In un ideale affresco che ritragga i protagonisti del Risorgimento italiano, pochissimi inserirebbero l’inviato inglese a Torino, sir James Hudson, accanto a Garibaldi, Mazzini e Cavour. Eppure alcuni recenti studi hanno rivalutato il peso della rete diplomatica e consolare inglese nel processo di unificazione italiana, e in particolare il ruolo svolto dal rappresentante del Foreign Office britannico negli anni cruciali del Risorgimento. In un ideale affresco che ritragga i protagonisti del Risorgimento italiano, pochissimi inserirebbero l’inviato inglese a Torino, sir James Hudson, accanto a Garibaldi, Mazzini e Cavour. Eppure alcuni recenti studi hanno rivalutato il peso della rete diplomatica e consolare inglese nel processo di unificazione italiana, e in particolare il ruolo svolto dal rappresentante del Foreign Office britannico negli anni cruciali del Risorgimento.
Nato nel 1810 a Bridlington, James Hudson apparteneva a una famiglia dell’aristocrazia terriera dello Yorkshire. Il padre era il capitano di guarnigione Harrington Hudson; la madre, Anne Townshend, figlia della marchesa di Townshend e dama di compagnia della principessa di Galles. Gli Hudson avevano raggiunto una certa posizione grazie alle ricchezze accumulate dal bisavolo di James, Benjamin Hudson, e al matrimonio del figlio di questi con Susanna Trevelyan, nipote favorita del baronetto Walter Blackett. La fortuna della famiglia culminò proprio con l’unione dei genitori del futuro ministro plenipotenziario presso il re di Sardegna. La madre, tuttavia, mancò poco dopo la nascita di James, mentre il padre non si risposò più, preoccupandosi invece dell’educazione dei figli.
Dopo aver studiato a Rugby e Westminster, e aver trascorso alcuni anni a Parigi e a Roma, il giovane James si lanciò nella carriera a corte. A nemmeno vent’anni entrò in servizio come paggio di re Giorgio III, quindi fu segretario di Lord Chamberlain e usciere della regina Adelaide, moglie di re Guglielmo IV. Grazie all’abilità con cui cantava, suonava e scriveva lettere in diverse lingue, il giovane non faticò a diventare assai popolare a corte. Tuttavia, con l’ascesa al trono di Vittoria, Hudson fu allontanato. La regina non vide mai di buono occhio l’esuberanza del segretario, così come non si sarebbe mai spiegata il suo eccessivo fervore per la causa italiana.
Per Hudson si aprirono allora le porte della diplomazia. Nel 1838 fu inviato a Washington, quindi a L’Aia e a Rio de Janeiro nelle vesti di ministro plenipotenziario. Nel 1851 fu nominato inviato britannico presso il granduca di Toscana, anche se a Firenze non andò mai, essendo stato nel frattempo dirottato verso la corte sabauda, dove sarebbe rimasto dal 1852 al 1863. Il compito svolto da Hudson presso il Regno di Sardegna non inaugurò quella che, con una certa enfasi, già allora era definita una “relazione speciale” tra Piemonte e Inghilterra. Grazie alle sua dedizione alla causa italiana, Hudson fece comunque la propria parte per continuare sulla stessa strada.
Al di là della retorica dell’epoca, correva in effetti un’antica amicizia tra Inghilterra e Piemonte, consolidata, tra Sei e Settecento, da alleanze militari e unioni matrimoniali. Nell’Ottocento, mutato il peso dei due paesi in favore della Gran Bretagna, l’attività diplomatica si rivelò decisiva per mantenere buoni i rapporti. Se già i due predecessori a Torino, John Foster e Ralph Abercomby, simpatizzavano il Piemonte, Hudson sposò in toto la causa piemontese. Scelto da Lord Palmestron, il ministro degli esteri del governo Russell, scrivendo a Cavour assicurò che il governo britannico
aveva mandato a Torino il suo migliore diplomatico.
Giunto in Piemonte il 12 febbraio 1852, Hudson incontrò prima il re, poi l’allora primo ministro Massimo d’Azeglio, il quale scrisse al nipote Emanuele, ministro plenipotenziario a Londra:
sono "enchanté" d’Hudson, col quale ho molta analogia di carattere.
Dopo le indispensabili prudenze iniziali, il diplomatico iniziò poco alla volta a sbilanciarsi e ad appoggiare la politica piemontese. Con Cavour, poi, arrivò a stringere un rapporto speciale: il 7 giugno 1861, in occasione dei funerali del primo ministro piemontese, sempre D’Azeglio giurò di aver visto Hudson “piangere come un bambino”.
L’inviato britannico mise lo zampino nelle questioni sabaude per la prima volta in occasione della guerra in Crimea. Il conflitto ebbe origine da una disputa fra Russia e Francia sul controllo dei luoghi santi di Gerusalemme, allora in territorio ottomano. Lo zar voleva assicurare un protettorato per gli ortodossi russi, ma lo stesso pensava Napoleone III per i cattolici di Francia. Parallelamente l’esercito russo invase i principati ottomani di Moldavia e Malacchia. Francia e Inghilterra si sentirono minacciate, temendo compromesso il controllo dei Balcani e del Mediterraneo. Dopo alcune fasi combattute nei Balcani e nel Baltico, gli alleati europei, ai quali si era nel frattempo unito anche il Piemonte, nel giugno 1854 assediarono la base navale russa di Sebastopoli, in Crimea. In breve tempo Sebastopoli cedette e la Russia fu costretta alla pace.
La vulgata storiografica vuole l’intervento piemontese in Crimea una spregiudicata intuizione di Cavour allo scopo di dare rilievo europeo ai problemi italiani. In realtà appare evidente la pressione esercitata dalla diplomazia francese e soprattutto inglese sul governo sabaudo. Fu anzitutto Hudson a caldeggiare l’alleanza, tanto che, per alcuni, l’iniziativa stessa per coinvolgere il Regno di Sardegna in Crimea partì proprio da lui. Poiché gli austriaci non si decidevano a intervenire, e gli alleati avevano bisogno di truppe, Hudson forzò la mano: prima comunicò a Cavour la preoccupazione del ministro degli esteri inglese Clarendon circa l’eventualità di una rivoluzione piemontese ai danni dell’Austria in caso di coinvolgimento di questa nella guerra in Crimea. Seguì il colpo d’astuzia di Hudson, il quale pose Cavour davanti a un ipotetico scenario, domandandogli:
se l’Austria, che sospetta ingiustamente del Piemonte, entrasse davvero in guerra, sareste pronti a inviare 15.000 uomini al nostro fianco?
Di fronte alla prospettiva di restare isolato in Europa, Cavour rispose affermativamente. Hudson colse la palla al balzo e riportò la conversazione al primo ministro inglese come pronunciata spontaneamente da Cavour. Da parte sua, il premier piemontese sapeva di non poter pretendere, in cambio, l’intervento alleato in funzione anti-austriaca; malgrado ciò, per come si espresse Hudson, comprese che il Piemonte poteva aspettarsi qualche vantaggio da un’azione bellica in Crimea.
Nel dicembre 1854 il Piemonte strinse un patto militare con Francia e Inghilterra: il governo sabaudo doveva assicurare 15.000 uomini (proprio quelli ipotizzati da Hudson), mentre l’Inghilterra si sarebbe occupata del trasporto delle truppe in oriente e avrebbe garantito il prestito di 1 milione di sterline. Il contributo militare piemontese si limitò alla battaglia presso il fiume Cernaia, il 16 agosto 1855, che tuttavia vide ben figurare le truppe comandate dall’allora ministro della guerra Alfonso La Marmora. Nel gennaio 1856 lo zar si arrese: le trattative di pace si aprirono a Parigi il 25 febbraio e si conclusero con il trattato del 30 marzo 1856. La questione italiana fu discussa in una seduta successiva. Clarendon sembrò prendere a cuore le pretese italiane sui territori austriaci, fatto che impressionò positivamente Cavour anche se poi, nel concreto, non si fece nulla. Ciononostante, l’intervento militare fece conquistare un certo prestigio internazionale al Regno di Sardegna, prestigio che avrebbe pesato in occasione della Seconda Guerra di Indipendenza.
Dopo la guerra di Crimea, tuttavia, Cavour si avvicinò alla Francia. Al contrario dell’Inghilterra, per Cavour eccessivamente prudente e preoccupata di mantenere il balance of power in Europa, la Francia intendeva invece sbarazzarsi dell’ingombrante presenza austriaca. Nel luglio 1858, a Plombières, Napoleone III e Cavour raggiunsero un accordo: la Francia avrebbe combattuto a fianco del Piemonte in caso di attacco austriaco; in cambio, ai francesi sarebbero andate Savoia e Nizza. Non restava che cercare una motivazione per provocare l’Austria e giustificare così il conflitto agli occhi dell’opinione pubblica europea. Per Cavour era sufficiente lo schieramento di truppe austriache lungo il confine lombardo, al quale rispose con uno spiegamento analogo. Hudson mise in guardia Cavour e i suoi collaboratori:
badate bene! Napoleone III vi mette in ballo e poi vi lascerà.
Il ministro degli esteri inglese Malmesbury, conservatore e filoaustriaco, andò invece su tutte le furie e, tramite il suo inviato, invitò Cavour a tenere un comportamento più prudente, Hudson, sempre vicino alla causa piemontese, da parte sua cercò di rassicurare il ministro riferendogli le parole di Cavour:
"il Piemonte non avrebbe incoraggiato né l’intrigo, né la rivoluzione”, e “se taluno si aspettava che la Sardegna provocasse la guerra s’ingannava a partito”.
Sapeva però di mentire: già a gennaio 1859, Vittorio Emanuele gli confidò che la guerra era pressoché inevitabile. Reputando Hudson “more Italian than the Italians themselves”, e quindi oltremodo vicino alla causa piemontese, Malmesbury lo richiamò a Londra per una lavata di capo. Il diplomatico temeva non sarebbe più tornato in Italia, ma a salvarlo fu proprio l’Austria: il 24 aprile Francesco Giuseppe lanciò un ultimatum che Cavour respinse. L’incauta mossa austriaca, proprio mentre l’Inghilterra lavorava al disarmo, indispettì a tal punto il governo inglese che questi mutò posizione appoggiando la politica di Cavour. Malmesbury raccomandò a Hudson di rientrare a Torino per sostenere e sorvegliare il primo ministro piemontese (“Stick to Cavour!”). L’Austria dunque attaccò il Piemonte, e la Francia intervenne nei vittoriosi combattimenti di Magenta e Solferino. A causa del malumore per le perdite francesi, e sapendo di non poter mettere in ginocchio l’impero asburgico, Napoleone si ritirò dalla guerra: l’armistizio franco-austriaco stravolse gli accordi di Plombières e solo la Lombardia fu sottratta agli Asburgo. Deluso, Cavour si dimise.
Durante il ritiro dalle scene di Cavour, tra luglio 1859 e gennaio 1860, il ruolo giocato da Hudson si rivelò determinante. Sebbene l’Inghilterra dubitasse del governo piemontese dopo l’accordo segreto con Napoleone III, Hudson continuò a lavorare per persuadere il proprio governo e per proseguire lungo la linea politica tracciata da Cavour.
Il nuovo esecutivo whig di John Russell, più accomodante verso il Piemonte, lasciò fare poiché favorevole all’esclusione dell’Austria dalla penisola e alle richieste di annessione degli stati dell’Italia centrale al Regno di Sardegna. Russell formulò questa proposta: le potenze europee avrebbero adottato una politica di non-intervento così da lasciare gli italiani determinare il loro futuro. Per tornare al timone, Cavour aveva bisogno di sostenere la necessità di convocare il parlamento e di indire nuove elezioni, sicuro di una sua vittoria. Il 21 gennaio 1860 Cavour ridiventò primo ministro. Negli intrighi che portarono a questo risultato sir Hudson ebbe una parte non trascurabile.
La cessione di Nizza aprì la fase decisiva dell’unificazione italiana. La città era il luogo d’origine di Garibaldi e suo collegio elettorale. La notizia lo fece infuriare a tal punto che riunì una forza di volontari per attaccare i francesi proprio a Nizza. In seguito alle rivolte in Sicilia, Garibaldi fu persuaso a cambiare i suoi piani e dirigere la spedizione verso l’isola. Lord Russell e gli ammiragli inglesi rimasero affascinati dalle conquiste di Garibaldi, ma anche discretamente preoccupati per le possibili conseguenze. Hudson riportò a Cavour i timori di Russell, il quale gli rammentò di tenere sempre in vista gli interessi inglesi senza lasciarsi trasportare dalle simpatie italiane. Punto sul vivo, Hudson rispose al limite dell’insubordinazione, sostenendo che l’unificazione italiana si sposava con gli interessi inglesi, e che per i territori conquistati da Garibaldi l’unica soluzione era l’annessione al Piemonte, ribadendo infine la correttezza della propria condotta. Il sospetto di eccessiva partigianeria per la causa italiana era in realtà ben riposto, benché Hudson non arrivò mai al punto di mettere a rischio il governo britannico né a compromettere l’equilibrio europeo. L’amore per l’arte e la storia del nostro paese bastava a spiegare l’inclinazione di Hudson per l’Italia, ma anche il suo temperamento fece molto: se messo a confronto con Cavour, l’impetuoso inviato britannico poteva passare per l’italiano, mentre il più compassato primo ministro piemontese per un inglese.
Sappiamo come andarono le cose in seguito: Castelfidardo, Teano e i plebisciti di annessione al Piemonte; quindi, il 27 gennaio 1861, le elezioni parlamentari, a cui seguirono la proclamazione di Vittorio Emanuele e la formazione del primo governo guidato proprio da Cavour. La nascita dell’Italia unita fu accolta dall’ostilità delle potenze europee. Fece eccezione soltanto la Gran Bretagna, come dimostra la comunicazione di Russell nella quale veniva riconosciuto il nostro paese come nuova nazione europea.
Raggiunto il traguardo dell’unificazione italiana, anche il compito di Hudson giunse al termine. Nel 1863 gli fu offerto un posto a Costantinopoli, ma decise di dimettersi dalla diplomazia. Si trasferì sul Lago di Garda e poi a Firenze, dove trascorse il resto dei suoi giorni come collezionista d’arte. Poco prima della morte, avvenuta il 20 settembre 1885, sposò la milanese Eugenia Vanotti, a lungo sua compagna. Dal 2010 una targa sulla facciata di Palazzo Cisterna, in via Maria Vittoria, a Torino, ricorda il luogo in cui, per circa undici anni, risiedé e lavorò James Hudson, forse il meno diplomatico dei diplomatici britannici, ma certamente “più italiano degli italiani”.