Prima che di Beethoven si sapesse qualcosa in Italia, l’unico compositore contemporaneo ad accorgersi del genio di Bonn fu il piemontese Carlo Evasio Soliva, nato a Casale Monferrato il 27 novembre 1791. Parrebbe un’esagerazione, quasi una marachella, ma nella misconosciuta storia della Grande Musica del Romanticismo è andata veramente così.
Basti pensare che il più noto musicista dell’epoca, Gioacchino Rossini, mondano e ricco, ci lasciò di Beethoven un’immagine fosca: quando si recò a trovarlo a Vienna rimase abbastanza sconcertato dal suo stile di vita e dalla sua casa immersa in una totale confusione. Il compositore tedesco si dimostrò amabile con l’italiano, dicendo di apprezzare il suo Barbiere. In realtà, Beethoven stimava poco Rossini come compositore. Da Vienna, in una lettera del 27 luglio 1823 indirizzata a Louis Spohr, si divertiva ad esempio con un gioco di parole su “Rosinen” (uva passa) per alludere al delirante entusiasmo dei viennesi per le opere di Rossini:
Da qui ho poche notizie da comunicarLe, salvo che disponiamo di un ricco raccolto d’uva passa.
Con il famoso pianista e compositore Muzio Clementi, che svolse anche una fortunata attività di editore musicale, Beethoven ebbe invece un semplice rapporto di lavoro, come dimostra un contratto firmato da entrambi il 20 aprile 1807. Alcuni “italiani di successo” addirittura lo snobbarono, non comprendendo il suo talento. Beethoven ammirava Luigi Cherubini (incoronato dalla Musa in un celebre ritratto di Ingres), che più anziano di lui (era nato a Firenze nel 1760) e celebre, mietendo successi a Londra e Parigi, si sentì in dovere di “vegliare” sul compositore tedesco. Il 20 novembre 1805, ad esempio, quando Cherubini udì il Fidelio nella prima versione (il cui titolo era Leonore, oder Der Triumph der ehelichen Liebe), al Theater and der Wien, attribuì l’insuccesso dell’opera alla poca esperienza di Beethoven nel trattamento delle voci e gli fece omaggio di un’opera francese sulla composizione vocale.
Oltre a Soliva, ci sono ancora due musicisti piemontesi ad essere entrati in rapporto con Beethoven. Il primo è Felice Alessandro Radicati, nato a Torino nel 1775. L’incontro di Radicati con Beethoven non fu tra i più brillanti. Dopo aver ascoltato i Quartetti Razumovskij, Radicati rimase attonito, esclamando: “sono tutto fuorché musica”. Beethoven mortificò Radicati con la celebre sentenza:
Non è affare per voi, ma per quelli che verranno dopo.
Questo racconto fu fatto dallo stesso Radicati a Thomas Appleby quando, nella casa di quest’ultimo a Manchester, vide aperta sul pianoforte la partitura dei Quartetti Op. 59 (tre nuovi quartetti n. 7–8–9 composti da Beethoven tra il 1806 e il 1807 ed eseguiti a Vienna nel gennaio 1809) spedita da Clementi.
Radicati era il primo violino del Quartetto Schuppanzigh, che fece la “prima” dei Razumovskij a Vienna. Dopo un’accoglienza fredda, in un’esecuzione successiva, alla famosa esclamazione di Radicati, il violoncellista Romberg aggiunse:
Si tratta di mistificazione. Beethoven si burla di tutti!
Il secondo piemontese a entrare in rapporto con il genio tedesco, non uscendone bene, fu Giovanni Battista Polledro. Nato a Piovà (oggi Piovà Massaia) il 10 giugno 1781, morì nel suo paese natale il 15 agosto 1853, dopo una lunga carriera in giro per l’Europa.
Polledro incontrò Beethoven a Karlsbad il 6 agosto 1812. In quell’occasione suonarono insieme, per un concerto di beneficenza per la città di Baden, come ci racconta lo stesso Beethoven in una lettera del 9 agosto, dove chiama il musicista “Polledrone”. Il centro della città di Baden, vicino a Vienna, era stato quasi completamente distrutto dal fuoco tra il 26 e il 28 luglio. Scrive Beethoven:
Ho suonato qualche cosa davanti a sassoni e prussiani, a beneficio della città di Baden distrutta da un incendio. È stato, si potrebbe dire, un “povero concerto per i poveri”. Mi ha accompagnato il signor Polledrone che ha suonato bene dopo aver superato il suo abituale nervosismo.
Chissà perché Beethoven lo chiama così, scherzosamente, mentre in una successiva lettera all’arciduca Rodolfo, lo chiama correttamente Polledro, svelando di aver suonato una delle sue prime sonate per violino e pianoforte perché fu il piemontese a insistere.
Dei tre piemontesi l’unico ammiratore di Beethoven fu Soliva. Forse perché a differenza di Radicati e Polledro, il casalese aveva respirato di più le innovazioni musicali che arrivavano da Vienna. Soliva infatti, nel 1816, era diventato la star di Milano, con l’opera La testa di bronzo, che aprì la stagione della Scala.
La Milano della Restaurazione, dove confluivano intellettuali come Lord Byron, Carlo Vidua, Stendhal, Silvio Pellico e Ludovico di Breme, era governata da Vienna e faceva parte dell’Impero degli Asburgo, dove l’editore di Soliva, Artaria, era lo stesso di Beethoven. Sempre a Milano il violinista Alessandro Rolla aveva eseguito alla Scala nel marzo 1813 alcuni brani dalla musica per balletto Le creature di Prometeo e la Quarta, Quinta e Sesta sinfonia di Beethoven in concerti privati.
Nel contesto milanese Soliva a confronto di Radicati e Polledro risulta quindi più “moderno”. Non stupisce, a questo punto, che il rapporto tra Soliva e Beethoven fu di vera intesa, addirittura d'amicizia.
Il Grand Trio concertant pour piano, harpe ou deux pianos & alto (Milano, Artaria) di Soliva fu dedicato a Ludwig van Beethoven, che ringraziò con lettera del 9 febbraio 1821 (Soliva rispose con deferenza il 1° marzo). Soliva poi dal compositore tedesco, ricevette un’eccezionale dedica (l’autografo è oggi conservato al Museo Nazionale di Cracovia in Polonia, dove Soliva annoverò tra i suoi allievi Chopin), inviata da Vienna il 2 giugno 1824. L’autografo è in italiano, impreziosito da uno spartito dello stesso Beethoven, il canone a due voci Te solo adoro, le cui parole sono tratte da un libretto di Pietro Metastasio (le parole della Betulia liberata, che ispirarono le musiche di Niccolò Jammelli nel 1743 e quelle di un giovane Mozart nel 1771). Il musicista — in italiano — scrive a Soliva:
Canone a due voci, scritto al 2do junio 1824 per il signore Soliva come sovvenire dal suo amico Luigi Van Beethoven.
Nell’autografo leggiamo la musica di Beethoven, accompagnata dalle parole di Metastasio (“Te solo adoro, Mente infinita: Fonte di vita, di verità”) scritte dallo stesso compositore, che annota sopra il pentagramma: “Divoto ed assai sostenuto”. Le parole di questo canone a due voci rappresentano anche una bella curiosità: sono l’unico testo musicato sia da Mozart che da Beethoven.
Reduce da un primo soggiorno in Polonia e in viaggio per Milano, Soliva incontrò quindi Beethoven a Vienna. La sua voce è registrata nei quaderni di conversazione beethoveniani; l’incontro avvenne il 9 giugno 1824.
Nel 1827 quando Beethoven morì, Soliva era in Polonia, dove stava facendo una straordinaria carriera. Si era sposato l’anno prima con il soprano Maria Kralewska. Un matrimonio felice, coronato da quattro figli. Soliva diresse l’ultimo concerto di Chopin in Polonia, l’11 ottobre 1830. Nel 1832 si trasferì in Russia (dove Beethoven in quel periodo era molto conosciuto e soprattutto era molto eseguito), a Pietroburgo, come maestro di cappella e direttore dell’Opera. Nella sua autobiografia, il compositore russo Michail Ivanovič Glinka, racconta di Soliva e di come, dopo l’esecuzione della Settima Sinfonia di Beethoven in un concerto della Quaresima 1835, “il professore di musica dell’Istituto del Teatro” balzò in piedi ed esclamò in italiano: “È una cosa che fa stupore!”, linguaggio che riafferma la già individuata ammirazione del nostro Soliva per Beethoven.
Nel 1844 Soliva, dopo aver trascorso alcuni mesi in Svizzera e in Italia, si stabilì a Parigi, dove ritrovò l’amico Chopin e proprio nella capitale francese morì il 20 dicembre 1853.
A parte Soliva la conoscenza musicale del compositore tedesco è molto limitata in Piemonte. Questo per alcuni motivi: per il gusto musicale imperante nel paese del melodramma che predilige l’opera, e per un fattore storico, infatti con le guerre del Risorgimento, a Torino, l’unico Beethoven che si ascolta è quello delle marce, come quella dedicata a Wellington. L’eccezione è la musica sacra, come la Messa in do maggiore, Op. 86, spesso eseguita nella capitale sabauda, o come la celebre Missa Solemnis, Op. 123.
C’era poi un problema di spazi e d’orchestra, Torino, infatti, pur essendo ricca di teatri, mancava di uno spazio idoneo a ospitare un’orchestra moderna per la musica sinfonica. Fu Wagner a ordinare la buca per l’orchestra, da lui chiamata “golfo mistico”. Toscanini, dopo la morte di Wagner, la impose, anche perché l’introduzione dell’elettricità permise l’attuazione di uno spazio dedicato all’orchestra sufficientemente luminoso per permetterne l’operatività.
Non esistevano nell’Ottocento a Torino, così come in altri teatri italiani, orchestre stabili. Le orchestre erano sempre di volta in volta reclutate alla meglio dagli impresari i quali seguivano il criterio di radunare insieme pochi elementi buoni che bisognava pagar bene, con molti elementi scadenti da pagar male. Solo alla fine dell’Ottocento, a Torino, per merito di Toscanini, spuntò per la prima volta l’idea di un’orchestra stabile nel senso moderno della parola, in cui ogni orchestrale veniva stipendiato con contratto a lungo termine. E questa orchestra era municipale, cioè finanziata direttamente dalla città, la quale l’avrebbe ceduta di volta in volta alle imprese sostituendo la sovvenzione diretta ai teatri che in quel momento, per effetto dei nuovi fermenti socialisti, cominciava a essere combattuta come spesa antidemocratica. E poiché esisteva in città un liceo musicale che era pure sovvenzionato dal municipio, si doveva stabilire una stretta interdipendenza tra i due organismi, in modo che la scuola alimentasse l’orchestra.
Queste riforme, dell’orchestra e del liceo musicale, che oggi sembrano ovvie e naturali, allora parevano idee rivoluzionarie e sfondavano l’ordinaria routine delle abitudini e degli interessi costituiti. L’unico uomo che poteva realizzarle, con l’aiuto dei pochi torinesi “illuminati” dell’epoca, come Giuseppe Depanis (avvocato e critico musicale per La Stampa) era Arturo Toscanini.
In Piemonte, a Torino, solo dopo settant’anni dalla morte del compositore tedesco si ascoltò il suo lavoro più noto, la celebre Nona per coro e orchestra. L’evento storico avvenne nell’aula di una scuola, con un organico di fortuna. Era il marzo 1888. La Nona fu suonata e cantata nell’aula Vincenzo Troya in via D’Angennes (oggi Principe Amedeo) in un concerto a beneficio dell’asilo notturno Umberto I, direttori Giulio Roberti e Angelo Gaviani, con il concorso dell’Accademia Stefano Tempia e di un’orchestra di soli quaranta professori di musica.
Un’esecuzione con tutte le garanzie di completezza avverrà solo nel marzo 1892, a cura di un Comitato di sottoscrittori, direttore Vanzo, solisti Cassandro, Ortensia Synnerberg, Ottavio Nouvelli e Agostino Gnaccarini, orchestra di centodieci professori e coristi del Teatro Regio. Sempre al Regio, come ci informa la Gazzetta piemontese, il 14 dicembre del 1900 Giuseppe Martucci, accompagnato da un’orchestra di novanta musicisti e un coro di centotrenta voci, eseguì nella prima parte di un concerto la Nona di Beethoven e nella seconda alcune musiche di Wagner.
Toscanini diresse per la prima volta la Nona Sinfonia di Beethoven a Milano, in un concerto fuori stagione della Scala, il 20 aprile 1902, replicato poi a Torino. Il Maestro aveva trentacinque anni e la diresse per un totale di cinquanta volte.
Toscanini segna un momento di cesura nella storia delle interpretazioni di Beethoven. Inoltre è un innovatore dei teatri italiani, incarnando una figura imprescindibile al di là della questione musicale. Quando arrivò nel 1901 a Milano, Toscanini iniziò una vera e propria riforma del Teatro alla Scala: dall’illuminazione scenica, alla costruzione della buca d’orchestra. Ma si occupò anche di tutto ciò che sta intorno a uno spettacolo: il buio in sala, l’intransigenza con i ritardatari e l’abolizione dei bis, nella convinzione che la totalità di un’esibizione non vada mai interrotta, con una sensibilità sorprendente per quel tempo.
Nel 1887, durante la lunga stagione a Casale Monferrato, tentò con scarso successo di innovare due teatri: il Municipale e il Politeama. Toscanini aveva solo vent’anni. Nonostante avesse bisogno di lavorare non rinunciò mai, neppure in quegli anni di difficile noviziato musicale, alla sua sete di perfezione, anche se per ottenerla era costretto a litigare. Fin da allora odiava i bis perché interrompevano lo spettacolo, la tensione emotiva dell’azione teatrale, e non li concedeva. A volte si scontrava con il pubblico. A Casale Monferrato, durante una recita di Gioconda al Municipale, il pubblico reclamò a gran voce il bis di una romanza, ma Toscanini non lo concesse. Il pubblico continuò a rumoreggiare. Un militare in uniforme andò vicino al direttore e minaccioso gli gridò: “Lei è arrogante”. Toscanini gli rispose con tono altrettanto minaccioso: “E lei è una canaglia”. Quel militare, dopo lo spettacolo, andò nel camerino del direttore con dei testimoni e lo sfidò a duello, ma Toscanini, che non aveva mai preso in mano un’arma, lo guardò con disprezzo e se ne andò senza rivolgergli la parola.
Fu così che a Casale Monferrato la Nona di Beethoven non fu eseguita da Toscanini, come molti si attendevano.
L’onore spettò all’Orchesta e al coro dell’E.I.A.R. (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), che aveva sede a Torino. Era il 13 aprile 1939. Quel giovedì sera, alle ore 21.15 al Teatro Politeama, la città ospitò uno fra gli eventi musicali tra i più imponenti del ventesimo secolo. Il direttore d’orchestra era il giovane genovese Armando La Rosa Parodi, trentacinquenne, grande interprete delle musiche di Respighi, Verdi, Wagner. Il Maestro del coro era Achille Consoli. I solisti della Nona a Casale Monferrato erano nomi famosi dell’epoca: Arturo Ferrara, Luciano Neroni, Maria Drappero, Rita Fornari e Clara Garagnini.
Nella città l’attesa per il concerto durava da mesi. Testimonianza è l’attenzione — grande e appassionata — della stampa locale. La Gazzetta di Casalmonferrato, il 1° aprile 1939, in prima pagina, ricordava l’“avvenimento d’arte a Casale”. Titolo a caratteri cubitali: “La ‘Nona Sinfonia’ di Beethoven”. Tra le altre cose leggiamo queste considerazioni:
Dobbiamo osservare che la suddetta Sinfonia è stata eseguita in Italia poche volte, richiedendo complessi orchestrali e corali non comuni. Se pensiamo quindi che un avvenimento così raro, come l’esecuzione della Nona, avrà luogo a Casale, dovremmo esserne enormemente orgogliosi. La Nona è l’ultima delle Sinfonie Beethoveniane, è la più completa e sublime. La Nona Sinfonia descrive tutto un dramma: non rappresenta un istante di vita ma tutta una vita densa di esperienze che conducono ad un risultato: essa rispecchia la esistenza dell’uomo che cerca di raggiungere la felicità fra amarezze e dolori, contrastato da avverse forze, ma che infine cede qual è la felicità; la vede nella fede e nell’amore, nella fratellanza, nella Gioia. “Gioia, gioia, figlia dell’Eliseo! Bella fiamma! Gioia scintilla divina! Tutti gli Uomini siano fratelli! Siate avvinti, o milioni! Un Tenero Padre vigila al di là del firmamento! La Gioia viene da lassù!”. Le sublimi parole dell’Ode alla Gioia di Schiller ispirano Beethoven, che le fa sue, le musica per creare un meraviglioso Corale, conclusione della Sinfonia: l’“Inno alla Gioia”. Qualcuno potrebbe chiedere se questo complesso poema è comprensibile alle masse, oppure se richiede competenza artistica; chi fa questa domanda non ha mai ascoltato l’esecuzione di una qualsiasi composizione di Beethoven. È musica che parla al cuore, che entusiasma, che commuove. Folle e folle di popolo hanno applaudito, hanno pianto, per questa musica.
Il pezzo del giornale locale è interessante: siamo nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Molti, ancora, speravano nella vittoria della pace: non avevano ancora conosciuto le atrocità di Auschwitz, i milioni di morti sui vari fronti, e pareva quindi, in quel momento storico, che fosse ancora possibile dialogare con una musica che parlava con il tono della humanitas.
A parte la famosa Nona Sinfonia di Beethoven a Casale Monferrato c’è molto altro da aggiungere sulla musica della Nona e sulla sua esecuzione — anche in Piemonte — da parte di Toscanini, che iniziò la sua carriera di direttore in Italia, dopo il successo in Brasile, proprio con quella stagione a Casale Monferrato nel 1887, trovando dei grandi appassionati di Beethoven, come lo scultore Leonardo Bistolfi.
Il Beethoven fin de siècle era un musicista demoniaco e passionale, così come nella letteratura lo aveva raccontato Tolstoj. Bistolfi amava questo Beethoven e ne discuteva con altri amici musicisti, in particolare Luigi Ernesto Ferraria, la cui casa a Camburzano era frequentata anche da Toscanini. Ferraria, cui Bistolfi dedicò un bel ritratto a carboncino (ora conservato nella quinta sala della Gipsoteca Bistolfi a Casale), commissionò a Bistolfi un busto di Beethoven: per i simbolisti era un dio e l’immagine del “demoniaco” Beethoven emerge nella titanica espressione del viso. Ora il gesso di Bistolfi si trova nel deposito del Museo Civico di Casale e attende un restauro conservativo. L’occasione può essere l’anniversario di quest’anno: il compositore è celebrato nei 250 anni dalla nascita (16 dicembre 1770).