Emilio Salgari, il creatore del genere avventuroso in Italia, dove prima di lui non esisteva, è noto per le sue pagine marinaresche; per le sue ambientazioni esotiche; per le sue eroine giovanissime, autonome, spesso più coraggiose e determinate degli uomini; per i suoi eroi sopra le righe, risoluti, romantici e spavaldi e non di rado orientali. I suoi numerosi romanzi sono ambientati in ogni angolo del mondo, sino a toccare il Polo Nord e il Polo Sud. Non essendosi mai mosso dall’Italia, ciò lo costrinse a un’attività di ricerca e documentazione encomiabile, certosina e sempre più faticosa, considerando i pressanti impegni contrattuali, che d’altra parte costituivano il suo unico lavoro e perciò fonte vitale per sé e la sua numerosa famiglia.
Ciò premesso, va detto che esistono soltanto due suoi romanzi ambientati in Italia. Il primo è I naviganti della Meloria, pubblicato nel 1902 con lo pseudonimo E. Bertolini dall’editore genovese Donath. Questo godibile lavoro, ambientato nel 1868, presenta alcune significative pagine iniziali riferite alla zona di Chioggia e una pagina finale riferita alla zona di Lerici. Dal mare Adriatico, dunque, si passa al mare della Liguria. Tutto il resto del romanzo consiste nella descrizione avventurosa di un viaggio nel sottosuolo italiano, dove gli eroi chioggiotti di turno esplorano un antico canale navigabile sotterraneo, appunto, che collega i due mari. La relativa porzione dell’Italia in superficie non compare mai.
Si tratta di un romanzo assimilabile al resto della sua opera di genere avventuroso, e contiene diversi aspetti interessanti. Da ricordare almeno, come curiosità, che Salgari ha assegnato al fantastico ideatore del canale sottomarino (realizzato secondo Salgari verso il 1300, ossia ai tempi dei conflitti tra le repubbliche marinare di Venezia e Genova) il nome di un parente, Luigi Gottardi, un tenente colonnello medico che abitava in Liguria e aveva sposato una sua cugina. L’indicazione è utile per appurare come egli amasse, a volte, effettuare ammiccamenti nascosti al proprio vissuto, pur occupandosi di avventure fantastiche.
Il secondo romanzo ambientato in Italia è La Bohème Italiana, pubblicato dall’editore fiorentino Bemporad nel 1909, ma scritto nel 1907. É ambientato a Torino e dintorni in tempo reale, rispetto la vita di Salgari, nel periodo che va dal febbraio 1898 alla vigilia dell’Esposizione di Parigi iniziata nell’aprile 1900. Va detto, anzi tutto, che è un lavoro decisamente anomalo, per diverse ragioni, che vanno ad aggiungersi all’ambientazione in Italia. Ne diamo brevemente l’elenco.
Per quanto si tratti di un romanzo, non esente dunque da accorgimenti di vario tipo, si tratta di un lavoro decisamente autobiografico e al riguardo esistono numerosi riscontri incontrovertibili. Esiste, ad esempio, una fotografia che risale a quei tempi scherzosi, nella quale Salgari compare travestito da marinaio con pugnale alla cintola, in un fasullo padiglione orientale, con palese ammiccamento alla propria bugia riferita al titolo di capitano. Esiste la testimonianza del pittore e giornalista Carlo Tallone che, avendo partecipato a qualcuna delle scanzonate riunioni dei bohèmiens descritte nel romanzo, era presente quando fu scattata quella fotografia. Molto tempo dopo la regalò a Omar Salgari, ultimogenito dello scrittore, il quale l’ha poi resa nota in più occasioni. Esiste persino una lettera di Quintino Pene (vedremo chi è) scritta il 14 gennaio 1900 al fratello Lorenzo, dove è riconoscibile un preciso cenno a quanto narrato da Salgari nel capitolo VII della sua Bohème. E altri ancora.
A sinistra: copertina della prima edizione della “Bohème Italiana”, Bemporad, 1909. A destra: l’ispirazione di Salgari al famoso romanzo di Murger è evidente anche dalla copertina. Sul fronte di molte edizioni popolari del capolavoro di Murger è presente infatti un suonatore di corno.
Poiché Salgari non ha mai pubblicato autobiografie (le sue Memorie pubblicate postume nel 1928, diciassette anni la sua morte, sono notoriamente apocrife), siamo in presenza di un lavoro particolarmente intrigante.
E poi: contrariamente ai romanzi tradizionali di Salgari che, nelle edizioni originali, spesso superano le 300 pagine, questa Bohème ne conta 102, portate a 125 con l’aggiunta in appendice del racconto Una vendetta malese, in cui compare il “signor Emilio”, ricorrente alter ego dell’autore. Anche il formato ridotto e l’impaginazione (un insolito testo su due colonne), ne evidenziano l’anomalia.
E ancora: non vi compaiono personaggi femminili (così importanti nell’opera di Salgari), se non qualche fugace cenno, forse perché l’autore, all’epoca sposato con tre figli (il quarto, Omar, sarebbe nato proprio quando terminano le pagine del libro) non intendeva dare adito a malignità sulla propria fedeltà, ma sicuramente perché i protagonisti non sono tutti così giovani e così liberi come quelli del capolavoro di Henri Murger e dell’opera di Giacomo Puccini, autori ai quali Salgari si ispira senza affatto nasconderlo. Inoltre, più che un inno all’amore, il breve romanzo è un inno all’amicizia virile. Infine, non esistono avventure nel senso tradizionale.
Va aggiunto che, nel rispetto di quella che oggi chiameremmo privacy, i nomi dei personaggi (alcuni dei quali ancora viventi nel 1907, quando il romanzo fu scritto, e nel 1909, quando fu pubblicato) sono mascherati e talvolta risultano modificati persino i nomi delle località citate (ad esempio la Venaria nel manoscritto viene sostituita con Lucento nel testo a stampa e soprattutto Sampierdarena diventa La Spezia, in entrambe le versioni).
Soltanto nel 2009 e con maggiori ragguagli nel 2013, è stato reso noto che lo studioso Giuseppe Turcato, morto nel 1996, aveva lasciato appunti presi durante la consultazione del manoscritto della Bohème, evidenziando così alcuni cognomi reali, senza peraltro consentirne l’esatta identificazione. Si è saputo allora che “Ferrol è Ferrante, Alfonso è Zagnoli, l’Artista Barbuto è Baldani”. Altri personaggi, presenti nel manoscritto, sono addirittura scomparsi nel testo a stampa. Che il letterato Roberto fosse lo stesso Salgari e che Quintino fosse Quintino Pene, come si è appreso dagli appunti di Turcato, erano notizie già note da moltissimo tempo.
Ma procediamo con ordine, mentre abbiamo cominciato a nominare qualcuno di quei brillanti bohèmiens torinesi.
Il romanzo narra, appunto, la convivenza spensierata di alcuni artisti o aspiranti tali (il gruppo varia parzialmente nel corso della narrazione) che hanno fondato una “famiglia artistica” a Torino, in Via delle Scuole (oggi Via Bligny), trasferendosi poi nelle campagne circostanti (Lucento, Altessano, Venaria, Madonna di Campagna) secondo un’usanza del tempo ben ricordata da Arrigo Frusta (al secolo Augusto Sebastiano Ferraris) nel suo Tempi beati — Storie allegre, crudeli e così così (1949) libro autobiografico che, quarant’anni dopo, è per alcuni aspetti accostabile alla Bohème Italiana di Salgari.
Riguardo a quest’ultimo, riconoscibile, come si è detto, nel personaggio del “letterato Roberto”, entra in scena a romanzo inoltrato, ossia proprio quando, nella realtà, fece ritorno a Torino (1899) da Sampierdarena, dove si era trasferito con la famiglia nella seconda metà del 1898. Anche questo particolare, se ce ne fosse bisogno, sottolinea gli intenti autobiografici.
Le vicende sono descritte da un io narrante, che è un po’ Salgari stesso e un po’ il già citato Carlo Tallone: un espediente letterario, giacché entrambi, in quel febbraio 1898 che segna l’inizio del racconto, erano a Sampierdarena, dove abitavano nello stesso condominio, denominato Casa Rebora. Lo stesso Tallone si è d’altronde riconosciuto nel giovane invitato dai bohèmiens torinesi, e, d’altro canto, l’io narrante ha qualcosa in comune con Salgari. Si è detto che si tratta di un romanzo, con le licenze proprie della narrativa, e non di un diario.
Già nelle prime pagine si incontra il “misterioso Quintino”.
A facilitarne l’identificazione da parte di chi scrive, sin dal 1980, sono state le precise e ripetute allusioni alla spedizione in Amazzonia di Augusto Franzoj. Si tratta di Quintino Pene (1869–1900), che fu segretario di quella spedizione avvenuta nel 1899. Era figlio della pittrice Ifigenia Camino, seguace della scuola di Massimo D’Azeglio, nonché nipote di Giuseppe Camino (fratello della madre) e cugino di Giovanni Vajra, altri valenti pittori. Se Salgari, a un certo punto, ne piange la scomparsa con parole toccanti, è perché il povero Quintino fu ucciso dalla febbre gialla nel marzo 1900 proprio in Amazzonia, dove era temerariamente tornato in cerca di lavoro dopo che la spedizione Franzoj era rientrata falcidiata da quel morbo.
A sinistra Quintino Pene; a destra ritratto della pittrice Ifigenia Camino Pene, madre di Quintino.
Tra quei morti ci fu anche Guido Guidone, un giovane aspirante pittore. Salgari lo nomina (“Guido […] figlio della celebre artista”), con le dovute attenzioni alla privacy, trattandosi di un’altra famiglia importante, allorché si fa la conoscenza con la soffitta di Via delle Scuole, dove sono depositati i numerosi ricordi dell’attività teatrale di una “grande artista”.
Guido, alla vigilia della partenza, è infatti in contatto con i bohèmiens e in particolare con Quintino, che sarà suo compagno di avventure nella tragica spedizione Franzoj. Il suo appartamento era anzi sottostante la soffitta (come è logico) e Salgari lo precisa nel secondo capitolo. La madre di Guido, la “celebre artista” non nominata, era Adelaide Tessero, attrice drammatica, figlia d’arte e nipote di Adelaide Ristori, di cui portava il nome di battesimo. Fu l’artista più acclamata della triade Marini, Pezzana, Tessero, che dominò le scene dal 1860 al 1880.
Nel corso del romanzo mi è stato possibile effettuare altri riconoscimenti. Il “giornalista transatlantico” di cui si legge nel capitolo IX, con il quale Quintino “s’era impegnato di seguirlo nell’Amazzonia assieme alla spedizione Franzoj”, è Oreste Mosca, protagonista di numerose traversate oceaniche. Nel 1902 ne dichiarò ventidue.
Il “parente” presso il quale Quintino si reca (a Torino), nel capitolo VIII, ottenendo una pergamena che frutterà ai bohèmiens, sempre a corto di denaro, un’insperata fortuna, è suo fratello Lorenzo Pene, pittore di grido con studio in Via Lungo Po n. 4/a. Aveva esordito alla Promotrice delle Belle Arti nel 1895 e aveva ottenuto notorietà per essersi occupato di delicati restauri presso il Castello di Agliè, caro a Guido Gozzano.
Nel personaggio Alfonso il Magro ho ritenuto, a suo tempo, di individuare — sulla base di numerosi riscontri — il futuro fotografo bolognese Alfonso Zagnoli, ancora oggi assai noto per la sua attività. Salgari lo ricorda scherzosamente, in quel periodo, per essere stato segretario di un uomo di colore che si esibiva in affollati spettacoli di illusionismo, tali da incuriosire alcuni scienziati del tempo: il dottor Wandohobb (erroneamente “Wandobb” nel manoscritto). Si tratta di un artista di teatro realmente esistito, molto attivo in quegli anni, e per combinazione, in tournée a Genova nel 1898, quando Salgari stava a Sampierdarena, e a Torino nel 1899, quando vi fece ritorno.
Mancano all’appello alcuni personaggi, che otterranno presto una carta d’identità.
Resta da dire, a sottolineare la precisa contestualizzazione di quanto narrato, che Salgari cita due politici dell’epoca: Guido Baccelli e Tommaso Villa.
Quest’ultimo si era prodigato per la famosa Esposizione Internazionale torinese del 1898, citata nel romanzo ed inaugurata in aprile, con la precisazione che il letterato Roberto (Salgari) era stato a visitarla prima di partire per la Liguria. Si fa infatti risalire tale partenza intorno al giugno 1898. Salgari cita anche il tumulto popolare scoppiato a Milano il 6 maggio 1898 stroncato dal generale Bava Beccaris nonché altri avvenimenti storici di quell’esatto periodo.
Per concludere, risultano di particolare interesse, in questa particolare opera scritta in punta di penna e con evidente divertimento, gli accenni più o meno trasparenti a opere di diversi personaggi famosi, tra cui Giuseppe Giacosa (in modo particolare), Edoardo Ferravilla, Augusto Rotoli, Gioachino Rossini, Charles Lecocq e persino Charles Dickens.
La Bohème Italiana insomma, è uno scrigno per gli studi salgariani ma soprattutto un lavoro che il papà di Sandokan ha scritto uscendo dai temi tradizionali allo scopo di ricordare uno dei periodi più spensierati della propria vita, tra buoni amici e colossali bevute, quando già quei giorni stavano per entrare in un passato che il presente, sempre più affaticato e minaccioso, faceva chiaramente apparire come un sogno destinato a non ripetersi mai più.