"Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana”.
Inizia così La Luna e i falò di Pavese, in quel cavagno c’è il legame con le sue radici e la sua terra, la lingua come ponte tra presente e passato, tra modernità e tradizione, c’è Pavese, ma non solo…
Nell’Introduzione a un saggio sull’opera di Laura Pariani, la studiosa Gigliola Sulis individua due tendenze principali dei romanzi italiani degli ultimi tre decenni: la
preferenza per narrazioni cosmopolite — storie di un’Italia postmoderna che si è lasciata alle spalle la tradizionale società rurale e le sue lingue (i dialetti) — e la tensione verso una medietas linguistica e stilistica.
È vero che alcuni autori hanno reagito a una simile omologazione linguistica e culturale prediligendo storie particolari, ambientate in zone periferiche o trascurate, e lo hanno fatto ricorrendo al dialetto o a forme linguistiche eterogenee. Il multilinguismo è infatti caratteristica rilevante di scrittori quali, appunto, la lombarda Laura Pariani, il siciliano Andrea Camilleri, e l’abruzzese Silvia Ballestra. Un nome invece ingiustamente trascurato è quello del piemontese Benito Mazzi.
Grazie all’uso sapiente di codici substandard, Benito Mazzi si inserisce a pieno titolo nella tradizione piemontese multilingue di Faldella, Pavese e Fenoglio, e si oppone, invece, alle tendenze linguistiche omologatrici tipiche della produzione letteraria contemporanea.
Nato nel 1938 a Re, piccolo centro della Val Vigezzo prossimo al confine svizzero, Mazzi è stato insegnante, giornalista, saggista e soprattutto romanziere. La sua pluridecennale produzione narrativa si snoda lungo tre filoni principali: sport, scuola e storie ambientate in Val Vigezzo. Sono proprio le storie locali (ben rappresentate dai romanzi La formica rossa, Nel sole zingaro e Quando abbaiava la volpe) a distinguersi per l’abilità con cui autobiografia, saggio sociologico e finzione vengono fuse insieme in una lingua che si potrebbe definire, per usare una celebre espressione coniata da Luigi Russo per Verga, “pensata in dialetto”.
Benito Mazzi rappresenta un notevole esempio di scrittore in grado di recuperare la tradizione narrativa orale e opporsi all’attuale tendenza linguistica omologatrice attraverso un mezzo espressivo incline alle varietà basse, chiaramente debitore nei confronti dell’oralità e influenzato dal dialetto, e caratterizzato da un mix di italiano popolare, colloquiale e parlate locali. Nel riportare a galla storie di valligiani, contrabbandieri e spazzacamini vigezzini, Mazzi contribuisce a salvaguardare l’identità culturale e storica degli abitanti della sua valle. Per fare ciò egli impiega il dialetto come elemento imprescindibile per qualsiasi operazione di recupero memoriale e identitario poiché considerato un aspetto inseparabile dall’identità e dalla storia della comunità di appartenenza.
Pubblicato nel 1987 e rivisitato nel 2003 con l’aggiunta di un capitolo extra, La formica rossa, dal titolo di una canzone dialettale, è una delle opere più rappresentative dello stile multilingue di Benito Mazzi.
Si tratta di un Bildungsroman in prima persona che racconta la vita del narratore-protagonista (coincidente in buona parte con l’autore), della sua famiglia e dei suoi amici del paese di Re, tra l’immediato dopoguerra e i primi anni settanta. Il romanzo è composto da ventuno capitoli che alternano il racconto delle vicissitudini di diversi personaggi con le tappe dell’esistenza del protagonista: dall’infanzia negli anni della Seconda guerra mondiale, alle prime esperienze lavorative fuori dalla Valle; dalla scoperta della passione per la musica fino al ritorno al paese natale per scoprire che, dopo trent’anni, praticamente tutto è cambiato. La società descritta appartiene a un mondo rurale, chiuso tra le Alpi svizzere, il Lago Maggiore e la Lombardia. La Val Vigezzo era, e in buona parte lo è ancora, isolata e lontana dai centri di potere politico e culturale. Per questo motivo, gli abitanti hanno sviluppato un preciso e forte senso identitario.
In linea generale, ciò che emerge dai romanzi di Mazzi è un fiero attaccamento alle montagne e all’ambiente naturale circostante dimostrato dai vigezzini, uno spiccato senso di solidarietà, tanto maggiore nei tempi più difficili, e un’inclinazione al sacrificio e ad attività particolarmente faticose.
Per un romanziere come Mazzi, l’impiego di parlate locali rappresenta il più immediato mezzo di espressione di identità sociale e di recupero di memoria collettiva. Da un punto di vista strettamente linguistico, in La formica rossa prevale uno
stile composito e a tratti espressionistico dell’autore, con una mistura di dialetto e lingua colloquiale (Cicala e Tesio, pag. 383).
Vocaboli dialettali o derivati da parlate locali sono specialmente numerosi nel discorso diretto, sebbene intere frasi in dialetto siano impiegate di rado. L’autore talvolta introduce termini in vernacolo in esclamazioni o epiteti assegnati ad alcuni personaggi, come malnàt, che deriva dall’aggettivo italiano “malnato” ed è presente sia nel dialetto lombardo che in quello piemontese col significato di “screanzato” o “malvagio”; marcadèta, forma femminile dell’aggettivo lombardo “marcadètt”, utilizzato sia come epiteto divertito sia come esclamazione; figürèmas! (un’interiezione derivata dal vernacolo ticinese e utilizzata quando si intende contraddire qualcuno o negare ciò che è stato detto, corrispondente all’italiano figuriamoci), e porcamadòi (che è un’esclamazione piuttosto comune nel Piemonte orientale per evitare di imprecare la Vergine Maria). Nella maggioranza dei casi, per agevolare la lettura, le espressioni dialettali sono seguite dall’equivalente italiano come nei seguenti esempi: Datemi quaicòs, fate la carità (70), Basta, resisti pü (79), Sògnat, svegliati (83), e Epür i blèfan, eppure bleffano (156); oppure sono poste accanto a espressioni simili, come in tùrna ai tanti, ci risiamo (68), se ti inguanto ti rompo, ta stciuti (91), e Io ci avrò la mia testa, rasùni a la mi manèra (120).
I dialettismi e i neologismi nati dalla fusione tra parlate locali e lingua nazionale sono invece più frequenti nelle parti diegetiche. Verbi come tarenare (originario del dialetto ticinese, si riferisce allo scioglimento della neve in primavera), sgnaulare (che potrebbe derivare sia dall’italiano “gnaulare” che dal piemontese gnaulé, cioè “guaire” o “miagolare”), cignoccare (modellato sul piemontese sgnaché, “assopirsi”), tzarfugliare (adattamento del ticinese zarfoia, “balbettare”), o sostantivi come liende (grattacapi), tappate (botte) e barbarotto si trovano spesso nelle parti dialogiche e hanno tutti una radice dialettale alla quale lo scrittore conferisce veste italiana. In altri casi, Mazzi utilizza termini tratti dalla varietà regionale: vocaboli quali bocia, viscare, banfare, caragnare e cadreghe fanno ormai parte delle parlate colloquiali di questa parte del Piemonte e della sezione nord-occidentale della Lombardia.
La formica rossa comprende anche alcune riflessioni sulle parlate locali, in opposizione all’idioma nazionale, sulle quali vale la pena soffermarsi. Per esempio, quando il narratore-protagonista è un adolescente, e tutti gli abitanti di Re si esprimono in dialetto, egli descrive il tremendo imbarazzo che prova ogniqualvolta suo padre, un antiquario originario dell’Emilia-Romagna, parla italiano all’osteria del paese:
Evitavo di parlare italiano con la gente del paese. Mi vergognavo, mi sentivo diverso, come mi suonava male chiamare il signor antiquario “il mio papà”, meglio, molto meglio dire “ul mé pà”, come gli altri ragazzi. E mi trovavo a disagio se papà sfoggiava il suo maledetto italiano all’osteria. (pag. 29)
L’impiego della stessa varietà linguistica tra un gruppo di parlanti contribuisce a rafforzare il senso di identità e a delimitare il confine tra un gruppo sociale e l’altro. Succede spesso che, all’interno della stessa comunità linguistica, alcune varietà siano considerate migliori di altre o abbiano un prestigio maggiore, come l’italiano standard dell’esempio. Malgrado il loro status, queste varietà non fanno parte dell’identità degli abitanti del luogo, anzi vengono spesso associate al potere e allo stato centrale che, agli occhi degli abitanti della Valle, è responsabile di aver abbandonato i vigezzini nei momenti più critici e di farsi vivo solo per riscuotere tributi e chiamare i giovani alle armi. Quindi, parlare italiano in simili contesti potrebbe portare a un’esclusione dalla comunità locale (da qui l’aggettivo “maledetto” da parte di chi, come il giovane protagonista, vorrebbe invece farne parte). L’imbarazzo del protagonista è pertanto comprensibile poiché è consapevole che chiunque parli italiano, o una lingua magari con maggior prestigio ma diversa dal dialetto, è percepito immediatamente come appartenente a un gruppo altro, e quindi da escludere o potenzialmente pericoloso, mentre i dialettofoni sono generalmente giudicati favorevolmente in quanto membri dello stesso gruppo sociale.
Durante il periodo della ricostruzione industriale e del boom economico ai dialetti fu invece conferita una connotazione negativa poiché percepiti come segni di arretratezza culturale. Infatti, quando nei primi anni ’60 il protagonista del romanzo è ormai cresciuto, egli ricorda l’imbarazzo che provava nel chiamare suo padre in italiano e nel sentire quest’ultimo usare la lingua nazionale all’osteria quand’era un ragazzino, mentre soltanto pochi anni più tardi “a vergognarsi era chi parlava in dialetto” (185). Come osserva il linguista John Edwards, in una società industrializzata prevale la tendenza da parte dei dialettofoni, e da parte di coloro che usano varietà substandard, di accettare e condividere gli stereotipi negativi associati alle loro parlate (2009, 93). Ciononostante, i dialetti continuano a essere parlati, benché in misura minore rispetto al passato e secondo modalità diverse, semplicemente perché essi agiscono come elementi in grado di unire i parlanti che impiegano queste varietà fornendo a questi un senso di identità che, a ben pensarci, sarebbe necessario soprattutto in tempi di crescente omogeneizzazione culturale e indispensabile particolarmente per comunità rurali periferiche che potrebbero sentire sempre più vicina la loro dissoluzione.
Adottando la prospettiva dei valligiani e dei contrabbandieri della Val Vigezzo, e impiegando una vasta gamma di varietà linguistiche substandard, Mazzi riesce così a dare voce a culture marginali della società italiana e regionale. La sua attenzione è infatti rivolta verso quei gruppi sociali che stanno correndo il rischio di essere dimenticati, inghiottiti dai cambiamenti socioeconomici in corso e messi sotto silenzio dalla diffusione di nuovi modelli di vita e di comunicazione. Tuttavia, come osserva Bàrberi Squarotti,
l’atteggiamento di Mazzi nei confronti del mondo paesano e di provincia non è per nulla patetico e impietosito, né cede mai all’idealizzazione o alla celebrazione postuma (pag. 3).
Mazzi non è mai eccessivamente nostalgico nei confronti del passato né della società rurale in cui è cresciuto poiché è consapevole che tutto è destinato a cambiare. Ciò che invece sembra preoccuparlo è la tendenza verso una certa normalizzazione culturale e omologazione linguistica che la modernità ha portato con sé. Mazzi cerca di opporsi all’attuale processo di appiattimento linguistico ripescando forme ormai dimenticate di cultura orale che successivamente rielabora in maniera originale. Non si tratta, per usare le parole di Glissant, dell’
oralité portée par les médias qui est l’oralité de la standardisation et l’oralité de la banalisation (pag. 39),
ma di voci reali che esprimono punti di vista diversi rispetto a quelli imposti dai centri di potere politico, economico e culturale.
Come dimostrato, Mazzi non si limita semplicemente a ricordare storie del passato utilizzando lo stesso codice linguistico con cui venivano diffuse all’epoca, ossia il dialetto. Infatti, una scelta monolingue, oltre a rappresentare un notevole problema di comprensione per molti lettori, costituirebbe una scelta equivalente, soltanto di segno opposto, all’impiego esclusivo dell’italiano. Dunque, benché termini ed espressioni dialettali non manchino, Mazzi compie un’operazione di code-mixing più complessa in grado di dare forma scritta a una tradizione prevalentemente orale che sta correndo il rischio di essere dimenticata. Inoltre, la strategia linguistica di Mazzi mantiene viva la tradizione multilingue piemontese (iniziata con Faldella e continuata, tra gli altri, da Pavese e Fenoglio) opponendosi al diffuso processo di standardizzazione linguistica. La mescolanza di codici diversi e la costante deviazione dalla norma linguistica sono soluzioni in grado di esprimere quello scambio tra centro e periferie, e il contrasto tra varietà standard e lingue locali, che per secoli hanno contribuito alla ricchezza e originalità della nostra letteratura e che ora stanno progressivamente affievolendosi.
Benito Mazzi è nato a Re, in Val Vigezzo, nel 1938. Ha lavorato a lungo nella scuola, è stato giornalista, direttore del settimanale Eco dell’Ossola-Risveglio Ossolano e della rivista Verbanus. Negli ultimi trent’anni, all’attività etnografica sulle tradizioni della Val Vigezzo, ha affiancato una feconda produzione narrativa. Una parte dei suoi romanzi si occupa di sport (come Coppi, Bartali & Malabrocca, sul mondo del ciclismo, e Un uomo che conta, sul pugile Andrea Borgnis), un’altra è legata alla scuola (il suo Almeno quest’anno fammi promosso. 130 temi di ragazzi del nord è stato un best-seller, inserito nella collana “La Biblioteca del Corriere della Sera”), mentre la parte più consistente è dedicata alla sua Valle. Tra i romanzi appartenenti a quest’ultimo filone narrativo, La formica rossa, pubblicato per la prima volta nel 1987, è stato vincitore del Premio Pavese. Nel 1998, il romanzo Nel sole zingaro è entrato nella Selezione Premio Strega, mentre due anni più tardi, Fam, Füm, Frecc, il grande romanzo degli spazzacamini, è stato finalista al Premio Biella Letteratura.