Nel 1948 fu abolito in Italia il razionamento della carne e del latte e a Torino nacque La Gazzetta del Popolo; l’anno successivo fu abolito il razionamento del pane e della pasta e avvenne la tragedia di Superga. Non sono che alcuni fatti, tra i tanti di quel biennio, utili a capire meglio quanto tempo è trascorso da allora e dunque in quale contesto, precario e disorientato, Guido Martina affrontò nel mondo dei fumetti, un’attività che lo avrebbe portato lontano e che qui diremo in sintesi.
Iniziò in posizione di vantaggio rispetto ad altri, è vero, essendo sul libro paga di Mondadori. Il suo Pecos Bill, ad esempio, subito acclamato a furor di popolo, arrivò in edicola circa un anno dopo il Tex di Bonelli, nato nel 1948 e oggi il più famoso fumetto western da decenni, ma allora sconosciuto e con vita stentata. Il primo, cioè, uscì subito in ottima veste editoriale negli Albi d’Oro mondadoriani, mentre Tex uscì in formato striscia da una piccolissima casa editrice, senza prevedere il più che roseo futuro che lo attendeva.
Vero anche, peraltro, che Martina presentò da subito un personaggio ancora oggi ricordato con nostalgia, utilizzando la propria versatile cultura, un ricco bagaglio di ricerche sul folclore e la storia del West, nonché precedenti esperienze nel mondo della carta stampata e una fantasia di alto livello. Si è visto infatti che il Pecos Bill apocrifo, ossia utilizzato da altri dopo il 1955, quando Mondadori ne decretò la prematura morte (salvo una discutibile ma acclamata ristampa successiva), è stato facilmente surclassato dalla concorrenza.
Nato a Carmagnola il 9 febbraio 1906, Guido Martina si trasferisce nel 1922 con la famiglia a Torino, dove il padre Ermenegildo ha ottenuto una cattedra liceale, e nel 1925 si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia per conseguire la laurea nel 1930.
La passione per la scrittura è tale da fargli abbandonare dopo poco tempo l’attività di insegnante iniziata dopo la laurea ad imitazione del padre, per dedicarsi esclusivamente a vari settori dello scrivere. Ottiene così interessanti esperienze nel mondo radiofonico e cinematografico, in veste di sceneggiatore, e nell’ambito giornalistico, per poi trasferirsi a Milano dove, nel 1937, inizia la collaborazione con Mondadori che da circa due anni è il nuovo editore degli albi di Topolino, prima pubblicati dal fiorentino Nerbini.
Sono di quel periodo incontri e sodalizi in ambito lavorativo con illustri personaggi quali Cesare Zavattini, il celebre regista in veste di soggettista di fumetti, e il torinese nonché coetaneo Angelo Bioletto, egregio illustratore. Il suo incarico presso Mondadori è quello di tradurre le strisce americane di Topolino e Paperino, appunto, e di scrivere qualche racconto in prosa per la gioventù, qualche sceneggiatura per fumetti e persino per fotoromanzi da pubblicare su Le Grandi Firme dello stesso editore.
La Seconda guerra mondiale interrompe bruscamente la sua attività che può riprendere soltanto nel 1945, quando pubblica un romanzo sulle vicissitudini belliche e lavora per il giornale satirico Fradiavolo diretto da Riccardo Manzi, ma soprattutto quando ottiene il rinnovo del proprio lavoro per Mondadori, riprendendo la traduzione delle storie americane della Disney e l’attività collaterale precedente accanto a Mario Gentilini, fumettista noto per essere stato il più longevo direttore del settimanale Topolino (dal 1948 al 1980).
La prima sceneggiatura di Martina per Disney risale al 1948, quando, a corto di materiale originale sufficiente a riempire Topolino, Mondadori ottiene finalmente dall’America il permesso di far realizzare in Italia nuove storie riferite ai protagonisti principali. In precedenza il nulla osta era stato concesso soltanto per Paperino e Biancaneve, coinvolgendo artisti quali Federico Pedrocchi. Nell’impossibilità di utilizzare ancora quei collaboratori (Pedrocchi, ad esempio, era mancato nel 1945), la scelta cadde dunque sul poliedrico Martina, noto nell’ambiente come “il professore”, ormai più che pratico nel creare storie utilizzando le immagini, anche per l’attività svolta nell’ambito dei fotoromanzi.
Quella prima sceneggiatura, molto nota agli appassionati, ha per titolo Topolino e il Cobra Bianco, storia disegnata dal già citato Angelo Bioletto. La prima puntata è apparsa su Topolino del 16 ottobre 1948 per concludersi l’anno successivo sul nuovo Topolino in formato tascabile (aprile 1949).
Arriva poi, molto più memorabile e ristampata numerose volte con rinnovato successo, L’inferno di Topolino (1949 — 1950), ancora con i magistrali disegni di Bioletto. La parodia dantesca, assolutamente geniale, ironica e a volte crudele (si vede ad esempio Lupo Ezechiele ridotto a scheletro vivente) si avvale di didascalie in terzine dantesche, che impreziosiscono l’opera così da renderla fruibile a tutte le età, pur calibrando ai canoni Disney i passi danteschi più arditi.
Ha ricordato Luca Boschi, autore con Leonardo Gori e Andrea Sani di un saggio sui Disney italiani, come, ad esempio, Martina abbia aggirato l’argomento sodomia riferito a Brunetto Latini, il maestro dell’Alighieri nei gironi infernali (Canto XV dell’Inferno), facendogli dire a Topolino (che riveste il ruolo di Dante): “Se vuoi sapere per quale / colpa patisco queste ardenti pene / dirò che in vita razzolavo male / quantunque agli altri predicassi bene”, salvo poi mostrarlo baciare con trasporto lo stesso Topolino, che subito cambia discorso, in una vignetta del tutto innocente che parla solo agli eruditi.
L’iniziativa riferita alle pregevoli rime fece sì che, per la prima volta nei fumetti Disney, sia comparso un nome italiano: si legge infatti, nell’ormai famosa prima vignetta, “verseggiatura di G. Martina”. Il successo immediato della storia, inoltre, ne fece il primo capitolo di una lunga serie di parodie che, affidate dapprima all’autore piemontese, saranno poi realizzate anche da altri: Michele Gazzarri, Luciano Bottaro, Bruno Sarda e Giovan Battista Carpi, ad esempio, tra il 1976 e il 1991 hanno tuffato Paperino nel ciclo malese di Emilio Salgari.
Di Martina restano memorabili, tra le tante parodie, Paperino e il Conte di Montecristo (1957), Paperin Meschino (1958), Paperiade (1959), El Kid Pampeador (1959), Paperodissea (1961), Paperin Fracassa (1967), Paperopoli Liberata (1967, che si apre con due evocative ottave), e Il Corsaro Paperinero (1970). Quest’ultimo denota l’attenzione di Martina per il mondo salgariano in tempi non sospetti, ossia prima che altri, come si è detto, lo prendessero in considerazione sulla scia dello sceneggiato televisivo con Kabir Bedi (1976). E ispirazioni salgariane saranno presenti anche in Pecos Bill.
A sinistra: prima pagina interna del canto decimoterzo de “L’inferno di Topolino”. A destra: Un volume della collana “Le Grandi Parodie Disney”.
A proposito di attualità e televisione, come non ricordare Topolino e la grande impresa di “Lascia o t’accoppo” (1956), che Martina realizzò con Giovan Battista Carpi? Il popolare quiz “Lascia o raddoppia?” era nato nel novembre 1955 e in quello stesso 1956 Martina iniziò un sodalizio con il famoso presentatore, probabilmente legato alla rubrica Gli amici di Mike Bongiorno iniziata su Topolino proprio in quell’anno. A lui sono d’altronde attribuite molte rubriche fisse quali Confidenze di Gambadilegno, Io so quasi tutto (con Pippo) e altre, nell’ambito di un impegnativo lavoro redazionale.
Maestro della scuola Disney italiana, Martina ha prodotto, sino alla metà degli anni Ottanta, oltre 1.200 soggetti, senza dire della sua fondamentale attività svolta per l’enciclopedia Disney (undici volumi su 24) e In giro per il mondo con Disney, e della creazione di personaggi nuovi, quali il giustiziere mascherato Paperinik, da un’idea di Elisa Penna. Gli studiosi di questa sua immane opera fumettistica hanno rilevato la presenza di tematiche insolite nel mondo disneyano (torture, possessioni spiritiche, suggestioni magiche, esoteriche e occulte) svolte con garbo, a sottolineare una personalissima visuale creativa.
Importanza non minore, per la qualità del personaggio, sia pure di breve vita, riveste il suo Pecos Bill, il leggendario eroe del Texas inventato da Edward Sinnott O’Reilly nel 1916 e ripreso, tra gli altri, da James Bowman Cloyd nel 1937.
Il primo episodio, intitolato I lupi del Fiume Rosso, è uscito nella collana Albi d’Oro n. 186, al prezzo di 40 lire, sul finire del 1949, con tavole dei pittori Pier Luigi De Vita e Raffaele Paparella, un binomio collaudato. L’azione, spiega una nota editoriale, “si svolge nel territorio del Red River al confine dell’Oklahoma col Texas, anno 1850”. In seconda di copertina è pubblicata la corposa bibliografia (volumi e riviste americane e un testo francese di Doré Ogrizek) utilizzata per la stesura dei soggetti e delle sceneggiature. Una meravigliosa tavola a colori apre l’avventura mostrando un paffuto, barbuto e stracciato personaggio (che da allora in poi calzerà uno stivale in un piede e uno zoccolo nell’altro) intento a narrare a un gruppo di cowboys, accanto al fuoco d’un bivacco, la leggenda di Pecos Bill. L’ultimo episodio, che con evidenza sopprime l’eroe del Texas senza ragioni se non quelle editoriali, per molti versi imperdonabili e incomprensibili (se si considera il grande successo di cui godeva la serie) è uscito il 31 marzo 1955 dopo 165 albi. Dove, agli artisti già citati, si erano alternati gli illustratori Gino D’Antonio, Antonio Canale, Rinaldo Dami, Francesco Gamba, Leone Cimpellin e Dino Battaglia.
Il paffuto personaggio sopra citato, deuteragonista della collana, è un fasullo Davy Crockett, di cui porta il nome e millanta le imprese contro gli odiati messicani, costituendo la figura comica delle vicende. Ha notato Gianni Milone come l’ispirazione a Paparella, che lo creò graficamente, fosse fornita da Sancho Panza, notoriamente al fianco d’un cavaliere errante ricco di ideali del buon tempo antico. Per molti versi Pecos Bill può infatti definirsi donchisciottesco, per via dei valori ai quali crede senza tentennamenti, dalla non violenza (non usa praticamente mai armi da fuoco), al perdono, dalla libertà all’uguaglianza, dall’incorruttibile onestà alla più ferrea lealtà.
La sua carismatica presenza sarà presto esaltata dalla partner fissa, una favolosa Calamity Jane, che Martina reinventa donandole una prorompente bellezza e un’innamorata ma casta sottomissione al biondo compagno di avventure. L’intrepida coppia, che sovverte la predominanza maschile, resta la più amabile mai comparsa nei fumetti western.
A compensare l’avversione di Pecos Bill per le armi da fuoco in un ambiente dove un avventuriero disarmato non poteva che avere i giorni contati, Martina ha ideato spettacolari stratagemmi. L’incredibile abilità nell’uso del laccio, ad esempio; e poi il magico sodalizio con il cavallo Turbine, una sorta di Pegaso senza ali che all’occorrenza galoppa sfiorando il terreno e compie prodigi irreali; l’uso dell’ipnosi, che gli consente di piegare la volontà di qualunque avversario armato esponendosi al fuoco delle armi a distanza ravvicinata, con sguardo magnetico e tono imperioso; l’uso reciproco della telepatia con Calamity Jane, così che l’aiuto può essere richiesto da ovunque; e l’autosuggestione, frutto di grande forza di volontà. Tutti particolari che attendono ancora un’attenta disamina.
Per non dire della romantica capacità di visualizzare i fantasmi dei cowboys defunti cavalcanti nei pascoli del cielo, che Martina ricavò da un celebre brano musicale country composto da Stan Jones nel 1948, rendendoli forieri di presagi e molto meno truci. Unendosi a loro, in una memorabile cavalcata celeste, Pecos Bill cesserà la sua breve esistenza fumettistica originale (quella apocrifa durerà ancora per molti lustri) nel 165° albo intitolato appunto La strada del cielo.
Per gli Albi d’Oro, nel 1952, Martina creò il personaggio Oklahoma, disegnato ancora da De Vita, Paparella e Gamba, con l’aggiunta di Giorgio De Gaspari. Il giovanissimo indio protagonista è affiancato da una splendida Belle Starr, altro personaggio storico che come Calamity Jane viene idealizzato e reso affascinante, nell’ambito della guerra di secessione americana dalla parte dei sudisti. Accolto con poco favore, il pur riuscito personaggio è comparso soltanto in 31 episodi.
Martina è mancato a Roma il 16 maggio 1991 e tre anni dopo il Comune di Carmagnola lo ha ricordato con una grandiosa mostra, il cui catalogo è stato curato da Gianni Milone ed Erik Balzaretti, e una medaglia commemorativa.