Come ultima (anche se mai dire mai!) puntata della ormai lunga saga universitaria torinese, in questo racconto cercheremo di dare voce ad alcuni studenti che, in vari modi e da varie prospettive, si sono occupati di studiare la lingua piemontese (o forse sarebbe meglio dire le lingue piemontesi?). Lorenzo Ferrarotti e Alberto Ghia sono studenti in corso di dottorato, mentre Alessia Argelli, Luisella Monge Rolfo e Sara Racca sono dottoresse ormai laureate in dialettologia: li abbiamo contattati per chiedere loro di raccontarci un po’ la personale esperienza di ricerca e la passione per la lingua che li ha portati a volerla studiare e magari a sperare che possa diventare un domani l’oggetto della loro occupazione di ricercatori.
Abbiamo lasciato parlare loro, affinché si possano raccontare con le proprie parole; a noi il facile compito di riunirli e di dar loro questo piccolo spazio per far conoscere l’importanza di studiare la lingua e il territorio.
Lorenzo Ferrarotti, dottorando in Lettere nel curriculum di Dialettologia italiana, geografia linguistica e sociolinguistica, racconta:
Il mio interesse per la linguistica ha accompagnato tutto il mio percorso di studi: da un interesse iniziale per le lingue antiche e il mondo classico e bizantino, sono passato allo studio della linguistica contemporanea e della dialettologia italiana. In particolare, mi sono interessato ai dialetti della mia zona: infatti, la mia tesi di dottorato, che è lo sviluppo e la continuazione della mia tesi di laurea magistrale in Scienze Linguistiche, riguarda i dialetti del Piemonte orientale, area decisamente trascurata dagli studi dialettologici, che si sono più concentrati sul settore occidentale della Regione a causa della presenza di minoranze linguistiche di tipo galloromanzo nelle valli alpine.
L’analisi è basata sui dati degli atlanti linguistici (Atlante Linguistico Italiano e Atlante Italo-Svizzero), di opere descrittive e di inchieste condotte ad hoc. L’approccio che ho adottato, di tipo diffusionistico, si fonda sull’analisi della diffusione territoriale di certe caratteristiche linguistiche. Può sembrare strano, ma con l’analisi minuziosa della distribuzione geografica di una singola parola, di una desinenza verbale o addirittura di un suono, spesso è possibile ricostruire le dinamiche linguistiche che hanno portato alla sua diffusione, tenendo conto del fatto che uno dei fattori principali della differenziazione dialettale è senza dubbio il contatto tra i parlanti di dialetti diversi. In quest’ottica, sarà possibile cogliere alcuni echi della storia di questi luoghi.
Quest’area, politicamente frammentata nel Medioevo, fu oggetto di una sorta di “campagna di annessione” da parte dei Savoia tra il ‘600 e il ‘700: pertanto, uno degli obiettivi principali del lavoro sarà di vedere quanto il dialetto di Torino, capitale del Ducato e poi del Regno sabaudo, abbia influito sui dialetti locali e quanto l’assetto politico precedente abbia consentito il mantenimento di tratti linguistici arcaici. Personalmente, sono convinto che la scarsa omogeneità linguistica di quest’area e il suo status di zona di confine possano mettere molto bene in luce i meccanismi di interazione tra dialetti diversi, potendo dirci qualcosa di più sul rapporto che i nostri antenati avevano con la loro lingua.
Vedute di Rocca d'Arazzo e Azzano d'Asti.
Alberto Ghia, come il suo collega Ferrarotti dottorando in Lettere nel curriculum di Dialettologia italiana, geografia linguistica e sociolinguistica, è impegnato in una ricerca di altro tipo, incentrata su un diverso territorio:
Arrivo dalla campagna, da un piccolo centro a sud di Asti, Azzano d’Asti: siamo un pugno di case arroccate su una collina, una delle tante che costituiscono il Monferrato. Azzano sorge al margine di un’area dialettale di difficile classificazione: piemontese, certo, ma con tratti a volte ben diversi dal torinese, tratti che però, quasi seguendo l’andamento collinare, affiorano e s’inabissano nello spazio breve di qualche campanile.
Prima della stesura della tesi di dottorato, il dialetto è stato il tema centrale sia della mia tesi triennale (in Lettere), sia della mia tesi specialistica (in Scienze linguistiche). Ho scelto gli argomenti che ho trattato in queste due tesi ripensando ad alcuni episodi della mia “autobiografia linguistica” (detto altrimenti, della storia del mio rapporto con le lingue); in un certo senso, quindi, posso dire che scrivere queste tesi ha coinciso con una sorta di resa dei conti con la storia (beninteso: una storia piccola, minima, personale).
Per la stesura della tesi di triennale mi sono rifatto a un’esperienza personale: quando cercavo di pronunciare la famosa frase "due peperoni bagnati nell’olio", mi veniva detto che non sapevo parlare bene il piemontese perché non pronunciavo bene le "erre". Sentivo che la "erre" del dialetto azzanese non era la stessa di quella dell’italiano o del torinese… ma perché non era la stessa? Nella tesi appunto mi sono occupato di questo tratto bandiera, una vibrante approssimante che rappresenta l’esito di R ed L latina in posizione intervocalica. In particolare, ho cercato di definire l’area in cui erano attestate realizzazioni simili e inoltre ho cercato di verificare se il suono fosse presente nelle produzioni dialettali dei più giovani.
La tesi di specialistica, invece, è scaturita dal confronto tra il mio piemontese (cioè la parlata dialettale di Azzano) e quello di Rocca d’Arazzo, uno dei comuni con cui Azzano confina: c’erano a volte elementi fonetici e lessicali diversi. Perché c’erano? A cosa erano dovuti? Potevano essere legati all’appartenenza a due centri amministrativi diversi? In effetti, per lungo tempo Rocca d’Arazzo e Azzano avevano avuto “padroni” diversi: Rocca d’Arazzo è stata di amministrazione milanese tra il 1385 e il 1715, mentre Azzano prima è stata di dominio francese, poi sabaudo. Un confronto specifico tra le parlate di questi due centri, poi estesa a una rete di altri comuni, ha evidenziato che, con buona probabilità, i dominatori avessero lasciato una traccia linguistica.
Avrei voluto approfondire questa ipotesi durante il dottorato, ma le cose sono andate diversamente. Ora mi sto occupando della toponomastica, cioè dei nomi di luogo, del mio comune: sto cercando di capire come siano costruiti, che cosa vogliano dire e come sono impiegati i toponimi che designano il territorio di Azzano dalla comunità. Anche in questo caso, il mio interesse si focalizza sui toponimi dialettali più che sulle denominazioni presenti nei documenti d’archivio, che comunque non ho tralasciato di raccogliere.
La dottoressa Alessia Argelli ci presenta il suo lavoro a partire dal titolo; lasciamo a lei la parola:
Il 28 ottobre 2016 ho discusso la mia tesi di laurea triennale in filologia e dialettologia romanza dal titolo: "La Toponimia della parte orientale del Comune di Castelmagno"… proviamo a decriptare questi paroloni…
Ho svolto una lunga inchiesta sul campo, intervistando una decina di informatori (tutti residenti o se non più residenti almeno nati e cresciuti nel Comune di Castelmagno). Il mio obiettivo era quello di raccogliere quanti più toponimi (nomi di luogo) possibili. Sì, ma i nomi di quali luoghi? Tutti quelli ancora vivi nell’oralità locale o comunque tutti quelli ricordati dai miei informatori, seppur caduti in disuso, magari utilizzati dagli anziani che non ci sono più. Dai nomi delle borgate, ai nomi dei quartieri, ai nomi delle case, ai nomi anche di una singola stanza, di un angolo di contrada, di una fontana, di un incrocio, di una roccia, di un ponte, di un sentiero e molti altri… qualcuno (ben pochi) in italiano, quasi tutti nella lingua locale: l’occitano. Il numero di nomi di luogo che una comunità assegna allo spazio vissuto e condiviso è sbalorditivo!
Così, ho passato due estati a Castelmagno, raccogliendo quante più informazioni possibili inerenti alla mia ricerca… ma dietro ogni nome di luogo si nascondeva o una storia o un ricordo o una leggenda… così il lavoro è diventato tanto entusiasmante quanto infinito! Ricordo con affetto le serate passate a giocare a carte, mentre mi facevo raccontare storie, nella lingua occitana locale e i pomeriggi trascorsi nel forno di Campomolino, seduta sullo sgabellino di legno portatomi da casa, per intervistare il panettiere mentre sfornava biscotti… che profumo… o le mattinate, appostata sulla panchina della piazza del paese, sempre col mio taccuino in mano, nell’attesa di un anziano di passaggio. Dopo un’iniziale diffidenza (i montanari sono così), capite le mie buone intenzioni, hanno iniziato ad aprirsi e a condividere con me i loro ricordi e la loro preziosa cultura orale.
Ho quindi trascritto il repertorio toponimico da me raccolto e iniziato a scrivere la tesi vera e propria. Il risultato, di 162 sudate pagine, l’ho voluto dedicare alle persone più belle che io conosca: le mie due nonne, che dalle montagne di Castelmagno, in giovane età, sono scese a Torino, dove sono nati i miei genitori e dove poi sono nata io, senza mai perdere il legame con le loro montagne, un legame che hanno trasmesso anche a me e senza il quale non avrei mai potuto realizzare questo lavoro.
Luisella Monge Rolfo, dottoressa magistrale in Culture moderne comparate con una tesi discussa nell’aprile del 2016 in Dialettologia romanza, ha creato il primo Repertorio canoro dei Venaschesi, accompagnato anche da un cd con le registrazioni dei canti. Ci racconta così la sua avventura di ricerca:
Se si pensa al canto popolare come ad un reperto archeologico, ci si sbaglia di grosso. In Valle Varaita è un’abitudine ancora viva e seguita non solo da cantori “navigati”, ma anche da alcuni giovani. Certo, se un tempo "canté ’i era cuma respiré" (cantare era come respirare), come ricordano alcuni cantori, oggi l’occasione è meno spontanea: non sono più le notti di veglia a suggerire le melodie, ma per lo più le feste di paese.
La ricerca effettuata, fine ad una tesi di laurea sull’attuale canto popolare a Venasca (CN), ha rilevato innanzitutto la difficoltà di definire un concetto che sembra tanto semplice e scontato: il “popolare”. Se per gli studiosi il termine è legato soprattutto alle classi sociali subalterne, all’antico e all’anonimo, per il cantore di oggi designa anche ciò che è di dominio di massa. Non stupisce infatti di poter ascoltare, tra i brani di lunga tradizione raccolti, anche qualche recente brano cantautoriale.
Dall’analisi dei 165 testi, emergono alcuni dati interessanti. La lingua del canto non è uniforme e definita, ma spesso mista di venaschese, italiano, provenzale, dialetti settentrionali e francese. Maggiore regolarità si avverte invece nello stile e nel contenuto: metrica, figure retoriche, formule, personaggi e situazioni ricorrono familiari, quasi a soddisfare un’esigenza di piacevole sicurezza.
Sara Racca, dottoressa magistrale del corso di laurea in Scienze linguistiche, ha redatto una tesi dal titolo Microtoponimia orale a Marene: denominare lo spazio comunitario che ha discusso nell’aprile di quest’anno. Con queste parole ci ha voluto raccontare la sua esperienza:
La mia tesi di laurea consiste in una ricerca sulla microtoponimia orale del mio paese d’origine (Marene, nel cuneese), cioè su quell’insieme di nomi propri riferiti a luoghi minori (come un edificio, una strada, un campo…) che sono diffusi nel parlato e si tramandano oralmente; sono quindi spesso diversi dai nomi di luogo ufficiali riportati nei cartelli, nei documenti e sulle carte.
Il fascino della toponomastica sta nel fatto che è uno di quegli ambiti in cui il linguaggio si intreccia fortemente ad aspetti culturali: riflette relazioni tra i membri di una comunità, storia locale e credenze, oltre a fornire ovviamente un quadro di come un gruppo di persone struttura e interpreta il territorio che abita. Tutto questo è racchiuso nelle parole utilizzate per riferirsi a questi “luoghi minori”; i microtoponimi orali dialettali, più antichi, sono come fossili che ci dicono qualcosa sia su come l’uomo si rapportava al paesaggio nel passato, sia sulla lingua che veniva parlata nel momento della formazione del nome. Nella mia ricerca ho però prestato attenzione anche a quei nomi di luogo italiani e recenti, per capire come le persone chiamino nella quotidianità, oggi, i luoghi che frequentano e in base a quali processi si creino i nuovi toponimi.
Per fare questo, ho intervistato 30 persone con diverse caratteristiche (giovani, adulti, anziani; uomini e donne; originari del paese e non originari), alle quali ho chiesto di immaginare di compiere dei percorsi nel territorio comunale, chiamando i luoghi incontrati come avrebbero fatto nella quotidianità; io, intanto, li trascrivevo su una carta muta. Inizialmente ho dovuto vincere il timore di alcuni di non essere “all’altezza” del compito, poiché l’idea generalmente diffusa è che una ricerca di questo tipo verta solamente sulla raccolta di informazioni quasi perdute, da ricercare nella memoria degli anziani. Il mio obiettivo invece era proprio quello di fotografare l’uso reale dei nomi di luogo da parte delle persone che attualmente popolano il territorio indagato.
In totale, ho raccolto quasi 1800 denominazioni riferite a quasi 600 luoghi, oltre che moltissime informazioni e curiosità su storia locale, tradizioni, aneddoti e ricordi (ci sarebbero spunti per un’infinità di altre ricerche!). I nomi forniti sono molto eterogenei: alcuni molto antichi, altri recentissimi; alcuni utilizzati dalla maggioranza della popolazione, altri solo all’interno del nucleo familiare; alcuni ormai incomprensibili, altri facilmente interpretabili. Per analizzare un insieme così diversificato di informazioni, ho ideato uno schema di analisi che ripercorre le tre fasi di formazione di un toponimo: 1) la selezione di un luogo come “importante”; 2) il suo rivestimento di significato; 3) infine, la creazione di una denominazione che rifletta quel significato. In base a questo schema, ho poi osservato come le caratteristiche degli intervistati influiscano sulle scelte operate nelle tre fasi. I risultati suggeriscono come non ci sia un’unica rappresentazione mentale del territorio, ma come convivano diverse letture dello spazio abitato, dovute proprio al fatto che i membri di una comunità non si relazionano in maniera univoca ad esso.
I giovani studenti interessati a vario titolo al piemontese sono tanti, e la scuola torinese dei linguisti e dei dialettologi vanta ormai una lunga storia fatta di grandi studiosi, di ieri e di oggi, in grado di soddisfare le idee di ricerca degli studenti e di seguirli nel modo migliore nelle loro ricerche. Come da tradizione, non manca mai l’attenzione al dato storico e socioculturale che ogni lingua porta con sé, così come non si tralascia mai di avere un occhio di riguardo per le tradizioni folkloristiche, alcune delle quali a rischio estinzione e dunque ancora più importanti da testimoniare.
👍Ringrazio i professori Matteo Rivoira e Riccardo Regis, che mi hanno messo in contatto con alcuni studenti che non avevo il piacere di conoscere personalmente.