Correva il 12 giugno 1804 quando Napoleone Bonaparte, affiancato dal segretario di Stato Hugues Maret, appose la sua firma al Dècret Impèrial sur les Sépultures, meglio noto con il nome di Editto di Saint-Cloud.
Il documento fu vergato nei pressi di Parigi all’interno della residenza favorita dall’imperatore, il non più esistente castello di Saint-Cloud. Con le disposizioni elencate nel decreto, Napoleone riprendeva l’antica legge romana delle XII Tavole e sanciva il divieto di continuare a seppellire i defunti all’interno delle città, pratica entrata in voga con la diffusione del culto cristiano legato alle reliquie dei santi e dei martiri. Queste ultime venivano conservate dentro le chiese e accanto ad esse i devoti ambivano a farsi tumulare. Ben presto l’usanza di seppellire nei templi e nelle aree limitrofe risultò assai perniciosa per l’igiene e la salute pubbliche.
L’editto napoleonico stabiliva perciò la costruzione di apposite strutture per il ricovero dei cadaveri situate in aree extraurbane. Fu così che, in cima a una collina all’epoca molto lontana da Parigi, venne edificato il cimitero di Père-Lachaise, l’antesignano dei camposanti moderni. In breve tempo il Père-Lachaise si riempì delle numerose tombe illustri per le quali è diventato celebre in tutto il mondo e viene visitato ogni anno da migliaia di persone. Con l’Editto di Saint-Cloud le città dei morti venivano allontanate e separate definitivamente da quelle dei vivi, con cui per secoli avevano convissuto. Ciò innescò un meccanismo di rimozione dalla quotidianità del pensiero della morte che ha reso la gente sempre più incline a considerare i cimiteri come luoghi inquietanti e macabri, dai quali tenersi alla larga. Nulla di più sbagliato.
Ma veniamo a Torino. È noto che l’indole pionieristica degli abitanti subalpini si manifesti in molti campi e così è stato anche per quanto riguarda la costruzione dei cimiteri. Infatti, con il Decreto Regio emanato dal castello di Moncalieri il 25 novembre 1777, il re di Sardegna Vittorio Amedeo III di Savoia anticipava di svariati anni l’editto francese. L’estate molto afosa del 1776 aveva aggravato la già precaria situazione igienica di Torino, alimentando il terrore di un’ondata di pestilenze. Per porvi rimedio, il sovrano si risolse a mettere fine alla malsana consuetudine di stipare uno sull’altro i corpi dei defunti nelle fosse presenti sotto i pavimenti delle chiese della capitale sabauda. Queste “cisterne” erano riservate ai cittadini comuni, mentre i nobili venivano sì sepolti in chiesa, ma all’interno dei sepolcreti di famiglia. Fu così che vennero costruiti due cimiteri, San Pietro in Vincoli e San Lazzaro, situati rispettivamente nei sobborghi di Porta Palazzo e di Po, ben distanti dalle mura di fortificazione che ancora cingevano Torino in quel periodo. Dopo soli cinquant’anni però, questi cimiteri risultarono insufficienti per contenere i morti di una popolazione che di anno in anno diventava sempre più numerosa. Inoltre, l’abitato in continua espansione li avrebbe presto inglobati. La loro soppressione si rese necessaria e nel 1826 si ideò un cimitero più ampio, il cosiddetto Generale.
Una commissione di specialisti istituita dal Comune individuò l’area adatta alla nuova costruzione nella zona della città denominata Regio Parco, oltre il fiume Dora Riparia. A fronte di un preventivo di spesa ammontante a 350.000 lire, il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo, grande benefattore e sindaco di Torino tra 1826 e 1827, donò alla città la quasi totalità della somma.
Con questi fondi si acquistarono i terreni sui quali realizzare la necropoli torinese, che fu progettata in stile neoclassico dall’architetto Gaetano Lombardi prendendo ispirazione dal cimitero parmense della Villetta. Dopo la cerimonia della posa della prima pietra tenutasi il 17 maggio 1828, e in seguito alla solenne benedizione impartita dall’arcivescovo Colombano Chiaveroti, il cimitero Generale fu aperto alle funzioni il 5 novembre 1829. La differenza con i due più piccoli cimiteri precedenti risiedeva nell’assenza di fosse per le inumazioni comuni. Se in San Pietro in Vincoli e in San Lazzaro soltanto i nobili venivano sepolti in tombe individuali, nel neonato cimitero tutti i defunti, ricchi o poveri che fossero, avrebbero avuto una dignitosa sepoltura, ciascuno nella propria tomba.
Sin da subito il cimitero si arricchì di pregevoli sculture poste a ornamento delle tombe private e realizzate da rinomati artisti locali seguaci della purezza classicista di Antonio Canova e Bertel Thordvalsen, come Giuseppe Bogliani, Giuseppe Dini e Giacomo Spalla.
Negli anni ’40 dell’Ottocento il cimitero Generale venne ingrandito la prima volta su disegno dell’architetto Carlo Sada, per assecondare l’elevata richiesta da parte della cittadinanza di spazi per l’edificazione di sepolcri privati. Gli ampliamenti si susseguirono nella seconda metà del XIX secolo e contestualmente alla loro realizzazione vennero effettuati anche i lavori di spostamento dell’alveo della Dora, che scorreva proprio nelle adiacenze. Quelle che oggi sono considerate le aree storiche del cimitero diventarono i luoghi in cui la nobiltà e la classe sociale emergente, la borghesia, celebravano l’importanza delle loro casate attraverso la magnificenza e l’imponenza dei monumenti funebri firmati da esponenti della scultura realista e simbolista del calibro di Vincenzo Vela, Leonardo Bistolfi, Cesare Biscarra, Pietro Canonica e molti altri. Sono queste le opere a cui il cimitero deve la denominazione di Monumentale che lo contraddistingue ormai da diversi anni. Durante il Novecento il cimitero Generale raggiunse la sua attuale estensione, arrivando quasi a lambire l’antica cascina Airale che sorge oltre via Zanella, strada che delimita la parte retrostante del cimitero separandolo dal parco Colletta.
Quando si varcano i cancelli d’ingresso del Monumentale di Torino subito si percepisce come il silenzio regni incontrastato su questa Terra di Mezzo. Ogni tanto viene interrotto dal cinguettio di qualche uccello o dal fruscio di un gatto che all’improvviso sbuca fuori da un cespuglio per andare a sdraiarsi pigramente sopra una lapide. Ma è questione di un attimo e il silenzio ristabilisce il giusto ordine, ritornando ad avvolgere ogni cosa. Le sculture che si incontrano, innalzate a centinaia nel corso del tempo e rese arcane dalla vegetazione che si insinua sopra al velo intessuto dalla polvere secolare che le ricopre, possiedono un fascino magnetico che non può non attirare lo sguardo del passante inducendolo a pensare e, a volte, anche a fantasticare.
Cimitero Monumentale di Torino - Dettagli
Scolpito nel candido marmo Botticino è il monumento funebre di Teresa Denina. La donna, moglie del politico Emilio Sineo, morì di malattia polmonare il 21 giugno 1883 a soli ventotto anni.
È rappresentata distesa sopra un catafalco, alla maniera dei dormienti rinascimentali, e il suo sonno è protetto da un baldacchino di gusto neogotico circondato da piccole statuine di angeli dolenti. Teresa è ricordata come la sposa bambina, soprannome datole da qualche animo romantico rimasto ammaliato dalla sua tomba. Lo scalpello di Odoardo Tabacchi, autore di questo malinconico monumento, fu richiesto anche da Edmondo De Amicis. Lo scrittore gli commissionò infatti una scultura in bronzo che raffigurasse Furio, il figlio primogenito. Dal 1900 l’opera si trova sotto il porticato del quinto ampliamento del cimitero, a ricordare la breve esistenza di questo ragazzo che desiderava tanto diventare un poeta, ma che decise di togliersi la vita ad appena vent’anni nel 1898.
Ideata nei minimi dettagli dall’ingegnere stesso, l’opera illustra la sua visione della vita e della morte. Per far sì che tutti potessero capire i significati reconditi sottesi alle decorazioni, Pongilione scrisse addirittura una sorta di vademecum, stampato dalla Tipografia della Real Casa, per la corretta comprensione del monumento. La tomba è conosciuta in dialetto piemontese come tomba dij rat in riferimento alla presenza di alcuni topolini, simbolo di astuzia e intraprendenza secondo il Pongilione.
Giuseppina Garbiglietti, figlia del medico Antonio e moglie del conte Gioacchino Toesca di Castellazzo, è stata ritratta da Pietro della Vedova mentre leggiadra sorge dal suo feretro per essere accompagnata nell’aldilà da un angelo custode dalle ali spiegate e manda un ultimo bacio ai suoi cari.
Della Vedova, definito dai contemporanei “lo scultore funerario per eccellenza”, è uno degli artisti più presenti con le sue opere all’interno del camposanto.
Dettagli della Tomba Toesca di Castellazzo.
L’elenco delle testimonianze artistiche che rendono il cimitero Monumentale di Torino un museo a cielo aperto potrebbe proseguire all’infinito. Scoprirle una per una e restare ad ammirarle immaginando quali siano le storie che custodiscono è uno degli aspetti più intriganti e stimolanti della visita a questo luogo custode di memorie spesso smarrite.
Passeggiando per il “dormentorio de’ torinesi”, come venne definito il Monumentale in un testo di fine Ottocento, è inevitabile non arrestarsi quasi a ogni passo. Numerosi sono i nomi che si leggono incisi sulle epigrafi e che riportano alla mente le titolazioni delle vie e dei palazzi della città, oppure episodi del passato e personaggi o aziende celebri. La tomba di Amilcare Mulassano, titolare del famoso caffè aperto sotto i portici di piazza Castello durante la Belle Époque, fronteggia quella del noto cioccolatiere Silviano Venchi. A poca distanza, l’inquietante allegoria della morte, accompagnata dalla sua falce micidiale, caratterizza il sepolcro dell’imprenditore Francesco Cirio, mentre due pettorute sfingi sorvegliano l’ingresso all’enorme mausoleo che Margherita Tamagno fece erigere per celebrare suo padre, il tenore Francesco che con la sua voce faceva “tremare i lampadari del Teatro Regio”.
L’ultima dimora dell’industriale svizzero Napoleone Leumann è la tomba di famiglia nel settore del cimitero riservato ai non cattolici: l’ideatore del pittoresco villaggio operaio che sorge alle porte di Collegno era infatti di religione protestante. È vicino al campo acattolico che si può accedere anche ai settori israelitici dove, in mezzo a lapidi storte che paiono tutte uguali e sono ricoperte da ciottoli e ciuffi d’erba, si possono incontrare le sepolture di due personaggi che non necessitano di presentazioni: Primo Levi e Rita Levi-Montalcini.
Uno scabro cippo di pietra ricorda Paolo Sacchi, il soldato che si distinse per il suo coraggio durante lo scoppio della polveriera di Borgo Dora nel 1852 e che ebbe in vita l’onore di vedersi dedicata la via a fianco della stazione di Porta Nuova. Un sottile obelisco segnala la presenza della tomba di Silvio Pellico, protagonista dell’epopea risorgimentale, e una semplice epigrafe priva di ornamenti quella di Massimo d’Azeglio, primo presidente del Parlamento Subalpino. Una lastra di marmo nero a forma di savoiardo accoglie invece le spoglie dell’attore comico Erminio Macario e dei suoi congiunti.
Non mancano esponenti degli strati più alti dell’aristocrazia: la principessa Iolanda di Savoia, tumulata vicino al marito Giorgio Carlo Calvi conte di Bergolo, e l’infanta Maria Cristina di Borbone-Spagna, prozia di Juan Carlos e sposa del conte Enrico Marone Cinzano, proprietario dell’omonima azienda di liquori e presidente del Grande Torino. I calciatori scomparsi il 4 maggio 1949 nella terribile tragedia di Superga riposano quasi tutti insieme nei sotterranei che si estendono sotto le arcate del quinto ampliamento del cimitero, e sono stati sepolti vicini tra loro anche Biagio Nazzaro, Evasio Lampiano e Ernesto Giaccone, i piloti FIAT morti durante le corse automobilistiche.
Questi sono soltanto pochi esempi di come il cimitero Monumentale possa essere considerato alla stregua di una macchina del tempo con il potere di catapultare il visitatore nelle epoche passate facendogli ripercorrere fatti e incontrare illustri personalità.
I cimiteri sono lo specchio della civiltà che li ha costruiti. Visitarli è consigliabile se si vuole conoscere davvero la città in cui si vive o che si cerca di scoprire durante un viaggio. Come si può non notare, ad esempio, che i viali del Monumentale di Torino sono dritti e regolari come le strade del centro storico? Si dice poi che i torinesi siano riservati e discreti e infatti le loro tombe, nella maggior parte dei casi, sono abbastanza contenute e poco appariscenti. Insomma, i cimiteri sono città parallele, più silenti e tranquille rispetto a quelle popolate dai viventi, ma altrettanto ricche di ricordi e cultura, pregne di energia nonché di spunti per la riflessione. Dopotutto lo ribadì anche Ugo Foscolo nel carme “Dei Sepolcri” pubblicato nel 1807, all’indomani dell’estensione dell’Editto di Saint-Cloud ai territori italiani:
A egregie cose
il forte animo
accendono
l’urne dei forti.