C'è un termine, nella lingua inglese: anemoia, ovvero la nostalgia per un tempo che non si è conosciuto. È qualcosa di cui soffrono in tanti, spesso. È all’origine di mode, di infatuazioni culturali, di infinite sciocchezze. Il termine ben si adatta a ciò che può capitare sfogliando con un secolo di ritardo le pagine di fresco digitalizzate della guida Torino e i suoi dintorni, stampata nel 1916 dalla tipografia Eredi Botta.
Trecento e ottantaquattro pagine, dal margine estremo della Belle Époque, all’ombra della Grande Guerra ormai incombente.
Il volume vuole essere freddamente utilitaristico, e insieme con cenni storici e turistici, include i numeri di telefono dei principali uffici e servizi (pagina 7), i numeri d’emergenza (200), gli orari di visita degli ospedali (209), l’elenco dei corrieri giornalieri (295) e dei conducenti (319), il cambio delle monete estere in Lire Italiane (354) e poi la rubrica generale dell’Industria e del Commercio (356). Ci arriveremo.
Una sorta di Pagine Gialle della Belle Époque, insomma, un artefatto di un tempo in cui un numero di telefono urbano era di quattro cifre: 31–15, come quello del signor Giuseppe Ferré, che vendeva calzature al dieci di via Garibaldi.
Certo, la Torino del 1916 è più piccola dell’attuale metropoli, molte vie hanno nomi diversi, molti edifici non sono sopravvissuti al Ventennio ed ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. E se la grafica liberty e certe espressioni portano con sè il fruscio di un disco di grammofono alle nostre orecchie abituate agli mp3, non sono poche le sorprese che possiamo trovare fra queste pagine.
Sciocchezze, forse, come imbattersi a pagina 99 nella pubblicità della ditta Pietro Gandolfo, fornitore di Sua Maestà la Regina Madre e dei Reali Principi, per le loro esigenze di benzina, lubrificanti e pneumatici per automobili. Chi ci aveva mai pensato, che anche la Regina Madre potesse avere necessità di fare il pieno, o far regolare la pressione alle gomme?
E quasi a margine ci accorgiamo che, cento anni or sono, “automobile” era sostantivo maschile: un automobile, tutti gli automobili. Quando, nella lingua italiana, le vetture hanno assunto una connotazione femminile?
E anche solo i numeri possono raccontare delle storie. Numeri e parole.
La Torino del 1916 è una città popolata di avvocati, in assoluto la categoria professionale più vasta. Ma ci sono anche oltre settecentocinquanta medici, operanti nel territorio comunale di Torino nel 1916. Ben più di ottocento contando anche i dentisti.
E undici dottoresse, così poche che possiamo elencarle per nome: Matilde Bonnet, Angiola Borrino, Carolina Bosso, Jole Del Bondio, Augusta Delù, Felicina Ebranci, Gina Lombroso-Ferrero, Maria Martinotti, Emilia Palmegiani e Adelina Rossi-Canuto.
Solo undici donne medico, in una città nella quale si stampano Il Venerdì della Contessa e La Donna, entrambi periodici femminili settimanali. Ma ci sono anche l’ovviamente politico Il Grido del Popolo e La Cinematografia Italiana, fra le ventidue riviste stampate in città.
E che ci sia una rivista di cinema non sorprende: Torino è ancora la capitale della cinematografia italiana, e in elenco compaiono trentanove cinematografi.
Ecco, quindi, un’altra sorpresa: la vivacità e diversità della cultura torinese nel 1916. Città grigia, Torino, “la città più noiosa del mondo” a detta di Flaubert, eppure città fitta di musei, di biblioteche, di teatri. I dieci teatri principali (ce ne sono in realtà una quindicina, oltre ai caffè-concerto) sono elencati a pagina otto, i loro numeri telefonici fra gli essenziali, dopo gli ospedali e la prefettura. Perché evidentemente chiamare il Teatro Alfieri, il Regio, il Rossini, doveva avere lo stesso peso, la stessa urgenza, la stessa normalità del chiamare l’Ospedale San Luigi, o la società elettrica.
Una delle quattro società elettriche e del gas in elenco. Perché il mercato libero, evidentemente, non è un’invenzione del ventunesimo secolo. E la Società Anonima Elettricità Alta Italia vanta 72.000 cavalli di energia disponibili tramite le sue centrali, e fornisce luce ai suoi clienti tramite 201.789 lampadine a sedici candele.
Ecco, sono queste le sorprese che si annidano fra le pagine della Guida Eredi Botta. Non tanto scoprire una quantità di botteghe, artigiani e imprenditori che vivevano e lavoravano a Torino, non sapere come arrivare a Cirié in tre quarti d’ora circa, o che Aosta risulta essere “nei dintorni” della capitale sabauda.
È invece scoprire due compagnie (la Belga-Torinese e la Municipale) che gestiscono le tramvie urbane, per un totale di ventinove linee, alle quali si sommano quattro compagnie di “tramways” che gestiscono le otto linee extraurbane. E non si può non provare un momento di disorientamento nel rendersi conto che sono elencate otto aziende, con sede in Torino, che producono automobili, e una di queste, automobili elettriche, in corso regina Margherita, al 46. Prima della Tesla, prima di Elon Musk.
Ed infatti è vero, ed è noto, che a New York, prima del 1925, circolavano più autovetture elettriche che non a benzina. Poi qualcosa è cambiato. Ed è cambiato anche a Torino. Otto aziende automobilistiche, una delle quali la Fabbrica Italiana Automobili Torino. Una di tante, una qualsiasi, che non merita (e non paga) neanche uno spazio speciale sulla pagina.
Ho un’idea abbastanza vaga di chi fossero davvero gli Eredi Botta, eppure questi gentiluomini (perché così li immagino, come gentiluomini un po’ impettiti, come quelli che si vedono nei vecchi dagherrotipi, coi baffi arricciati e l’espressione seria) mi affascinano, così come mi affascina la città che emerge dalle pagine di Torino e i suoi dintorni, edizione 1916.
Trasmette, questo artefatto di un’epoca più civile, un’idea di operosità e di intraprendenza, di varietà, di opzioni ancora aperte, di scelte ancora possibili, nonostante l’ombra della guerra.
Impossibile non provare un’ombra, vaga ma persistente e in fondo piacevole, di anemoia.