Nel 1957, mentre a Torino veniva presentata la Nuova 500 FIAT, al di là dell’Oceano Atlantico la casa editrice Doubleday dava alle stampe un libro per bambini, il primo di una fortunata serie. Di poco più di una sessantina di pagine, il libro si intitolava The lonely doll — La bambola solitaria. La protagonista era una graziosa bambola, Edith, che trovava in due orsacchiotti di peluche la famiglia che desiderava.
L’autrice del libretto, la modella e fotografa Dare Wright, decise di impreziosire il testo della storia con una serie di fotografie in bianco e nero scattate da lei, anziché con le solite illustrazioni tipiche dell’editoria infantile. Dare Wright usò come modelli, al pari di creature in carne e ossa, i pupazzi della sua infanzia, mettendoli in posa in ambientazioni reali. Queste immagini sono pervase da un’atmosfera malinconica, soprattutto se viste alla luce della particolare vicenda privata dell’autrice, di cui la bambola Edith era una sorta di nemesi. Ciononostante, The lonely doll diventò uno dei bestseller più richiesti negli Stati Uniti, tanto che ancora oggi viene inserito nella lista dei migliori libri illustrati per bambini di tutti i tempi.
Potrebbe sembrare strano, ma The lonely doll è un libro strettamente collegato a Torino. Edith, la bambola protagonista, venne prodotta proprio nel capoluogo subalpino dalla famosa fabbrica Lenci. Lenci è un acrostico per la frase Ludus Est Nobis Constanter Industria — Il gioco è per noi lavoro costante. Il motto, inventato — pare — dal critico d’arte e giornalista Ugo Ojetti o dal poeta Ignazio Fantasio Vacchetti, identifica la ditta fondata nel 1919 da Elena König e dal marito Enrico Scavini. Ma non solo. Lenci era anche l’affettuoso diminutivo con cui Elena veniva chiamata dai famigliari e dagli amici: Helenchen, Lencina, Lenci. Un piccolo soprannome, in cui sono racchiuse insieme le storie incredibili di una grande donna e di un’importante azienda, che diedero lustro a Torino e all’Italia nel mondo.
Elena König nacque a Torino il 28 febbraio 1886, figlia di un’intellettuale austriaca, Johanna Jarmer, e di un dottore in chimica e scienze naturali di origini tedesche, Francesco. Nel 1885 la famiglia König arrivò a Torino per la nomina di Francesco a direttore della Regia Stazione Chimico-Agraria, dove si trovò a collaborare negli studi sulla filossera anche con Edoardo Perroncito, già noto per aver scoperto la cura per l’“anemia dei minatori” del Gottardo. Elena era la terza di cinque figli. Oltre a lei c’erano Anili (morta giovanissima di tifo), Helga, Gherda e l’unico maschio, Bubine.
Così Elena König ricordò la Lenci bambina nelle sue memorie, scritte nel 1953 (e pubblicate nel 1990 da Il Quadrante edizioni e successivamente nel 2007 da Neos edizioni per volontà dei figli Anili e Carlo Scavini):
Io ero grassotta e avevo una grossa chioma castana, non ero bella come Gherda, ma neanche brutta; ero paziente, serena, contemplativa e anche buffona! Volevo diventare “qualcuno di speciale”, imparare tutti i mestieri, girare il mondo. Frequentavo le scuole tecniche. La maestra non mi voleva bene: come figlia di una viennese, mi considerava responsabile delle pene inflitte a Silvio Pellico.
La piccola Lenci era vivace e curiosa. Brava in ginnastica, era affascinata dai circensi. Nel 1901, insieme all’inseparabile sorella Gherda, saltò di nascosto sul treno che trasportava la carovana di Madame Nouma-Hawa, una nota domatrice di Lione, che spesso sostava a Torino con il suo serraglio. Scoperte le due clandestine, venne avvertita la madre, che permise loro di restare per cinque mesi con Nouma-Hawa, esibendosi con elefanti, serpenti e iene. Oltre a domare bestie feroci, Lenci sapeva anche cucire e, assemblando insieme pezzi di stracci, creava da sé le bambole con cui giocava.
I dolori della vita vennero scoperti presto da Elena, che a soli nove anni, il 10 gennaio 1895, perse il padre. A causa di problemi economici sul lavoro e di uno stile di vita un po’ sregolato, la morte di Francesco catapultò la famiglia in cattive acque. Per sbarcare il lunario, Johanna si mise a dare lezioni di lingue e vendette tutti gli oggetti, i mobili e le opere d’arte che aveva in casa. Anche i figli si diedero da fare e iniziarono a lavorare.
Elena si trasferì all’estero e passò da un impiego all’altro: domestica, bambinaia, insegnante di italiano, dama di compagnia, operaia e commessa viaggiatrice. Stabilitasi a Düsseldorf nel 1905, un paio di anni dopo Lenci ottenne il diploma di maestra fotografa e aprì uno studio in Königsallee, che divenne un punto d’incontro per artisti e intellettuali. Tra questi, c’era anche un maestro di batik che le insegnò a tingersi i capelli con l’henné (fu una delle prime a farlo e continuò fino ai cinquant’anni inoltrati).
Proprio nella città tedesca, pranzando in una pensione, Elena incontrò il suo futuro marito. Enrico Scavini, “magro, bruno, nervoso, molto distinto e piuttosto taciturno”, si trovava a Düsseldorf per studiare il tedesco e fare apprendistato in una fabbrica di tessuti. Ci volle qualche anno prima che il giovane si dichiarasse a questa ragazza indipendente e creativa:
Sono qui per portarla via: da sei anni aspetto questo momento. Non sono milionario, ma neanche povero. E mia moglie starà bene in una casetta a Torino, dove ho il mio ufficio. Lei è rimasta così come la ricordavo; direi più bella […]. So che lei è un’artista; so che balla bene. Io non so fare un passo di danza, sono un commerciante, ma saprò renderla felice perché so che lei è la donna che ho sempre desiderato.
Dopo anni frenetici trascorsi tra i mille lavori svolti e le mille persone più o meno stravaganti incontrate, Lenci ritornò a Torino. Le nozze con Enrico si celebrarono l’1 febbraio 1915 in collina, nella chiesetta di San Vito, e il pranzo si svolse al ristorante del Cambio. La guerra bussò alle porte ed Enrico partì, arruolato in aviazione. Nel 1917 nacque una bambina, Gherda, che un attacco fulminante di febbre spagnola si portò via.
La casa, dopo la perdita della mia bambina, era triste e vuota. Cosa avrei potuto fare? Nulla mi attirava […]. Chissà se sarei capace di fare dei pupazzi, delle bambole di stoffa, buffe, divertenti, che i bambini possano buttare per terra senza paura di romperle? Mi ricordavo che la mia bambola preferita non era quella bellissima dalla testa di porcellana, ma la mia, fatta con un pezzo di legno e la testa di stracci. Con la fantasia potevo farla diventare una principessa, oppure una bambina, buona o cattiva. La bambola di porcellana era finita e bella, e non poteva essere altro che bella. Invece la mia non era niente, quindi poteva diventare tutto […]. Ma da dove cominciare? Doveva avere braccia, gambe, corpo e testa; avrei voluto che fosse morbida e calda. Non era facile. E mi dicevo: sei matta, Lenci, chi comprerà questi stracci?
Lenci riversò il grande dolore per la perdita della figlioletta nella creazione di pupazzi. Dapprima un pagliaccio e una bimba, poi un cavallino, un contadino, un cane e così via. Elena cuciva, imbottiva, decorava e poi chiudeva tutto in un armadio. In fin dei conti questi giocattoli erano per Gherdilin: con questa compagnia non si sarebbe sentita sola nell’aldilà.
Tuttavia, Elena non era pienamente soddisfatta dei risultati. Per perfezionare le sue bambole aveva bisogno di un materiale più morbido, malleabile e lavabile, che non si rovinasse troppo con gli strapazzi dei bambini e che fosse simile al feltro usato per i cappelli Borsalino. Nacque così, grazie anche al supporto tecnico del fratello Bubine, il pannolenci. Privo di trama e ordito, il pannolenci non è un tessuto, ma un feltro di lana compatto costituito da fibre di lana miste a peli animali, pressati insieme a caldo. Lencina fu la prima bambola realizzata con questo materiale:
Un bel nasino, una piccolissima bocca e grandi occhi celesti. Le braccia e le gambe erano di feltro rosa carne; il vestitino pure di feltro, a quadretti bianchi e rossi. Non era più di stracci. Era una cosa nuova, morbida e calda. Sei matta, Lenci, chi comprerà questi stracci?
A Enrico dispiaceva che l’impegno della moglie rimanesse nascosto agli occhi del mondo. Le bambole erano vivaci, ben fatte e sicuramente sarebbero piaciute anche ad altri. Una sera l’armadio venne aperto e le bambole furono mostrate ad alcuni amici venuti a cena. Elena ricevette dei riscontri molto positivi. In particolare, l’italo-americano Pipp propose ai coniugi di tentare la vendita negli Stati Uniti. Prese con sé i pupazzi e li portò a Napoli, dove si imbarcò sul piroscafo diretto in America. Tre settimane dopo, Pipp scrisse agli Scavini che le bambole in pannolenci non avevano fatto in tempo a sbarcare: erano state vendute tutte durante la traversata!
Il 23 aprile 1919 Enrico Scavini depositò il marchio Lenci. Una nuova avventura ebbe inizio per Elena.
Al 1921 risalgono l’assegnazione della medaglia d’oro all’Esposizione d’Arte Decorativa di Torino e la pubblicazione del primo catalogo dell’azienda, con settanta modelli di bambole fabbricate su ordinazione. Nel 1922 con le commissioni lievitava anche il numero delle operaie e la produzione si spostò dagli ambienti casalinghi di via Marco Polo 5 al nuovo stabilimento di via Gian Domenico Cassini 7. Qui Lenci ricevette le visite di importanti personaggi, dalla regina Elena al filosofo Rabindranath Tagore a Walt Disney.
Nel 1923 si assistette all’apertura del primo negozio Lenci a Milano, nella prestigiosa Galleria Vittorio Emanuele II, e alla partecipazione alla prima Biennale di Arti Decorative di Monza, seguita nel 1925 dalla medaglia d’oro all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes a Parigi.
Si leggeva sull’Illustrazione Italiana:
Questi fantocci di colori vivi e contrastanti, immaginati con arguzia e bizzarria tra fantastica e sentimentale, sono sempre piacevoli.
Quelle bambole con il caratteristico grugnetto, dall’espressione imbronciata o stupita, rifinite con un’attenzione per il dettaglio che non aveva nulla da invidiare a quella dei pittori fiamminghi, ormai venivano richieste non solo dall’America, ma anche dall’Europa e fino al Giappone. Erano amate da grandi e piccini in egual misura. Personaggi famosi, come Marlene Dietrich e Shirley Temple, ne possedevano vari esemplari. E dal mondo dello spettacolo Elena traeva spesso ispirazione, tanto da dare alle sue bambole l’aspetto della ballerina Josephine Baker o del divo Rodolfo Valentino. Con la ditta Lenci collaborarono gli artisti più noti dell’epoca: Giovanni Riva, Eugenio Golia Colmo, Mario Sturani, Gigi Chessa, Marcello Dudovich, Sandro Vacchetti, Felice Tosalli, Giovanni e Ines Grande. Questi, e molti altri ancora, contribuirono a rendere i prodotti Lenci delle opere d’arte a tutti gli effetti.
Per far fronte alle numerose emulazioni, meno raffinate e più economiche, della concorrenza, i coniugi Scavini differenziarono ancora di più la produzione, che già non comprendeva soltanto bambole, ma anche gioielli, oggetti di arredo, tessuti. Dal 1926 Elena, ispirata dalla composizione floreale al centro della tavola dove la sua famiglia era solita prendere il tè, pensò di usare il pannolenci per realizzare fiori, bouquet, coroncine per i capelli, vestiti e cappellini. Un giorno, sfogliando i suoi cataloghi d’arte e osservando le opere dei Della Robbia e delle manifatture di Capodimonte e Rosenthal, ebbe l’idea di creare delle ceramiche nel suo stile peculiare.
Nel 1928 le nuove ceramiche artistiche Lenci vennero presentate all’Esposizione Nazionale di Torino, nel 1929 alla Galleria Pesaro di Milano e l’anno seguente alla quarta Triennale delle Arti Decorative e Industriali Moderne a Monza. Ma si trattava di prodotti elitari e, nonostante gli apprezzamenti dei critici e dei collezionisti, non si riuscivano a vendere. Servivano dei soggetti più accattivanti e popolari. Per fortuna, la creatività di Elena era inarrestabile. Passeggiando sotto i portici di piazza Castello, notò una quindicenne graziosa e scattante. La fermò e le chiese di andare a posare per lei. La giovinetta, Nella, accettò di buon grado e da questo incontro fortuito nacque la serie di ceramiche dette Nelle.
Tutte sentimento e niente anatomia. Ma ricordavano molto le bambole e ispiravano allegria. La Nella aveva salvato la ceramica. Di queste adolescenti ne avrò fatte non so quante! Mi divertivo a farle vestite in attesa del tram col vento che alzava loro le sottanine fino al ginocchio… mi divertivo a crearle, non facevo nessuna fatica. Se ne vendettero a migliaia.
Dopo le Nelline, vennero anche le Madonne e i Nudini in ceramica, ma tutto ciò non bastò a salvare un’azienda sull’orlo del baratro. Oltre alla concorrenza e alla crisi del 1929, la situazione fu aggravata anche dall’eccessiva diversificazione del prodotto, che frammentava troppo la produzione facendone aumentare i costi, e da una gestione amministrativa non oculata. I coniugi Scavini non avevano un grande spirito imprenditoriale ed erano assai prodighi con amici e dipendenti. E il mondo degli affari solitamente non premia gli idealisti.
Nel 1933 entrarono in società i fratelli Pilade e Flavio Garella, che diventarono gli unici proprietari nel 1937. Nel 1938 Enrico Scavini morì ed Elena fu assunta come direttore artistico fino al 1941. Ritiratasi, passò l’ultimo periodo della sua vita circondata dall’affetto dei figli Anili e Carlo, dedicandosi alla scultura in legno, alla tessitura e all’arredamento. Elena König si spense nel 1974. Nel 1992 la famiglia Garella cedette la ditta alla Bambole Italiane S.r.l. Nel 1998 fu inaugurato lo showroom La Casa delle Bambole in via Carlo Alberto 59, trasferito nel 2000 in via Giovanni Amendola 5 b. Nel 2002 la Bambole Italiane S.r.l. ha fatto fallimento e con essa sono spariti sia il negozio che lo storico marchio Lenci. L’archivio è stato però acquisito dalla Direzione Musei e dall’Archivio Storico di Torino, per impedire la totale dispersione di un tesoro della storia cittadina.
Oggi i prodotti della ditta Lenci sono diventati leggenda, protagonisti di mostre e cataloghi, ricercatissimi dai collezionisti e valutati con somme da capogiro alle aste. Spuntano sulle bancarelle nei mercatini dell’antiquariato e trovano posto nei musei. Chi ha ereditato dalla nonna una bambola Lenci, se la tiene stretta. Ma anche nel centro storico di Torino resta una testimonianza ben visibile dell’avventura Lenci. Sotto i portici di piazza Castello, osservate il civico 33. Lì ha sede il negozio di abbigliamento Anili, che aprì nel 1926 come rivendita della fabbrica Lenci e dove Anili Scavini ha accolto i clienti fino a pochi anni fa. All’esterno della boutique, sulla fascia bianca in basso della devanture in ghisa della vetrina è applicata la riproduzione di una tipica bambola Lenci. Con il suo sguardo stupito osserva i passanti, rammentando a quelli più attenti la capacità della signora Lenci di plasmare tutto un mondo fantastico partendo dal grande dolore per la perdita della sua amata primogenita.
Negozio Anili a Torino © Archivio Storico della Città di Torino.