Il linguaggio della letteratura: specchio di una società che cambia

Da “La chiave a stella” di Levi a “La straniera” di Tawfik

Laureato in Lingue e letterature straniere presso l’Università del Piemonte Orientale, ha conseguito il dottorato presso lo University College Cork (Irlanda). Insegna lingua inglese e ha pubblicato diversi saggi sul multilinguismo negli scrittori piemontesi.

  

La riedizione del saggio di Bruno Villata, Primo Levi e il piemontese. La lingua deLa chiave a stella, e il recente articolo di Michela Del Savio sono un’ottima occasione per alcune considerazioni sulle abitudini linguistiche dei piemontesi e per un rapido sguardo agli aspetti linguistici della produzione letteraria degli ultimi quarant’anni.

I dialetti come simbolo del passato

Primo Levi diede alle stampe La chiave a stella nel 1978, ossia al termine di un decennio che il linguista Michele Cortelazzo definisce “di svolta per la storia recente dell’italiano”. La conseguenza più evidente fu la conquista, da parte della lingua italiana, della dimensione parlata, per secoli appannaggio degli idiomi locali. Principali responsabili furono i mezzi di comunicazione di massa (radio, stampa e soprattutto televisione) che agevolarono rapidamente la diffusione di varietà standard dell’italiano a spese dei dialetti. Dunque il numero dei dialettofoni, soprattutto nelle zone economicamente sviluppate, prese a diminuire così come lo status del dialetto. Le parlate locali in una società sempre più industrializzata venivano associate a povertà e sottosviluppo e identificate come simboli di un passato rurale che andava lasciato alle spalle.

La lingua nazionale non si limitò a rimpiazzare le varietà locali: l’italiano, a lungo a contatto con i dialetti, ne uscì a sua volta modificato, mentre i dialetti, benché sempre meno usati, non sparirono del tutto ma si trasformarono. Dalla prolungata interferenza nacquero varietà medio-basse diversamente etichettate (italiano popolare, regionale, colloquiale, ecc.). Tipiche di queste varietà sono le ipercorrezioni, l’uso scorretto dei pronomi personali, l’impiego del che multifunzionale e l’adattamento all’italiano di espressioni locali.

“Io non saprei dirle perché tutti i lavori che ci tocca fare a noi siano sempre in dei posti balordi: o caldi, o gelati, o troppo asciutti, o che ci piove sempre, come appunto quello che sono in cammino di raccontarle. Forse è solo che noi siamo male abituati, noi dei paesi civili, e se ci capita di finire in un posto un po’ fuorivia ci sembra subito la fine del mondo”.
Primo Levi, “La chiave a stella”

I meriti de “La chiave a stella”

“La chiave a stella”, Giulio Einaudi editore, 1983.
“La chiave a stella”, Giulio Einaudi editore, 1983.

La chiave a stella ha almeno due grandi meriti. Il primo è quello di riflettere le metamorfosi in corso, visto che Levi è abilissimo a impiegare un’ampia gamma di varietà e registri linguistici; il secondo consiste nel ruolo chiave giocato dal dialetto.

Anche se i termini dialettali tout court sono tutto sommato pochi, nel romanzo la parlata locale è la principale forma di interferenza negli enunciati del protagonista, evidente nel lessico ma anche nella sintassi e nel ricorso a espressioni idiomatiche che Villata passa in rassegna nel suo saggio. Levi riteneva il dialetto un serbatoio inesauribile per uno scrittore, una lingua ricca e viva, al contrario dell’italiano della tradizione letteraria — definito “marmoreo, buono per le lapidi”, e intendeva in questo modo restituirgli dignità letteraria.

“Gymkhana-Cross” di Luigi Davì, Hacca, 2011.
“Gymkhana-Cross” di Luigi Davì, Hacca, 2011.

Con La chiave a stella il piemontese ritornava in narrativa dalla parentesi del romanzo industriale, e in particolare dai racconti di Luigi Davì, operaio-scrittore valdostano, ma torinese di adozione, pubblicati da Einaudi nel lontano 1957.

Gli anni Settanta di Fruttero & Lucentini

A che punto è la notte - Fruttero e Lucentini

Negli anni Settanta l’impiego dei dialetti in letteratura fu complessivamente trascurato a favore di un italiano tendente alla medietà. Tuttavia la società italiana del tempo era meno omologata dell’attuale e pertanto più chiaramente divisa in ceti sociali, ognuno dotato di un proprio idioletto.

Altri due romanzi fotografano mirabilmente la società (torinese) del periodo: La donna della domenica (1972) e A che punto è la notte (1979) di Fruttero & Lucentini, entrambi ambientati nel capoluogo regionale e in grado di svelare una città solo superficialmente quieta e immutabile. L’utilizzo di molteplici varietà e stili linguistici li rende entrambi polifonici nel senso bachtiniano del termine. In essi, cioè, la lingua dà voce e identità ai diversi personaggi: da quelli appartenenti ai ceti più elevati — i quali considerano il linguaggio un essenziale elemento di distinzione, e che quindi ricorrono a elementi dialettali solo di rado — giù giù fino a quelli delle classi più basse, che ricorrono con maggior frequenza a varietà regionali e colloquiali.

Titoli di testa e una scena del film “La donna della domenica” di Luigi Comencini  - 1975.

“— Baast’n, — pronunciò a mezza voce, accuratamente, — Baast’n.
Assurdo. Grottesco. Eppure — lo diceva anche la Bibbia — un’unica parola poteva avere, alle volte, un’importanza decisiva, guarda Garibaldi, guarda Cambronne”.
Fruttero & Lucentini, “La signora della domenica”
Anna Carla Dosio, la “donna della domenica”, interpretata da Jacqueline Bisset.
Anna Carla Dosio, la “donna della domenica”, interpretata da Jacqueline Bisset.

Basti qui citare le abitudini linguistiche di Anna Carla Dosio, la “donna della domenica”. Di ottima famiglia, sposata a un ricco industriale, la protagonista è solita impreziosire il proprio lessico con espressioni straniere che forniscono dati sul suo status sociale (“quais della Senna”, “ne pas se traîner au lit”, “vieille auberge”), e danno informazioni sullo stile di vita del personaggio, come è il caso dei vocaboli golf, bridge, cineclub, boutique. L’attenzione della Dosio per le lingue straniere diventa manifesta nel corso di una discussione intorno alla pronuncia della parola Boston. Dal punto di vista della donna, la pronuncia corretta sarebbe “Baast’n”; per l’amico e confidente Massimo Campi, invece, quando si è in Italia, “si dice Boston con tutt’e due gli o bei rotondi”, visto che “fare lo sforzo di mettere insieme il suono Baast’n è un’affettazione ridicola”.

Il dialetto trova poco spazio sia ne La donna della domenica che in A che punto è la notte. Tuttavia, la corretta interpretazione di un proverbio piemontese agisce sull’intreccio del primo dei due: nella Donna della domenica l’assassina è identificata allorché il commissario di polizia si accorge di aver equivocato il significato del proverbio La cativa lavandera a treuva mai la bona pèra, e in particolare l’ultima parola pèra, cioè pietra, la quale viene confusa con pera (il frutto).

Il multilinguismo de “Il nome della rosa”

Copertina de “Il nome della rosa”, Bompiani, 2012.
Copertina de “Il nome della rosa”, Bompiani, 2012.

Gli anni Ottanta si aprirono con il grande successo editoriale de Il nome della rosa di Umberto Eco. Pur attraverso strategie diverse, e malgrado in letteratura prevalesse all’epoca una lingua sempre più modellata sull’italiano dei mass media, il romanzo prosegue la linea multilingue piemontese. Non tanto il dialetto ma frequenti inserti in latino, altri meno frequenti in tedesco e qualcuno in idiomi inventati dall’autore (come quello attribuito a Salvatore, il monaco benedettino che “parlava tutte le lingue e nessuna”) partecipano al complesso code-mixing della narrazione.

Nello stesso decennio il numero di dialettofoni era intanto in ulteriore diminuzione: circa 11% in meno rispetto alla decade precedente. Parallelamente la diffusione dell’italiano fece registrare un incremento del 10%. La stessa tendenza proseguì tra gli anni Ottanta e Novanta: se nel 1988 il 24% degli italiani con età superiore ai sei anni utilizzava il dialetto come codice esclusivo o primario, sette anni più tardi la percentuale precipitò al 15%.

“Salvatore parlava tutte le lingue, e nessuna. Ovvero si era inventata una lingua propria che usava i lacerti delle lingue con cui era entrato in contatto — e una volta pensai che la sua fosse, non la lingua adamica che l’umanità felice aveva parlato […] ma proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva”.
Umberto Eco, “Il nome della rosa”
Locandina del film “Il nome della rosa”
Locandina del film "Il nome della rosa".

Narrativa contemporanea

Venendo ai nostri giorni, secondo una rilevazione Istat del 2012 circa il 95% della popolazione compresa tra otto e settantaquattro anni impiega la lingua italiana come primo o secondo codice linguistico; di questi, il 64,8% sono italofoni esclusivi, mentre coloro che usano il dialetto come lingua primaria corrispondono al 6,6%. Anche le persone che di norma alternano o mescolano italiano e dialetto sono in calo: dal 29% del 2006, il tasso è sceso all’attuale 24%.

Ma il fenomeno più evidente è il già citato processo di normalizzazione linguistica, al quale hanno contribuito in maniera determinante i moderni strumenti tecnologici e di comunicazione. In linea generale, l’aspetto linguistico della narrativa contemporanea rispecchia i cambiamenti in corso. Anche la maggioranza dei romanzi piemontesi pubblicati negli ultimi decenni tradisce il condizionamento del linguaggio pubblicitario, tecnologico e delle modalità espressive dei nuovi media. Pertanto il multilinguismo e l’impiego di parlate locali non rappresenta la caratteristica preminente delle narrazioni, per esempio, di Alessandro Baricco e Alessandro Perissinotto né di quelle degli scrittori delle ultime generazioni come Paolo Giordano e Silvia Avallone.

La letteratura italiana della migrazione

Eppure non tutti i romanzieri hanno rinunciato all’impiego di termini dialettali né a forme linguisticamente contaminate. C’è chi come Benito Mazzi (del quale ci siamo occupati in un precedente articolo) mantiene viva, seppur adattata a un contesto diverso, la lezione di Pavese e di Fenoglio; poi ci sono i cosiddetti scrittori della migrazione, ossia scrittori immigrati che utilizzano l’italiano per raccontare la propria esperienza migratoria e la propria esistenza in un paese straniero.

Younis Tawfik
Younis Tawfik

Proprio il Piemonte ospita uno degli esponenti di spicco della letteratura italiana della migrazione: Younis Tawfik. Nato in Iraq ma ormai in Italia da quasi quarant’anni, Tawfik è autore, tra gli altri, de La straniera, romanzo pubblicato nel 1999 e ritenuto uno dei meglio riusciti del genere — anche se, più che romanzo, sarebbe corretto definirlo prosimetro poiché mischia generi narrativi e poetici differenti.

Copertina de “La straniera” di Younis Tawfik.
Copertina de “La straniera” di Younis Tawfik.

La storia è ambientata nella Torino dei tardi anni Novanta e racconta la sofferta storia d’amore tra Amina, una giovane marocchina costretta alla prostituzione, e un architetto mediorientale senza nome apparentemente ben inserito nella società torinese. È però l’aspetto formale e linguistico il più interessante del romanzo. Intanto la narrazione è affidata all’altro per eccellenza, ossia allo straniero, in maniera alternata: prima tocca all’architetto, quindi ad Amina, raccontare la propria vita di straniero a Torino, e così fino all’ultimo capitolo, nel quale prevale un’insolita narrazione in seconda persona. Tawfik inoltre inserisce, di tanto in tanto, all’interno di strutture italiane, vocaboli arabi. Ogni vocabolo appare in corsivo senza alcuna traduzione, così da rendere l’ibridazione linguistica più naturale possibile. Sebbene questi termini non siano numerosi, sono comunque sufficienti ad attivare un processo di relativizzazione culturale, suggerendo cioè l’esistenza di persone che provengono da società organizzate in maniera differente da quelle a cui i lettori (italiani) sono abituati. L’utilizzo di termini ed espressioni straniere non risponde a necessità puramente formali né a finalità soltanto realistiche: esso intanto risponde alla semplificazione linguistica in corso, e serve inoltre a dare voce a individui appartenenti a comunità marginali o minoritarie che altrimenti farebbero fatica a esprimere il proprio punto di vista.

“Perché mi parli sempre in italiano?
…Parla in arabo. Non siamo forse due arabi?”
Younis Tawfik, “La straniera”

La straniera di Younis Tawfik

Esempi di “ginn”, dal manoscritto medievale islamico “Book of Wonders”.
Esempi di “ginn”, dal manoscritto medievale islamico “Book of Wonders”.

La maggior parte delle parole arabe presenti nel romanzo è legata alla religione islamica. Il termine ginn è il più frequente, e identifica creature soprannaturali citate nel Corano. Secondo il libro sacro dell’Islam, queste entità hanno libero arbitrio e possono decidere di perseguitare chiunque vogliano. Della loro esistenza sono convinte specialmente persone appartenenti ai ceti popolari, come la protagonista e la sua famiglia.

Tra i vocaboli di cui l’autore si è servito ci sono quelli riguardanti i titoli onorifici usati nelle comunità arabe. Questi sono collocati prima del nome dei personaggi maschili, e la loro frequenza rivela una società patriarcale che concede molta importanza agli uomini di una certa età o in possesso di un’ampia conoscenza. Per esempio, Shaikh, titolo che le comunità islamiche riservano agli anziani o agli studiosi, o Hagi, associato generalmente a individui che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Solo un appellativo femminile è presente nel romanzo, ossia Lalla, riservato alle donne appartenenti a un ceto sociale elevato. Questa sproporzione tra titoli maschili e femminili dà un’idea della posizione subordinata occupata delle donne nelle società islamiche.

La ricchezza del multilinguismo

Come ha osservato Maria Cristina Mauceri, La straniera

è un’opera ibrida, e si potrebbe definire più precisamente come un innesto, in cui la pianta è araba, ma questa pianta trasferita in Italia ha prodotto un frutto nuovo e originale, in cui elementi delle due culture si fondono in armonia.

Lo stile eterogeneo e la struttura multiforme rappresentano un ottimo esempio di deformazione delle norme di scrittura e dei generi letterari tradizionali. Soprattutto il multilinguismo concorre ad aprire la letteratura contemporanea a nuove soluzioni in grado di riflettere in maniera autentica la complessità dei cambiamenti e la realtà variegata della società attuale.

È pertanto indubbio che le scelte linguistiche non riguardano soltanto l’aspetto formale, esteriore della comunicazione, ma possono dire molto del mondo interiore del parlante (o dello scrittore). Il Piemonte è da sempre, per ragioni geografiche e storico-culturali, una regione multilingue, e ciò è evidente in letteratura: a partire dalle farse di Giovan Giorgio Alione e dall’attività di Giuseppe Baretti, ai racconti “scapigliati” di Giovanni Faldella e Achille Giovanni Cagna, e poi Pavese, Fenoglio, fino agli scrittori sopra ricordati. La regione ha contribuito a mantenere attivi i rapporti tra le forze centripete e centrifughe d’Italia, un rapporto che ha rappresentato per secoli la fonte principale di ricchezza culturale della regione stessa e del paese. Oggi questo rapporto è meno vivace rispetto al passato, e il processo di standardizzazione linguistica in corso lascia intravedere un preoccupante appiattimento su posizioni ideologicamente omologate.

In definitiva, non si tratta di sostenere una lingua rispetto ad altre; sarebbe invece auspicabile la compresenza di numerosi codici all’interno della stessa entità territoriale poiché ciò rappresenterebbe un inequivocabile segnale di ricchezza culturale e di vitalità sociale. Di conseguenza, ci si dovrebbe augurare che la tradizione letteraria multilingue piemontese si mantenga in buona salute anche in futuro. Tutto ciò lascerebbe presagire la sopravvivenza di gruppi linguistici e sociali differenti e la coesistenza di punti di vista dissimili ma non necessariamente incompatibili.

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Bibliografia

  • Berruto G., Come si parlerà domani: italiano e dialetto, in De Mauro T. (a cura di) Come parlano gli italiani, Firenze, La Nuova Italia, 2006.
  • Clerico E., Polilinguismo nei romanzi torinesi di Fruttero e Lucentini, in Studi Piemontesi, XXXIV, 1, 2005.
  • Cortelazzo M., Italiano d’oggi, Padova, Esedra, 2000.
  • Mauceri M. C., “La straniera” di Younis Tawfik: un dialogo tra due culture, in Italian Studies in Southern Africa, 16, 2003.
  • Raimondi A., Il multilinguismo degli scrittori piemontesi. Da Cesare Pavese a Benito Mazzi, Domodossola, Grossi, 2018.
  • Report ISTAT, L’uso della lingua italiana, dei dialetti e di altre lingue in Italia. Anno 2012, 27 ottobre 2014.
  • Villata B., Primo Levi e il piemontese. La lingua de “La chiave a stella”, Torino, Savej, 2018.
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