Nel 1856 Filippo de Filippi, uno dei più autorevoli naturalisti italiani e docente di Zoologia all’Università di Torino, pubblicò un testo di carattere divulgativo intitolato La creazione terrestre. Lettere a mia figlia. Aveva allora 42 anni e la figlia, Elisa, era nata del 1843. Il libro è composto da venti lettere che costituiscono un compendio delle conoscenze scientifiche dell’epoca: dalla geografia della Terra, alla composizione dei suoi elementi, alla chimica, le rocce, i vulcani, la stratigrafia, i fiori. Nella prefazione De Filippi risponde subito a una potenziale critica: quella di aver indirizzato le lettere, scritte “a lunghi intervalli, in ore di ozio”, a sua figlia, ovvero a una donna. Alla domanda se un insegnamento di scienze naturali possa essere proposto alle giovani educande, risponde senza esitazioni di sì.
La convenienza per tutti di conoscere alquanto il mondo fisico nel quale e del quale viviamo, non potrebbe essere impugnata da alcuno; ma ancor più grande, incomparabilmente più grande è il vantaggio morale di questi studj, che sviluppano lo spirito di osservazione, coltivano la mente e nell’istesso tempo i più nobili sentimenti del cuore, e per la scala degli esseri creati innalzano la ragione al culto di Dio.
E conclude:
si crederebbe ricompensato oltre la speranza, quando riescisse a svegliare nelle giovani donne l’amore di queste occupazioni dello spirito sostituito al gusto effimero di altre letture più vane, quando anche non pernicioso.
Da queste parole emergono alcuni dei punti saldi del pensiero di De Filippi: la grande importanza assegnata alla divulgazione, alla necessaria dimensione popolare delle scoperte scientifiche; il valore morale della scienza, attraverso la cui conoscenza è possibile migliorare se stessi; la connessione tra scienza e religione. De Filippi, anche se fu da alcuni considerato un uomo empio — e si vedrà il perché — fu sempre profondamente religioso: secondo lui la scienza poteva spiegare in tutte le sue articolazioni complesse e meravigliose la creazione divina, tanto che dirà pubblicamente, riguardo alla teoria dell’evoluzione di Charles Darwin: che cos’è, se non la possibilità di dare un senso alla parola “creare”?
Sarebbe però fuori luogo attribuirgli una larghezza di vedute, che forse non poteva avere, su “questioni di genere”: se le donne potevano ricevere un insegnamento di scienze naturali, più difficilmente avrebbero potuto a loro volta, come gli uomini, elaborare teorie e scrivere libri. Come è facile immaginare, uno dei dibattiti più accesi dell’epoca, quello sull’antichità della Terra e dell’uomo, è tutto al maschile: sono gli uomini che propongono idee, discutono e litigano, e sarà così fino almeno a metà XX secolo. Le donne, nel frattempo, saranno state impegnate in letture effimere e perniciose. Di Elisa sappiamo quasi solo che era la sua unica figlia, perché De Filippi non aveva, né ebbe mai, figli maschi.
La profezia di una fama postuma che lo avrebbe raggiunto presto o tardi, fatta da Michele Lessona — grande naturalista torinese e successore di De Filippi alla cattedra di Zoologia — si è avverata solo in parte. Filippo de Filippi nacque nel 1814 a Pavia da una famiglia piemontese proveniente dai dintorni di Mondovì. Il padre Luigi, che combatté nell’esercito di Napoleone fino alla campagna di Russia, era medico. Filippo pure si laurea in Medicina ma, a partire dal 1840, inizia a lavorare presso il Museo Civico di Storia Naturale di Milano come zoologo naturalista, e a tenere lezioni all’Università di Pavia. Nella vita privata, sposa nel 1842 Angela Vallardi, figlia dell’editore milanese, che lo lascia presto vedovo, con l’unica figlia, Elisa. Su suggerimento di Giuseppe Gené, professore di zoologia a Torino e che voleva istituire una cattedra di Anatomia comparata, Carlo Alberto nel 1847 chiama a Torino il De Filippi. L’anno successivo Genè muore inaspettatamente e De Filippi, a 34 anni, ne prende il posto. Inizia così la sua carriera di professore universitario.
I suoi interessi vastissimi spaziavano dalla zoologia (in particolare lo studio dei mammiferi) alla mineralogia, all’anatomia comparata e all’embriologia, con una spiccata attitudine alla divulgazione e alla promozione dell’insegnamento delle scienze nelle scuole. Nel 1853 scrive anche, insieme a L. Battalia, un saggio sul modo di applicare la pena di morte: i due difendevano la posizione della Regia Accademia Medico Chirurgica secondo la quale la morte per decapitazione era meno dolorosa di quella per impiccagione. A metà ‘800 De Filippi è uno dei più autorevoli naturalisti italiani e riveste anche incarichi nella pubblica amministrazione.
Dopo alcune missioni scientifiche in Sardegna, Germania e Francia, nel 1862 gli si propone la possibilità di un viaggio in Persia. Un viaggio diplomatico, che aveva tra gli altri lo scopo di reperire bachi da seta ormai scarsi in Piemonte e in Lombardia; ma si trattava anche, come si usava allora, di una missione scientifica: tra i diciotto partecipanti, insieme a militari e diplomatici, erano presenti Michele Lessona, allora allievo di De Filippi, e Giacomo Doria (fondatore del Museo di Storia Naturale di Genova). Il compito di Lessona e Doria era di occuparsi degli animali articolati e dei molluschi, mentre De Filippi avrebbe preso nota dei vertebrati e delle evidenze geologiche. Andarono in nave da Genova a Costantinopoli, poi a cavallo sino a Teheran; dopo un’escursione sul monte Demavand, nel nord del paese, De Filippi insieme a un piccolo gruppo si separò dal resto della delegazione e tornò a Torino, passando per la Russia e San Pietroburgo. Il viaggio durò 7 mesi e al ritorno De Filippi lo descrisse in un volumetto intitolato Note di un viaggio in Persia nel 1862. Nella prefazione presenta la sua idea di divulgazione; il libro, dice, è
“un miscuglio di mie impressioni, di notizie raccolte, di osservazioni scientifiche”, un’accozzaglia di elementi diversi, quindi, apprezzabili “da un pubblico egualmente alieno dal pretendere i vivi colori, l’ordinata varietà, le emozioni di un racconto, come lo stretto tecnicismo, il metodo rigoroso di una relazione scientifica: un pubblico ipotetico infine, il che vorrà dire forse nessun pubblico”.
Per nulla sedotto dal fascino orientale, De Filippi descrive la Persia come un paese aridissimo e desolato:
È difficile il transfonder in chi non l’ha aquistato co’ suoi proprj occhi un concetto adeguato della tristezza, della desolazione di questo paese.
(cap. IX)
Durante il viaggio incontra il conte di Gobineau, allora addetto dell’ambasciata francese sotto Napoleone III. Quarantenne, Gobineau aveva da poco pubblicato il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, nel quale sosteneva, in sintesi, che se le razze si mescolano ha inizio la decadenza delle civiltà. De Filippi lo definisce “il nostro zelante protettore” e lo descrive oggettivamente, come
un uomo ancora nel vigor dell’età, di ingegno irrequieto […] conosciuto nel mondo letterario per le sue relazioni di viaggi (pure lui aveva pubblicato, nel 1859, delle memorie persiane, N.d.A) e specialmente per la sua opera sull’“ineguaglianza delle razze umane”.
Gobineau, per inciso, esattamente vent’anni più tardi sarà colpito da infarto nei pressi della stazione di Porta Nuova, e sarà sepolto a Torino.
Nelle pagine finali De Filippi propone una velata ipotesi sull’“origine della schiatta umana”, dopo aver osservato attentamente la sequenza della stratigrafia geologica e i numerosi cocci e frammenti di ossa presenti nei tepé, le collinette artificiali che costellano il paesaggio persiano. In questo paese — scrive — “si racchiudono materiali preziosissimi relativi alle più remote epoche geologiche”, ed è curioso che come prova della sua teoria prenda anche l’Avesta, il testo sacro dei Parsi.
Quando scrive, De Filippi ha ben chiaro il dibattito in corso in quegli anni, in Europa, sull’antichità dell’uomo. Tre anni prima è uscito L’origine delle specie di Charles Darwin; la prima traduzione italiana integrale è ancora di là a venire, nel 1864 (sarà curata da Giovanni Canestrini e Leonardo Salimbeni per l’editore Zanichelli di Modena), ma negli ambienti accademici se ne è già molto parlato, e di certo ne avranno discusso Lessona e De Filippi.
Anche sul piano archeologico la scoperta dell’antichità dell’uomo ha fatto grandi passi. Dopo il riconoscimento dei fossili come resti di piante e animali realmente esistiti ed estinti, sancito dall’opera del barone francese Georges Cuvier a fine XVIII secolo, le scoperte ormai numerose di ossa di animali estinti associate ad ossa di uomini hanno portato la comunità scientifica ad accettare, dopo decenni di rigetto, l’idea che l’uomo sia vissuto in un’epoca molto più antica rispetto ai 6.000 anni desumibili dalla Bibbia. La data esatta della Creazione, il 22 ottobre 4004 a.C., calcolata dal vescovo irlandese Ussher nel XVII secolo, ormai dai più non è accettata, né il Diluvio è più proponibile come una tesi seria in geologia.
Nel 1856 sono stati ritrovati nella valle di Neander, in Germania, i primi resti fossili di uomini primitivi anatomicamente diversi dagli uomini moderni; hanno arcate sopraccigliari sporgenti, il setto nasale molto ampio, la fronte sfuggente, la volta cranica bassa e allungata all’indietro: sono gli uomini di Neandertal.
Nel 1862, l’anno del viaggio in Persia di De Filippi, Charles Lyell, il padre della geologia moderna, pubblica un volume intitolato Evidenze geologiche dell’antichità dell’uomo, nel quale riconosce che le origini dell’uomo, e non solo quelle della Terra come già era stato postulato, sono molto più antiche di quello che si pensava. De Filippi opera nel contesto di questa rivoluzione temporale ed epistemologica. Molti — a partire da Cuvier e da Lyell stesso, in gioventù — avevano ritenuto improbabile che vi fossero resti fossili degli uomini antidiluviani, quelli cioè vissuti prima del “Diluvio”: ora gli antidiluviani, oltre ad essere per certo esistiti, cambiano nome e diventano uomini “preistorici”. La preistoria, lo studio delle epoche più remote attraverso la lettura delle tracce materiali che uomini e donne hanno lasciato sulla superficie della Terra, nasce proprio in questi anni.
Negli scritti giovanili De Filippi, ancora lontano dal conoscere la teoria darwiniana della selezione naturale, si mostra a favore della generazione spontanea, ammetteva cioè che vegetali e animali semplici e unicellulari potessero originarsi spontaneamente — una teoria errata, che però era stata accettata per secoli anche perché permetteva di dare un senso all’altrimenti inspiegabile presenza di fossili nelle rocce. Ne Il diluvio noetico, uscito un anno prima rispetto alle Lettere alla figlia, sostiene — le parole sono del Lessona — che
l’uomo sia sulla terra più antico di quello che danno a credere le teorie del Cuvier, e che abbia vissuto contemporaneamente ad alcune delle grosse specie di mammiferi da immemorabile tempo scomparse.
Nelle lettere alla figlia si mostra catastrofista (lettera XI), sostenendo che la faccia della Terra sia stata rinnovata non da uno ma da più diluvi (era la teoria proposta dal Cuvier per spiegare il numero molto alto di fossili esistenti), ma nello stesso tempo crede che siano esistiti uomini antidiluviani o preadamitici, per quanto l’uomo anatomicamente moderno debba essere stato creato solo dopo l’ultimo diluvio, quello di Noè.
Nonostante cambi di pensiero e contraddizioni che sono comuni anche a molti altri naturalisti del tempo, il pensiero costante di De Filippi è che la storia della creazione divina possa essere raccontata in modo scientifico e libero da un’interpretazione troppo letterale delle Sacre Scritture. Ed è quello che sostiene anche la sera dell’11 gennaio 1864, quando tiene a Torino una conferenza celebre e assai criticata dal titolo L’uomo e le scimie. Per la prima volta in Italia, De Filippi discute pubblicamente le teorie darwiniane, tentando di conciliare la tradizione religiosa cristiana con le dirompenti conseguenze culturali e filosofiche derivate dalla teoria di Darwin: il nuovo posto da dare all’uomo nella natura, la scoperta dell’antichità della nostra origine, la parentela tra l’uomo e animali allora considerati inferiori, come le scimmie.
L’inizio della lezione è molto poetico:
La infinitamente bella e grande varietà di forme di piante e di animali che popolano ora la superficie della terra, non è apparsa tutta insieme d’un sol getto, ma è stata preceduta da una successione di altre forme diverse, di altri mondi di viventi, che hanno lasciate, a documento della loro passata esistenza, spoglie più o meno complete negli strati della corteccia terrestre.
Passa poi a descrivere la grande varietà di scimmie antropoidi (antropomorfe) e le somiglianze anatomiche tra di esse e l’uomo; ribadisce che i fatti ci obbligano a spingere l’origine della schiatta umana molto più indietro nel tempo di quanto non si pensasse prima, e che l’uomo ha convissuto in Europa con varie specie di mammiferi estinti; cita il ritrovamento dell’uomo di Neandertal (forse saranno uomini di questo genere, la razza diversa dall’attuale, che hanno abitato l’Europa prima di noi?), poi cerca di convincere la platea:
Ascoltate, o signori. La teoria di Darwin non ha nulla di allarmante. […] Dire che l’uomo deriva da una scimia, non è altro che esprimere un fatto anatomico […] L’uomo è una derivazione delle scimie, e queste sono una figliazione del ramo de’ lemuri, il quale, alla sua volta, s’impianta sul ramo delle falangiste, che si collega ad altro stipite, e così via via si discende per l’albero genealogico degli animali, fino al tronco, fino ad uno stipite unico per tutti. Ed allora cos’è questo se non un modo di concepire la creazione organica? Cos’è questo se non un senso che verrebbe dato alla parola creare, che entra così spesso nel nostro discorso ed alla quale non è congiunta alcuna idea determinata?
Le distanze che separano l’uomo dalle scimmie sul piano spirituale lo inducono però a pensare — e in questo non segue Darwin — che l’uomo meriti un regno a parte, un quarto regno oltre a quelli animale, vegetale e minerale. Insisterà, nell’appendice alla terza edizione della lezione (1865), sul fatto che la sapienza divina sia rilevabile più nelle leggi che regolano la vita degli esseri viventi che non negli esseri stessi; e che
si può essere profondamente atei ammettendo la formazione di getto delle specie organiche, mentre un vero sentimento religioso è conciliabile colla dottrina della figliazione genealogica della specie da un tipo primitivo, come l’esclamazione ascetiva “non casca foglia che Dio non voglia” è conciliabile col pieno riconoscimento delle leggi della gravità.
Eppure, nonostante avesse tentato di dimostrare che tra le scimmie e l’uomo vi fosse un abisso, il pubblico — come scriverà Lessona — rimase persuaso dell’opposto.
Critiche di immoralità ed empietà gli furono mosse a partire da quella sera e sino alla morte, avvenuta prematuramente solo tre anni dopo. De Filippi si trovava allora a Hong Kong, partecipe di un’altra missione scientifica e diplomatica: la prima circumnavigazione del globo promossa dal Regno d’Italia, di cui Torino era allora capitale. All’inizio dell’anno fu colpito da una grave malattia, forse un’epatite, che lo portò alla morte a 53 anni. Quando in Italia giunse la notizia che aveva ricevuto l’estrema unzione, alcuni esponenti del clero interpretarono il fatto in modo sprezzante, come un tentativo in extremis di riconciliarsi con la Chiesa Cattolica dopo aver sostenuto le blasfeme tesi evoluzionistiche. Per contro, dal fronte anticlericale si levarono le voci di coloro che non ritenevano possibile una sua conversione in punto di morte (il giornalista Mauro Macchi pubblicò su Il libero pensiero. Giornale dei razionalisti un articolo intitolato Non è possibile) e ipotizzavano che De Filippi negli ultimi giorni, quando aveva già perduto il lume della ragione, fosse stato circuito dai religiosi italiani presenti a Hong Kong. A entrambe le due forme di strumentalizzazione della morte del naturalista risponderà il Lessona, affermando che sia il giornalista sia i predicatori non conoscevano affatto De Filippi: per poco che l’avessero conosciuto,
non solo non avrebbero fatto le meraviglie della sua morte confortata dalla religione, ma sarebbero stati persuasissimi che la cosa non poteva essere altrimenti.