Illustrazione © Roberto Gentili
Il volume Le mie esplorazioni in Somalia venne pubblicato nel 1944, quando ormai i sogni dell’impero e l’avventura coloniale italiana erano finite. L’autore del saggio, Enrico Benedetto Baudi di Vesme, era morto nel 1931, poco dopo l’aver completato il proprio volume. Ma tutta la vita di Enrico Baudi di Vesme pare segnato da questa condizione incerta, da questo avanzare e retrocedere, da questo arrivare sempre leggermente in ritardo.
Nato a Torino il 21 novembre 1857, Enrico Baudi di Vesme si brevettò sottotenente di fanteria all’Accademia di Modena nel 1878, e dimostrò fin da subito un grande interesse per le esplorazioni.
L’Italia stava occhieggiando l’Africa, in cerca di spazi dove potersi espandere, e la penisola somala sembrava a Baudi di Vesme un territorio promettente. L’occasione propizia si presentò nel 1889, quando l’Italia assunse il protettorato dei sultanati di Obbia e Alula, nella penisola somala. Enrico Baudi di Vesme vide una possibilità e, senza alcun supporto da parte delle autorità o delle istituzioni italiane, nel 1890 approfittò di una licenza (era pur sempre un militare) per raggiungere Aden e poi da lì Berbera, una città somala sul Mar Rosso, all’epoca sotto il controllo britannico.
Da Berbera, l’esploratore si avviò verso l’interno, seguendo il corso del fiume Thugdeer e raggiungendo i monti di Bur Dap, con l’intento di attraversare la penisola somala da nord a sud, compiendo osservazioni geografiche ed etnografiche. Senza un supporto ufficiale e con mezzi scarsi — solo la rivista Cosmo aveva finanziato il suo viaggio — e frequentemente ostacolato dalle tribù locali, Baudi di Vesme non riuscì a completare la traversata, ma dopo tre settimane si ritirò in buon ordine a Berbera, e da lì rientrò in patria. Il suo resoconto Viaggio nell’interno del paese dei Somali da Berbera ai monti Bur Dap nel 1890 venne pubblicato dalla rivista Cosmo.
Nella sua prima impresa africana, Enrico Baudi di Vesme non aveva forse raggiunto i propri scopi, ma aveva per lo meno segnalato la propria volontà e capacità di affrontare i disagi di una lunga spedizione di esplorazione. Ne ricavò il supporto di alcune autorità — fra questi il generale Luchino Dal Verme. Dal Verme aveva viaggiato a lungo, fra gli anni ’70 e ’80 del secolo, come ufficiale d’ordinanza del principe Tommaso, duca di Genova. Ora deputato per il comune di Bobbio e vicepresidente della Società Geografica Italiana, Dal Verme era soprattutto uno dei principali sostenitori dell’espansione italiana in Africa. Enrico Baudi di Vesme era per il generale la persona giusta per gettare le basi di una presenza italiana in Somalia.
Per pianificare l’espansione servivano mappe, dettagli e naturalmente contatti, e accordi. Con alle spalle i fondi della Società Geografica e della Società Africana di Napoli, Baudi di Vesme prese un anno di aspettativa dalla fanteria, e sei mesi dopo il suo ritorno dalla prima spedizione era di nuovo a Berbera, questa volta in compagnia di Giuseppe Candeo. I due erano diretti verso lo Uebi Scebeli (letteralmente “Il Fiume dei Leopardi”), in un tragitto che nuovamente li avrebbe portati ad attraversare la penisola somala da nordovest a sudest. Apparentemente gli inglesi fecero delle difficoltà, ma questo non bastò a fermare i due esploratori.
In due mesi di marcia, Baudi di Vesme e Candeo raggiunsero Imi, una fiorente città commerciale. Erano i primi europei a mettervi piedi. Lo Uebi Scebeli venne raggiunto pochi giorni dopo, in seguito ad una marcia di seicento chilometri. Anche in quest’occasione, tuttavia, una serie di problemi incontrati durante il tragitto, e l’instabilità politica della zona — nella quale erano frequenti le razzie da parte delle forze abissine — obbligarono gli esploratori italiani a cambiare i propri piani. Abbandonata l’idea di esplorare il bacino del Fiume dei Leopardi (che sarebbe stato cartografato solo nella seconda metà degli anni ’20, da una spedizione guidata dal Duca degli Abruzzi), Candeo e Baudi di Vesme ripiegarono verso la città fortificata di Harar, dove pochi anni prima aveva vissuto Arthur Rimbaud, durante la dominazione egiziana del territorio.
Ora tuttavia gli egiziani se ne erano andati — insieme con Rimbaud — e Harar era una parte dell’impero di Menelik II: Candeo e Baudi di Vesme vennero prontamente arrestati dalle autorità locali.
Il governatore di Harar, il ras Makonnen, si mostrò inizialmente amichevole con gli esploratori italiani, che vennero liberati e accolti come ospiti, salvo poi cambiare atteggiamento, sequestrare tutti i beni della spedizione, e invitando amichevolmente gli italiani ad andarsene il prima possibile. Sei mesi dopo l’inizio della loro avventura, Baudi di Vesme e Candeo erano nuovamente in Italia.
Durante il viaggio di esplorazione, Baudi di Vesme aveva raccolto un certo numero di richieste, controfirmate dai capi tribù dei territori attraversati dalla spedizione, a favore dell’intervento italiano in Somalia. Nel chiamare in proprio aiuto gli italiani contro i somali, i firmatari di quelle richieste di fatto offrivano la penisola somala al governo italiano. Il ras Makonnen era probabilmente preoccupato dal possibile effetto di queste richieste. Né si può escludere che ancora una volta fossero gli inglesi, a cercare di intralciare i piani degli italiani. Ma Makonnen non avrebbe dovuto preoccuparsi — rientrato in Italia, Enrico Baudi di Vesme non riuscì a trovare alcun supporto nel governo italiano, e l’intero progetto per una espansione coloniale in fondo “richiesta ed auspicata” dalle popolazioni da colonizzare, andò a monte.
Amareggiato e osteggiato dal sistema politico e militare sabaudo, Baudi di Vesme si ritirò dall’attività di esploratore, e arrivò a rifiutare una tardiva promozione a maggiore nel 1899. Cinque anni dopo sarebbe stato messo in pensione anticipata, all’età di quarantotto anni. Allo scoppiare della Grande guerra, il maggiore Baudi di Vesme si offrì ripetutamente volontario per una posizione nell’aeronautica italiana. Venne ripetutamente respinto.
La sua avventura era finita.