In una città come Torino, che aveva visto la ricostruzione affermarsi secondo modelli tradizionali, spesso banali, ma anche permeati da un certo regionalismo, la ricorrenza del Centenario dell’Unità d’Italia sembra essere l’occasione per mettere in mostra il progresso tecnico anche nell’architettura. Il comitato organizzatore dell’esposizione che verrà allestita a Torino da maggio a ottobre 1961, predilige quindi la costruzione di strutture “razionali”, “industriali” e “universali”, come se queste forme fossero portatrici di un’ipotetica idea internazionale. Oltre che per le due gigantesche strutture del Palazzo del Lavoro su progetto di Pier Luigi Nervi e del Palazzo delle Mostre (oggi noto come Palavela) su progetto di Annibale e Giorgio Rigotti, ma con il fondamentale contributo di Franco Levi e Nicolas Esquillan, anche per i padiglioni regionali si opterà per una soluzione tecnica assolutamente neutrale che non lascia spazio a un dibattito tra regionalismo e internazionalismo, relegando i particolarismi localistici negli allestimenti interni.
Potendo mobilitare capitali e catalizzare sulla città molte attenzioni nazionali e internazionali, l’esposizione che Torino si appresta a organizzare per il Centenario dell’Unità d’Italia mette in gioco alleanze strategiche e geometrie istituzionali tra le élites riconosciute della città. Nelle prime ipotesi sulle forme che la città avrebbe dovuto assumere in occasione del centenario, sia quelle avanzate nelle assemblee cittadine che quelle che si leggono nei dietro le quinte degli uffici direzionali della grande industria, si definisce il disegno delle trasformazioni domandate dai settori modernizzanti delle élites industriali torinesi. La scelta dell’area, le aspirazioni della classe industriale e, in parte, quelle dell’amministrazione comunale, sono elementi che concorrono a definire il quadro degli interessi coinvolti e a ritagliare sullo sfondo di un’ampollosa macchina organizzativa il ruolo della grande impresa e di alcuni personaggi chiave, che tessono le fila di una straordinaria operazione di legittimazione di un progresso industriale, ma non certo nazionale, a cui fanno da contrappunto nel resto d’Italia carenze macroscopiche.
A sinistra: Palazzo del Lavoro: vista notturna (© Archivio Storico Fiat). A destra: allestimento interno del Palazzo del Lavoro (© Associazione Amici Italia ’61).
Nei vari comitati organizzativi spiccano invece i rappresentanti di quella classe dirigente settentrionale che dalle aule dei Politecnici era salita ai vertici delle aziende pubbliche e private, e che aveva avuto un ruolo di primo piano nel processo di industrializzazione del paese. Osteggiate dall’opposizione come inutilmente dispendiose e convenzionale retorica dell’industrialismo, le manifestazioni di Italia ’61, allestite in piena congiuntura espansiva, si presentano come la cristallizzazione delle politiche della giunta centrista guidata da Amedeo Peyron che aveva assunto un ruolo da protagonista nella ricostruzione della città.
Si definisce l’immagine di quella Torino, città pilota della tecnica così minuziosamente tratteggiata nelle pagine di Torino 1961. Ritratto della città e della Regione, atlante colorato e suggestivo delle risorse della città, il cui ritmo operante e vigoroso, ma anche sobrio e misurato è ribadito in Piemonte terra di pionieri, il volume che accompagna il visitatore nel padiglione piemontese alla Mostra delle Regioni. La ville industrielle delineata da Pierre Gabert, che celebra i fasti del centenario dalla sua posizione ormai consolidata di centro motore dello sviluppo industriale, mostra però i segni di una crescita disordinata e troppo rapida. Il 1961 sarà la data limite che segna, a Torino e nell’intero paese, la fine del clima della ricostruzione, l’inizio dell’industrializzazione dei consumi, ma soprattutto l’incrinarsi del mito del miracolo economico.
Il cantiere d’Italia ’61 rimane per Torino la prima occasione di grande architettura, assieme al poco più tardo concorso per il Centro Direzionale. La costruzione del comprensorio espositivo mette in moto il cantiere tecnicamente più innovativo e complesso del dopoguerra torinese. L’anello di congiunzione tra i luoghi di decisione politica e la costruzione del comprensorio, è rappresentato dalla Commissione consultiva tecnico-edilizia che sovrintende tutte le gare di appalto, gestisce i contratti con le imprese e coordina le direzioni lavori degli edifici principali. Presiede la commissione l’allora assessore ai Lavori pubblici, Gian Carlo Anselmetti, ponte ideale con l’amministrazione comunale. Vicepresidente ne è invece Vittorio Bonadé Bottino, direttore del Servizio Costruzioni e Impianti della Fiat, che in qualità di presidente di giuria nei vari appalti e concorsi, tiene le fila dell’intero cantiere.
Nelle intenzioni del Comitato promotore questo imponente complesso espositivo avrebbe dovuto esprimere, concentrando arditezza tecnica e avvenirismo, le nuove potenzialità espansive della economia italiana e, allo stesso tempo, lasciare in eredità alla città un insieme di infrastrutture immediatamente riutilizzabili. L’esposizione del 1961, sceglie di puntare, nella migliore tradizione delle Esposizioni Universali, sulla retorica del progresso della tecnica.
I preparativi per le manifestazioni diventano un potente acceleratore, l’occasione per costruire strutture durature e utilizzabili anche per l’avvenire, perseguendo l’idea di investire su opere, dettate più da esigenze di immagine che da uno strutturato progetto di incremento di dotazioni pubbliche. Una concezione urbanistica datata e inadeguata, quella della costruzione della città per parti, porta a concentrare tutti gli sforzi su un’area limitata e periferica della città. Il parco di Millefonti viene strappato alla città per ospitare l’Esposizione Internazionale del Lavoro (EIL), la Mostra delle Regioni, i servizi generali e una serie di manifestazioni collaterali. L’impostazione delle tre mostre evolverà di continuo e le incertezze e la confusione sui programmi espositivi caratterizzeranno tutto il periodo precedente l’inaugurazione in un continuo rimpallo di responsabilità, affermazioni e smentite circa la funzione dei vari complessi che via via sorgeranno nell’area espositiva. Un piano urbanistico affidato all’architetto Nello Renacco, ma continuamente rimesso in discussione, quando già la maggioranza degli appalti è stata bandita e le continue incertezze sulla collocazione dei padiglioni espositivi, confermano la distanza tra contenuto e contenitore duramente criticata dallo storico Bruno Zevi come pericolosa “dissociazione procedurale”.
Il piano prevede quattro ingressi di cui i principali a nord e a sud del tratto di Corso Polonia, l’asse attorno a cui si sviluppa il comprensorio. All’EIL è riservato il lembo a sud in modo da non schiacciare tutte le prospettive visuali dell’area espositiva. All’esterno viene collocato un laghetto artificiale che separa il Palazzo del Lavoro dal Palazzo delle Mostre. Il complesso delle Regioni strutturato in elementi articolati composti per moduli viene disposto invece in chiave antimonumentalistica nella zona tra Corso Polonia e il Po.
All’estremo nord di questa zona e in prossimità della stazione di arrivo di una funivia che porterà al Parco Europa sulla collina di Cavoretto, è previsto un teatro all’aperto, mai realizzato. In posizione baricentrica rispetto all’intero comprensorio sono collocati i servizi generali. Il collegamento tra i vari padiglioni è affidato a una monorotaia aerea a sistema Alweg, da un servizio con trenini elettrici e da un servizio di taxi con vetture appositamente carrozzate dalla Fiat. La mancanza di una logica funzionale di collegamento o di interscambio nei rapporti distributivi fra la linea di una monorotaia, scelta solo per la sua forte valenza simbolica, e la dislocazione dei padiglioni, riconferma l’intento di realizzare un sistema di trasporto originale e avvincente, ma slegato dall’organicità del complesso, privilegiando piuttosto la rassegna delle visuali panoramiche che si godono dal convoglio.
A sinistra: schizzo di Gio Ponti della monorotaia aerea (© Archivio di Stato di Torino). A destra: schizzo della monorotaia in corsa (© Associazione Amici Italia ‘61).
Tranne rare eccezioni, la cultura architettonica torinese rimane essenzialmente estranea al progetto del comprensorio espositivo. Domenico Morelli e Felice Bardelli, si occuperanno delle stazioni di partenza e arrivo della monorotaia, essenziali fabbricati in ferro e cemento, e del disegno dei pilastri in cemento armato, le travi in precompresso sono calcolate da Riccardo Morandi. Sergio Nicola, Aldo Rizzotti e Augusto Romano vincono il concorso per il padiglione dei servizi generali in cui spicca la piccola cappella, con copertura a falde triangolari appoggiate in due punti e equilibrate da tiranti collocati agli estremi del colmo. Agli architetti Giuseppe Varaldo e Gian Pio Zuccotti vengono invece affidati il progetto della fontana luminosa che ha il compito di mascherare con un suggestivo movimento d’acqua il Corso Caduti sul Lavoro che taglia l’area del comprensorio espositivo, la progettazione esecutiva della viabilità interna, la consulenza tecnico-artistica per ristoranti e bar, la consulenza per la distribuzione dei posteggi interni e esterni. A Leonardo Mosso e Domenico Mattia viene invece affidata la progettazione della recinzione esterna e delle torri di ingresso. Nel comprensorio viene inserito l’insieme dei laghi, che interrompono le vaste zone erbose, e rappresentano gli elementi di cucitura tra le zone est e ovest di Corso Polonia, specie di sera quando riflettono i padiglioni.
I progetti di Renacco per il comprensorio della Mostra delle Regioni e di Carlo Casati affiancato dal grafico Erberto Carboni per il padiglione unitario, ribaltano le simbologie da manierismo tecnicista suggerite sia dal concorso per il Palazzo del Lavoro che dal costruendo Palazzo delle Mostre. Anziché essere un’ennesima concessione al tipico complesso per esposizioni, di dimensioni gigantesche, impressionante per potenza dei volumi, ma angosciosamente incombente sul visitatore, predilige una successione di elementi architettonici moderati in un unico insieme paesistico-ambientale. L’alternarsi di spazi esterni e interni costituiscono un’alternanza di quinte, inquadranti squarci di collina, boschi e tratti di fiume, mentre le pensiline sopraelevate che li collegano scorrono immerse nel verde. Mentre i padiglioni regionali e i servizi generali pensati come strutture effimere da smontare a celebrazioni ultimate sono realizzati in ferro e vetro con elementi prefabbricati, per i padiglioni espositivi principali, l’intento è quello di ricreare le grandi aule espositive tipiche del XIX secolo, strutture razionali, industriali e universali, prefigurando la restituzione alla città di costruzioni strutturalmente e tecnicamente perfette, in grado di trasmettere all’immaginario collettivo il messaggio del progresso e della “città — industria”, rispondendo alla retorica che vede nella ricerca di forme semplici e di forte immediatezza comunicativa, gli strumenti per l’acquisizione del consenso.
Italia ’61 è il cantiere che punta a dare un’immagine del progresso tecnico raggiunto dalla grande città industriale, il cantiere in cui, almeno all’apparenza, sembra concretizzarsi, anche nel campo costruttivo, quell’organizzazione razionale del lavoro, simbolo del progresso dell’industria automobilistica, a cui la cultura tecnica intellettuale aspirava sin dall’anteguerra. La retorica ufficiale restituisce un’idea del mito modernista, che l’insieme delle costruzioni del comprensorio deve rappresentare, enucleando con slogan quasi pubblicitari le innovazioni tecnologiche applicate e trasformando l’esposizione in un campo di sperimentazione e di applicazione di tecnologie costruttive avanzate e di una organizzazione forzatamente tayloristica del cantiere. L’aspetto più interessante del catalogo ufficiale delle celebrazioni e dei notiziari che accompagnano la fase organizzativa delle celebrazioni, è proprio la presa in conto degli aspetti costruttivi dei padiglioni espositivi di Italia ’61, intesi non solo come meri contenitori, bensì come parte del progetto culturale alla base della kermesse. L’enfasi dei grandi numeri — il numero di ore lavorative, quello delle persone coinvolte o i metri cubi di calcestruzzo utilizzato — è usata come strumento di stupefazione e sbalordimento, la base per la creazione del consenso. Si tratta di una retorica pluriconsolidata che trova il suo modello consumato nella linea inaugurata dal Chrystal Palace di Paxton dove il cantiere dell’Esposizione era tornato a essere il luogo in cui la tecnologia riacquista il suo valore sociale.
Nel film Omicron di Ugo Gregoretti del 1963, gli edifici di Italia ’61, il tracciato sopraelevato della monorotaia, assieme a inquadrature del Palazzo del Lavoro e del Palazzo delle Mostre, disegnano ancora lo scenario di una metropoli futuribile e fantascientifica, ma il futuro di quella città immaginata, con i suoi giganteschi ruderi, è invece una cronaca di demolizioni, progressivi abbandoni e progetti mancati.