"Pavese era un timido e perciò assumeva spesso un’aria austera, fredda, ma internamente era di un’umanità ricchissima e di una sensibilità addirittura esasperata. Le sue lezioni erano di una chiarezza cristallina, scevre da ogni enfasi retorica e da ogni compiacenza del dire. Il suo linguaggio scabro, limato, essenziale".
Sono alcuni dei ricordi rilasciati a chi scrive nel 1972 dall’avvocato Giorgio Allario Caresana, già allievo di prima liceo al “Lagrangia” di Vercelli durante l’anno scolastico 1933 — 1934, l’unico durante il quale Cesare Pavese vi insegnò Lettere italiane, preceduto dal professor Vincenzo Craici e seguito da Giovanni Fontana.
Allario Caresana sarebbe diventato non solo professore di Storia dell’Arte in quella stessa scuola, dal 1945 al 1949, ma anche esponente di spicco della vita culturale vercellese. E il Liceo Ginnasio “Lagrangia” esisteva sin dalla riforma scolastica che iniziò i Ginnasi — Licei, ossia la legge Casati del 13 novembre 1859.
In quanto a Pavese, che in quell’anno vercellese, per così dire, contava 25 anni (essendo nato il 9 settembre 1908), non era alle prime armi come insegnante, sia privato che pubblico, persino nelle scuole serali. In una lettera a Leone Ginzburg, scritta da Bibiana il 20 agosto 1929, aveva già raccontato scherzando le proprie peripezie di “precettore”. Soprattutto, il 24 luglio 1932, aveva scritto ad Antonio Chiuminatto, che stava a Chicago (a lui Pavese aveva chiesto in precedenza di trovargli un lavoro in America):
Già ho insegnato filosofia. Non so cosa non ho insegnato finora: oltre all’italiano e all’inglese, a quanto ricordo: latino, geografia, storia, francese, greco. Che faccia di bronzo, dirai tu! Conosco l’insegnamento fino alla feccia, in attesa di poter dire altrettanto della vita.
Aveva insegnato a Bra, Saluzzo, Carmagnola.
Ed era già da tempo immerso nella letteratura, nella narrativa e nella poesia, negli autori americani, nelle traduzioni dall’inglese. Per un compenso di mille lire aveva già tradotto Moby Dick di Melville e Riso Amaro di Anderson. Proprio nel 1933 aveva tradotto Il 42° parallelo di John Dos Passos e Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce.
L’anno precedente, per poter insegnare nelle scuole pubbliche, aveva seguito malvolentieri l’insistente consiglio della sorella Maria e di suo marito, e si era iscritto al Partito nazionale fascista. D’altra parte, morto il padre nel 1914 e la madre nel 1930, pochi mesi dopo la laurea, viveva con loro a Torino e desiderava non pesare sul bilancio famigliare.
I suoi allievi vercellesi lo hanno appunto ricordato anche nelle vesti di pendolare:
Mi accadeva sovente d’incontrarlo fuori della scuola: alla stazione. Io viaggiavo avanti e indietro da Robbio a Vercelli e Pavese da Vercelli a Torino. Era sempre solo ma non vidi mai in lui un invito a dialogare, così credo che non ci parlammo mai. Soltanto lo ricordo là, alla stazione, in attesa del treno,
ha ricordato Sergio Simonelli, suo allievo di seconda liceo, insieme, tra gli altri, a Fernando Lojacono, al quale devo (1972) quest’altro ricordo:
Mi capitò talvolta di accompagnarlo alla stazione dove si recava a prendere il treno per Torino, ma durante il percorso taceva o si esprimeva a monosillabi.
Per quell’iscrizione al partito dovuta a esigenze di lavoro, Pavese avrebbe rimproverato la sorella in una lettera del 29 luglio 1935, scritta dal carcere romano di Regina Coeli:
Ho già fatto una volta la parte dello stupido, ne ho abbastanza. A seguire i vostri consigli, e l’avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza, che si è tirata dietro tutto il presente stato,
e aveva aggiunto:
Io, di suppliche, ne ho fatte qualche volta a una donna, mai ad altri.
Perché Maria gli aveva da poco scritto invitandolo a rivolgere una supplica a Mussolini, per cavarsi dai guai in cui si trovava. Ma questa è un’altra storia.
A riportarci a Vercelli è la testimonianza di Giovanni Dellordio, allievo di Pavese in prima liceo:
Era l’unico docente a non indossare il distintivo del Fascio sull’occhiello della giacca, un atto di coraggio a quei tempi!
Ma procediamo con ordine.
Se scrivo di testimonianze ricevute personalmente nel 1972 da alcuni ex allievi di Pavese al “Lagrangia” è perché in quell’anno ho pubblicato un piccolo libro, frutto di una ricerca sull’argomento compiuta per un giornale locale. La ricerca, effettuata con lo scopo di gettare un po’ di luce su un momento della vita di Pavese mai prima considerato, mi aveva portato, sulla scorta dei registri dell’Istituto, a rintracciare nei limiti delle mie possibilità i suoi ex allievi per intervistarli, ottenendo in prestito da loro per la pubblicazione (da Baldassarre Buffa e da Sergio Simonelli), due preziose e allora inedite fotografie di classe.
Prima di allora il prof. Giorgio Berzero, già preside del “Lagrangia” dal 1945 al 1960, aveva pubblicato in un volume commemorativo un interessante ricordo di Pavese in quel 1933–34.
Aveva infatti trascritto dal Registro dei verbali quanto avvenuto nel giugno 1934 durante la seduta dell’intero corpo insegnanti per la scelta dei libri di testo. Si legge in quel volume (1960):
Il prof. Cesare Pavese, insegnante di italiano e latino nel Liceo, fa acute osservazioni confrontando il “Manuale di Storia della Letteratura italiana” dei proff.ri Galletti ed Alterocca con quello di Eugenio Donadoni. Egli preferisce quest’ultimo perché “più efficace e più entrante dal punto di vista didattico e fornito di maggior chiarezza sintetica”, laddove il testo di Galletti ed Alterocca gli risulta “più confuso e più disperso nella trattazione” […]. A proposito della letteratura latina lo stesso Pavese preferisce il testo di Giuseppe Lipparini a quello del Vivona, il cui tessuto stilistico è scialbo, monotono, infarcito di notiziole messe sullo stesso piano dei passi fondamentali, arretrato nei giudizi, mentre la “Storia” del Lipparini presenta in forma facile e convincente gli autori, specialmente i poeti con monografie, direttamente citando i passi delle opere trattate ed offrendo l’addentellato a sviluppi illustrativi. Il Preside Morelli da parte sua osserva che forse la “Storia della Letteratura Latina” del Lipparini non merita una lode così accentuata, né quella del Vivona un giudizio così sommario.
Il preside Giuseppe Morelli, immortalato in quelle foto di classe accanto a Pavese (in quella di prima liceo i due paiono prendere inconsapevolmente le distanze, ma è una lettura mia personale del linguaggio del corpo), era giunto al “Lagrangia” nel dicembre 1933 per sostituire Arturo Bersano, trasferito a Torino.
Quali erano i rapporti tra il giovane professore e il preside?
Secondo Baldassarre Buffa (allievo di prima liceo),
Il preside lo contrastava sovente in decisioni e discorsi,
mentre il già citato Sergio Simonelli ha ricordato come l’attività di Pavese fosse così interessante che
a molte sue lezioni si presentò come uditore il preside Morelli, che evidentemente lo apprezzava.
Nelle tre classi di liceo, miste (ma le ragazze erano in grossa minoranza), Pavese ebbe complessivamente 65 allievi: 23 in prima, 21 in seconda e altrettanti in terza. Mi dispiacque moltissimo non aver rintracciato qualcuna delle “ragazze”, così da poter ottenere testimonianze femminili sull’uomo Pavese, presumibilmente di particolare interesse.
Non mancarono d’altronde alcune osservazioni di indole personale, effettuate dagli ex allievi maschi:
Fisicamente appariva goffo ed assumeva buffi atteggiamenti nel suo incedere, nel suo star seduto in cattedra, oppure nel suo modo d’infilare la porta della classe […] I brevi istanti in cui sorrideva il suo viso si illuminava, ma erano momenti rari; e anche se così chiuso e privo di comunicativa, io sentivo di capirlo e forse di volergli bene;
Era un tipo allampanato con un paio di occhialoni;
Non rideva mai, non cercava la frase ad effetto e noi, che con altri insegnanti attendevamo il momento per ridere e far chiasso, non ci muovevamo nemmeno quando lui parlava delle “porcaccionate” (diceva proprio così) del Giovin Signore del Parini o delle “sconcezze” di Benvenuto Cellini;
Era un tipo introverso e mi pare di ricordare che fosse eccessivamente nervoso e camminasse su e giù per la stanza durante le lezioni;
Era di temperamento molto chiuso, timido, votato al mutismo ed era molto difficile vederlo sorridere, tuttavia s’intuiva in lui un animo buono e generoso, una profonda e sentita umanità;
Lo ricordo esile e vestito piuttosto dimessamente di blu o di grigio; mi pare che la sua caratteristica fosse una certa mancanza di affabilità, di gioviale comunicativa, ma come insegnante era ineccepibile e lo si ascoltava con piacere;
Ricordo un Pavese freddo, estremamente istruito ma in apparenza privo di passione per l’insegnamento, introverso, schivo e restio a parlare di sé. Non ricordo di averlo visto sorridere una sola volta; le sue lezioni erano però interessanti;
Era assai comprensivo e tollerante; aveva sovente un’aria distratta come se fosse con la testa tra le nuvole.
Colpisce, fra l’altro, quell’assenza di sorriso, colta quasi all’unanimità. Ma Pavese, indole a parte, non stava vivendo proprio allora il tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo? Questo i suoi allievi non potevano saperlo.
Di particolare interesse le testimonianze sul suo metodo d’insegnamento, sui suoi principi didattici:
Era un insegnante intelligente, colto, impegnato. Era perciò una delizia ascoltarlo e io speravo sempre che non smettesse: da qui il mio rimpianto quando lasciò la scuola;
Era un insegnante equo e le sue valutazioni erano quanto mai precise e improntate ad un alto senso di giustizia;
Come professore, a differenza degli altri che insegnavano nel modo classico, ossia trionfalistico e nozionistico, mi fece comprendere, in un periodo in cui per noi allievi la cosa era quasi fantascientifica, che gli autori della Letteratura sono anche suscettibili di critica, mi fece capire l’importanza e il gusto dell’ironia nella letteratura e tutto questo con lezioni a livello pressoché universitario. Il suo sistema di dare i voti era poi diverso dall’usuale: valutava la cultura generale, la sensibilità: non avrebbe mai bocciato chi dimenticava una data o un cognome;
Non interrogava usando il sistema tradizionale, ma instaurava un vero e proprio colloquio, interessandosi prima se il prescelto era preparato e disposto a conversare sul tema della lezione;
Il suo voto era veramente un giudizio e io sono convinto che molte pretese degli studenti di oggi [1972] con Pavese sarebbero superflue. Personalmente sentivo molto il suo fascino e ammiravo la novità costituita dal suo metodo d’insegnamento;
So di certo che il suo metodo d’insegnamento fu una novità per noi che lo trovammo meno opprimente e pedante di certi altri insegnanti che l’avevano preceduto;
Ci interrogava dal posto e curava poco le cose formali.
Risale all’autunno 1934 una lettera di Pavese al preside Morelli, dove si legge:
Chiarissimo Professore, tempo fa le scrissi un biglietto dicendomi disposto a riprendere la supplenza, sotto condizione di due giornate libere e residenza a Torino. Vedo che non l’ha ricevuto e magari è bene — così non abbiamo deciso. Mi capita di poter lavorare di traduzioni quest’inverno (il mio antico mestiere) e, fatti tutti i conti, mi do a quest’ultimo lavoro (tutti e due sono incompatibili). Non dimentico di considerare che insegnanti di latino migliori di me ce ne sono parecchi e non credo perciò di far troppo danno alla classe abbandonandola. E Lei è certo ancora in tempo a provvedere con calma un buon supplente […]. Le sarò grato di un cenno e di un appuntamento a Vercelli per un giorno del mese entrante; desidero passare a salutarLa e restituire certi libri.
Il suo maestro Augusto Monti vedeva in lui «un magnifico insegnante» e d’altra parte il lavoro di traduttore gli era più congeniale e gradito.
In ogni caso a sancire il distacco definitivo dalla scuola sarà un fattore inatteso e contingente: nel maggio del 1935 sarà arrestato dalla polizia, che irromperà di sorpresa in casa, un’ora prima della sua partenza per Roma, dove contava di sostenere un concorso per la cattedra di Lettere italiane e latino. Per quanto avesse affrontato quel concorso a malincuore, si dice su spinta della sorella, le cose erano precipitate molto peggio di quanto potesse immaginare e senza colpa alcuna.