il professor Carlo Carducci, allora Soprintendente, insieme ad alcuni esperti dell’Istituto di Paleontologia dell’Università di Torino, effettua i primi sopralluoghi e certifica l’importanza scientifica del ritrovamento: uno scheletro quasi completo di balenottera fossile, lungo circa 8 metri. Le operazioni di recupero durano 26 giorni e lo scheletro viene trasportato al Museo Regionale di Storia Naturale di Torino. Diversi anni dopo furono ritrovate altre parti della stessa balena: gli arti inferiori nel 1961 e 1970, una vertebra nel 2008. Il cetaceo, risalente al Pliocene (5,4 — 1,8 milioni di anni fa) è morfologicamente analogo all’attuale Balenoptera acutorostrata Lacepede; è conosciuto come Viglianottera, il nome che gli è stato dato attraverso un concorso popolare.
La presenza dei resti sepolti di cetacei (delfini, capodogli, balenottere, balene) risalenti al Pliocene è nota da tempo a chi abita le colline astigiane, ed è memoria di una geografia e di un paesaggio marino perduti, per visualizzare i quali è necessario riassumere la storia del Mediterraneo: in origine era solo una parte del grande oceano della Tetide, esteso tra il continente africano e quello euroasiatico, ma con l’avvicinarsi della masse continentali la comunicazione tra Mediterraneo e Atlantico si è ridotta allo stretto di Gibilterra e il Mediterraneo ha assunto, tra i 6 e i 7 milioni di anni fa, la forma attuale, quasi chiusa. Nel Pliocene il Mediterraneo era già molto simile a oggi.
Nel nord della penisola italiana l’unione tra le Alpi e gli Appennini aveva determinato la formazione di un rilievo arcuato che divenne la delimitazione di una grande insenatura del mare, proprio nel luogo dell’attuale Pianura Padana. Il territorio astigiano era allora costituito da una conca di mare poco profondo limitata a meridione dalle colline delle Langhe, a ovest da una fascia poco profonda lungo il golfo cuneese, a nord da un’isola stretta e lunga in corrispondenza del Monferrato settentrionale, a est invece comunicava con il mare padano e con il resto del Mediterraneo. È proprio in questa conca astigiana che, insieme a numerosissimi resti fossili soprattutto di molluschi, si conservano scheletri di balenottere e di delfini. Forse in queste acque basse i mammiferi marini venivano portati già morti dalle correnti, oppure vi si radunavano in occasione delle fasi della riproduzione e alcuni rimanevano intrappolati nelle secche. L’accumulo graduale dei sedimenti ha determinato col tempo il sollevamento dei fondali marini e il ritiro del mare; la definitiva emersione di tutta l’area, con la formazione di un ambiente continentale, è avvenuta tra i 2 e i 3 milioni di anni fa.
Il Piemonte è senza mare, quindi, da almeno due milioni di anni. Eppure potrebbe essere non del tutto errato sostenere che di quel paesaggio e fauna perduti restano ancora nella memoria inconscia delle tracce, delle possibilità di visione e di empatia, alimentate dalle scoperte paleontologiche dei resti fossili marini, iniziate nel XIX secolo. O forse no, è una favola, non c’è nessun fil rouge che ci lega a quelle balene del passato, nulla che possa far pensare che le balene, in qualche modo, siano un elemento della cultura piemontese, cioè di chi abita e vive le colline che ne conservano e nascondono i resti antichi.
La balena è uno degli animali che da sempre più impressionano, spaventano e affascinano gli uomini, e le molte testimonianze nella letteratura (dalla Bibbia a Pinocchio a Moby Dick) ne trasmettono la potenza visiva e la forza simbolica. Le balene vivono solo fuori dagli acquari e anche se oggi sappiamo esattamente come sono fatte — a differenza dei secoli passati quando venivano rappresentate nei modi più fantasiosi — vederne una dal vivo non è un’esperienza che capita a tutti.
Nel luglio del 1954, pochi anni prima del ritrovamento della Viglianottera, una balena norvegese rimase esposta in piazza Arbarello a Torino, sotto un tendone da circo, per sei giorni. Si chiamava Goliath e si poteva visitare dentro e fuori. L’aveva acquistata in Norvegia l’impresario teatrale Giuseppe Erba, allora direttore del Teatro Alfieri, fiutando l’affare. La balena, lunga 22 metri e del peso di 68 tonnellate, era stata uccisa al largo di Trondheim, svuotata dai balenieri per ricavarne olio, carne, grasso e riempita di 7.000 litri di formalina per fermarne la decomposizione. Erba la fece trasportare su ferrovia fino al confine italiano e poi a Torino su un autotreno costruito appositamente. Nei giorni dell’esposizione ogni mattina, racconta il critico teatrale Alfonso Cipolla, Erba faceva il giro della balena per raccogliere i vermi fuoriusciti dalla carcassa, e poi li rivendeva ai pescatori come esche. Sotto il sole di luglio la balena iniziò presto a emettere un odore acre, nonostante la formalina e i vasi di gerani che ne arredavano l’interno, e dopo sei giorni l’esposizione fu chiusa.
Ma la seconda vita di Goliath, come balena da esposizione, non finisce qui. Viene acquistata da due imprenditori svizzeri che sul finire degli anni ’50 le organizzano un tour europeo, affiancandole altre due balene morte e imbalsamate. Nel 1969, al termine di una tournée in Medio Oriente, Goliath è in Israele, ad Haifa, ed è qui che viene comprata da Gustavo Cottino, geniale impresario di luna park e di spettacoli ambulanti, originario di Pinerolo.
“La caricammo ad Haifa sulla nave fuori coperta” — racconta lo stesso Cottino — “Purtroppo un violento fortunale ci sorprese a duecento miglia dal porto di Bari distruggendo la copertura e una parte di essa. Fui obbligato allo scarico e a nascondere il trasporto nei capannoni della fiera di Bari perché ricostruimmo il tutto di cartapesta. Erano rimasti originali solo i suoi lunghi fanoni [i “denti” della balena, n.d.a.].”
La nuova Goliath, pressoché interamente rifatta in cartapesta, arrivò a Torino nel 1970. Rispetto agli anni ’50, stava cambiando il rapporto tra gli uomini e gli animali, e sorgevano istanze ambientaliste e animaliste. Per non suscitare proteste, nell’esposizione accanto a manifesti che riportavano scene di cattura delle balene, ne furono affissi altri con la scritta “Fermiamo la strage delle balene”; Cottino poteva anche giocare sul fatto che si trattasse di un animale ormai quasi tutto finto, e che infatti non puzzava più. La prima esposizione del 1970, durata un mese, venne replicata nel 1972 al Parco del Valentino con grande successo. Di lì a poco di Goliath si perdono le tracce.
Mentre per secoli le balene ci hanno fatto paura — si pensi ai racconti nel bestiario anglosassone di balene che si fingono isole, sulle quali i marinai sbarcano, e poi la bestia si solleva e li inghiotte — il successo di queste esposizioni in pieno XX secolo è il segno di uno slittamento di percezione e di desiderio: dal terrore di essere inghiottiti dalla balena si passa al desiderio di entrarci. Certo, se l’animale è morto, o persino di cartapesta, è più facile. Ma è anche vero che tutti siamo consapevoli che dentro la balena si trova sempre qualcosa.
Giona, il profeta, è il primo ad essere stato ingurgitato da un “grande pesce”, vi rimane tre giorni, in realtà non vi trova nulla o non ci viene raccontato, finché su comando di Dio il pesce lo vomita sulla spiaggia sano e salvo; Luciano di Samosata (Storia vera, II secolo d.C.) viene inghiottito con un’intera nave, e su un’isola nel ventre della balena trova e stermina diverse tribù fantastiche, prima di riuscire a uscire — dopo quasi due anni — dalla bocca del pesce; Pinocchio nel Pesce-cane ritrova il padre Geppetto, inghiottito due anni prima; Ruggiero (Orlando furioso, IV Canto) vi trova un vecchio pescatore dai lunghi capelli e dalla barba bianca, che gli rivela che la balena è il luogo in cui Alcina tiene prigionieri gli amanti che le sono sfuggiti, tant’è che poco dopo Ruggiero vi incontra anche Astolfo. Insomma, il ventre della balena nella letteratura è un luogo di avventure e di incontri rocamboleschi, ma quasi sempre è possibile una via di fuga. Sarà forse questo improbabile lieto fine, e la possibilità di starsene quieti dentro un mammifero marino e nello stesso tempo fuori da tutto il resto del mondo, ad aver fatto scrivere a George Orwell:
Trovarsi nel ventre della balena è un’idea confortante e piacevole… Escluso l’esser morti, è lo stadio finale e inarrivabile di irresponsabilità.
Nel suo saggio di carattere politico-sociale Nel ventre della balena (1940), Orwell vide nell’essere inghiottiti dal grande cetaceo, anzi nel lasciarsi inghiottire, una metafora del disimpegno. In Moby Dick, invece, dove Herman Melville raccoglie praticamente tutto lo scibile sulle balene noto a metà ‘800, la balena è “la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo” (le parole sono di Cesare Pavese). Agli occhi dei lettori di oggi, in Moby Dick il male è incarnato soprattutto da Achab, il capitano della nave, che nella folle caccia personale alla balena bianca porta alla rovina tutti i suoi marinai, decine di uomini che si alternavano sulla testa d’albero nella speranza di avvistare il soffio del Leviatano.
Per chi avranno parteggiato, per Achab o per la balena, i primi lettori del romanzo? Difficile dirlo, anche perché il libro, pubblicato nel 1851, iniziò ad essere letto e amato solo qualche decina di anni dopo. Cesare Pavese a 24 anni, due dopo la laurea, ne portò a termine la prima traduzione italiana, uscita nel 1932 nelle edizioni torinesi Frassinelli. Ma nella balena bianca, secondo Pavese, non c’è nulla da scoprire; il suo significato pauroso è appunto il non avere un significato, essere un vuoto, un nulla, una forza bruta. Chissà se Pavese avrebbe ceduto alla tentazione di entrare nel ventre di Goliath, che approdò a Torino, in piazza Arbarello, quattro anni dopo la sua morte.
La balena norvegese di Giuseppe Erba (1954) fu l’evento apripista, in Torino, al voyeurismo verso gli animali. Nel gennaio 1955 il Comune stabilisce con una delibera di dotare la città di uno zoo, che verrà aperto al pubblico nell’ottobre dello stesso anno presso l’odierno Parco Michelotti. Su La Stampa del 15 gennaio 1955 si poteva leggere:
Così poco pittoresca è la vita contemporanea in una grande città, così tediose e monotone sono le giornate malgrado il tumulto delle cose e dei casi straordinari — anzi, proprio per questo, perché nulla v’è di più malinconico del non potersi più stupire, nel male e nel bene — , che l’idea degli elefanti e delle tigri, degli orsi e dei pitoni, delle scimmie e dei marabù sulle rive del Po, ridestò in tutti, grandi e piccini, fantasie liete, colorite di esotismo. Benvenute dunque le belve, quando giungeranno in questa nordica e nebbiosa Torino.
A guardare a lungo gli animali, però, bisogna stare attenti. È fulminante l’inizio di un racconto di Julio Cortázar:
Ci fu un’epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell’acquario del Jardin des Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl.
L’axolotl, nome scientifico Ambystoma mexicanum, è un tipo di salamandra in stato di larva che viveva in un lago presso Città del Messico. Il protagonista del racconto torna ogni giorno a guardarli nell’acquario del Jardin des Plants a Parigi (uno dei primi zoo animali del mondo, fondato nel 1793), sente una inspiegabile attrazione verso quell’essere.
Gli occhi degli axolotl mi parlavano della presenza di una vita diversa, di un’altra maniera di guardare. Con il volto contro il vetro (qualche volta il guardiano tossiva, inquieto) cercavo di vedere meglio i minuti punti aurei […]. Era inutile battere con il dito sul vetro, davanti ai loro volti; mai si avvertiva la benché minima reazione. Gli occhi d’oro continuavano ad ardere nella loro dolce, terribile luce; continuavano a guardarmi da una profondità insondabile che mi dava le vertigini.
Nel capovolgimento finale del racconto l’osservatore si rende conto di essere egli stesso un axolotl intrappolato nel corpo di un uomo. Una vendetta dello sguardo, insomma, una nemesi degli zoo e di tutti quei luoghi nei quali si è andati a guardare gli animali per possedere, per trovare conferme, per curiosità e noia.
In tutto questo, le balene del Pliocene piemontese sembrano non c’entrare nulla. Sono vissute in un periodo nel quale l’uomo ancora non esisteva; oggi le possiamo vedere solo morte e scheletrizzate, in un incontro che avviene in differita di qualche milione di anni. Loro, di certo, non possono guardare noi. Eppure, è Pavese a fornirci la possibilità di un legame. Nell’introduzione alla prima traduzione di Moby Dick, difendendo la ricerca di una tradizione letteraria da parte degli scrittori americani (snobbati dagli Europei perché ritenuti parvenus della cultura, privi di storia), scrisse:
avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla.
Una tradizione che si ha in tasca sin dalla nascita, cioè, da sola è poca cosa. Vale, nella formazione di una cultura, quello che si conosce davvero e che si è selezionato tra le innumerevoli esperienze del passato; quello che, soprattutto, si è ancora disposti a cercare, foss’anche negli strati sepolti di un mare scomparso.