Quando pensiamo ai manoscritti medievali, subito vengono in mente massicci volumi in pergamena, scritti su due colonne, con stupefacenti miniature e contenenti qualche testo famoso anche per il grande pubblico: la Divina Commedia di Dante, le poesie dei trovatori in lingua d’oc, la Bibbia e così via. Se ci soffermiamo poi sulla loro provenienza, è facile immaginare grandi luoghi di cultura come Firenze, Parigi o i monasteri, veri e propri centri di copia e trasmissione della cultura, come sa chi abbia letto Il nome della rosa di Umberto Eco (o visto il film che ne è stato tratto).
Pochi sanno, però, che un piccolo “tesoro” di manoscritti venne prodotto in alcune valli del Piemonte occidentale tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Si tratta dei cosiddetti manoscritti valdesi, che provengono con ogni probabilità dalle valli oggi note come “valdesi” (Pellice, Germanasca, Chisone) o dalle immediate vicinanze, ossia dai luoghi che già nel Medioevo costituivano il centro del movimento religioso che, nato a Lione alla fine del XII secolo a seguito della conversione del mercante Valdo, sopravvisse alle persecuzioni medievali e confluì poi nella Riforma nel 1532.
I manoscritti valdesi (una ventina in tutto) sono un documento di eccezionale interesse per almeno tre motivi: il contenuto, la lingua e la storia avventurosa che li caratterizza. La letteratura preservata in questi codici è, com’è ovvio aspettarsi, di carattere religioso, morale ed edificante. Sono presenti Bibbie (in particolare il Nuovo Testamento), alcuni poemetti, molti trattati e un folto gruppo di sermoni, che dobbiamo immaginare come effettivamente predicati cinquecento e più anni fa. È dunque evidente l’enorme interesse di una produzione dottrinale “di prima mano” da parte di un movimento eretico medievale (così erano visti i valdesi dalla Chiesa romana) per la storia del Cristianesimo e la necessità di sottoporla a studio e interpretazione.
La lingua è un secondo punto di grande importanza, poiché si tratta di una versione scritta e “nobilitata” del dialetto occitanico che si parlava in queste zone nel tardo Medioevo, dato che le valli valdesi stanno sull’estremo confine orientale del dominio linguistico d’oc. La lingua di questi manoscritti è però molto diversa sia dalla lingua d’oc “classica” (quella dei trovatori), sia dalle parlate occitane attuali, sia dalla lingua che si ritrova in manoscritti più o meno della stessa epoca, ma provenienti dal versante oggi francese delle Alpi. La sua speciale fisionomia, su cui le ricerche degli specialisti sono tuttora in corso, fece sì che essa non venisse compresa dai primi studiosi dei manoscritti, i quali li classificarono dunque come spagnoli, francesi o catalani, cosicché per parecchi secoli ne venne addirittura dimenticata l’esistenza.
La storia di questi manoscritti assomiglia per molti versi a un’avventura ed è stata ben ricostruita nel volume di Marina Benedetti Il “santo bottino”. Circolazione di manoscritti valdesi nell’Europa del Seicento, oltre ad aver ispirato anche due romanzi del torinese Sergio Velluto (Il pretesto e Il segno).
I manoscritti valdesi sono dei veri e propri “superstiti” in quanto generalmente i testi degli eretici, quando erano scoperti, venivano distrutti; questi, invece, riuscirono a sopravvivere in modo fortunoso. Le loro dimensioni infatti (in media una dozzina di centimetri di altezza per una decina in larghezza, ma ve ne sono di così piccoli da stare comodamente nel palmo della mano) facevano sì che potessero essere facilmente nascosti in caso di perquisizione. Questi manoscritti erano con ogni probabilità libri d’uso dei predicatori itineranti valdesi (i barba) e come tali dovevano seguire i loro utilizzatori, spostandosi di località in località. A partire dagli anni ’30 del Cinquecento, con l’adesione alla Riforma (Sinodo di Chanforan, 1532), essi dovettero cadere in disuso. A inizio Seicento, però, alcuni eruditi protestanti diedero avvio a una vera e propria campagna di ricerca e raccolta di questi documenti — insieme al loro indispensabile pendant, ossia i verbali dei processi inquisitoriali — per essere utilizzati come fonti per la stesura delle prime storie del movimento valdese. In seguito, gran parte di essi finirono nelle biblioteche di Paesi protestanti; oggi i tre fondi principali sono quelli di Dublino, Ginevra e Cambridge, mentre altri manoscritti sono conservati a Digione, Grenoble, Carpentras e Zurigo.
Nonostante l’evidente importanza di questa letteratura, la storia degli studi non è stata lineare. I manoscritti vennero “riscoperti” soltanto a partire dall’Ottocento (ma gli ultimi ritrovamenti datano alla metà del secolo successivo) e l’interesse per lo studio scientifico dei testi ha conosciuto momenti di entusiasmo e lunghi periodi di silenzio. Fin dagli anni ’70, la casa editrice Claudiana di Torino è stata in prima linea nel tentativo di proporre finalmente al pubblico questi testi così importanti, ma ancora poco e mal conosciuti. A questo scopo, verso la fine del primo decennio del Duemila è stato costituito un gruppo di lavoro diretto da Luciana Borghi Cedrini (già professore di Filologia Romanza all’Università di Torino) e comprendente un certo numero di laureati in Filologia Romanza con tesi dedicate alla letteratura valdese.
L’obiettivo del progetto, che è finanziato dalla Tavola Valdese tramite i fondi dell’Otto per Mille e gode del patrocinio della Società di Studi Valdesi e della Facoltà Valdese di Teologia di Roma, è di procedere — per ora — alla pubblicazione di tutti i quasi duecento sermoni, in modo da fornire al pubblico e agli studiosi una base di confronto e informazione su questa importante e rara testimonianza diretta di un movimento ereticale i cui testi, scritti nella lingua parlata all’epoca, sono giunti fino a noi. Nel luglio del 2016 è stato pubblicato un primo volume di “saggio”, contenente i sermoni riconducibili alla prima e seconda domenica di Avvento, mentre nel mese di settembre dello stesso anno, a Torre Pellice, il convegno annuale della Società di Studi Valdesi è stato dedicato appunto ai manoscritti valdesi (comprendendo sotto questa dicitura anche i registri inquisitoriali), con interventi di esperti provenienti da Università italiane e straniere in rappresentanza dei molti campi di studio (filologia, storia, linguistica, teologia, storia del Cristianesimo, …) che sono necessari alla corretta interpretazione di questo “tesoro”.