Sono numerose le fiabe e i miti che riferiscono dell’esistenza di strumenti musicali fatati, capaci di emettere melodie in grado di affascinare coloro che le ascoltano. Dal Flauto magico, musicato da Mozart, al piffero incantatore di topi e bambini, descritto dai fratelli Grimm. Dalla lira suonata da Orfeo, per ritrovare la sua Euridice nell’oltretomba, alla siringa di Pan, con cui il dio caprino spaventava i viandanti che si avventuravano nei boschi. E non mancano riferimenti a strumenti prodigiosi nemmeno nei testi sacri. Nell’Antico Testamento viene citata più volte l’arpa di Davide, costruita con le corde tratte dai tendini dell’agnello che Abramo sacrificò al posto del figlio Isacco sul monte Moriah. Il racconto biblico riporta come le note dell’arpa pizzicata da Davide avessero il potere di tranquillizzare il re Saul, quando questi era in balìa dell’ansia o in preda a pensieri angosciosi.
Arpa di Davide è il soprannome che fu dato a un particolare pianoforte, ritenuto unico al mondo per le sue caratteristiche costruttive e sonore. Lo strumento, conosciuto anche come pianoforte di Siena, l’Immortale o pianoforte del re, fu realizzato nella città italiana che, più di ogni altra, pare abbia un rapporto privilegiato con la magia: Torino.
La storia dell’Immortale è avvolta da un’aura di mistero e si sviluppa in bilico tra realtà e leggenda. I nomi, le date e gli eventi si confondono e si intrecciano, andando a comporre una sciarada indecifrabile in cui l’uso del condizionale è d’obbligo.
La vicenda avrebbe avuto inizio tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo. A quell’epoca si stabilì a Torino la famiglia Marchisio, originaria di Buttigliera d’Asti. Una dinastia formata da musicisti e compositori (i fratelli Antonino e Giuseppe Enrico), da cantanti lirici (le acclamate sorelle Carlotta e Barbara, rispettivamente soprano e contralto), nonché da inventori di apparecchi relativi all’ambito musicale (Massimo ideò e commercializzò nel 1900 lo slegadita, un congegno meccanico da applicare al pianoforte per facilitare lo sviluppo della tecnica pianistica). Inoltre, i Marchisio diventarono noti per essere anche fabbricanti di clavicembali e pianoforti, con stabilimenti attivi a Torino e a Roma. La Casa Fratelli Marchisio Negozianti e Fabbricanti di Pianoforti fu fondata ufficialmente nel 1830 e nella seconda metà dell’Ottocento a Torino ebbe sede in via Rossini e in piazza Vittorio Veneto, all’epoca chiamate rispettivamente via dell’Ippodromo e piazza Vittorio Emanuele I.
Negli ultimi anni del XVIII secolo Sebastiano Marchisio si mise in testa di costruire uno strumento unico al mondo, che fondesse insieme le sonorità poco dinamiche del clavicembalo con quelle più potenti del pianoforte. Si buttò a capofitto nell’impresa e, lavorando notte e giorno, riuscì a mettere a punto una cassa e una tavola armonica perfette.
Purtroppo, Sebastiano morì senza aver completato del tutto lo strumento, che venne terminato successivamente dai suoi discendenti. Il prodotto finale fu un pianoforte verticale a corde oblique, al cui interno un particolare telaio rinforzato in ferro (detto staticofone e brevettato nel 1866) conferiva solidità e sonorità maggiori, differenziando quel pianoforte dagli altri strumenti della stessa tipologia. Il suono emesso era straordinario e senza precedenti. Vari musicisti concordarono nell’affermare come il suono mutasse a seconda delle melodie, tanto da assomigliare a quello di un’arpa, di un liuto o di un violino… insomma, al suono di qualsiasi altro strumento musicale. Si iniziò a mormorare che Sebastiano Marchisio avesse realizzato la tavola armonica usando il legno miracoloso proveniente nientemeno che dal tempio del re Salomone, distrutto nel 70 d.C. dalle truppe del generale Tito.
Il pianoforte sarebbe giunto a Siena al seguito di una Rebecca Marchisio andata in sposa al senese Antonio Ferri. Il figlio della coppia, lo scultore Nicodemo Ferri, insieme al pittore Carlo Bartalozzi, si sarebbe occupato di impreziosire la cassa con un involucro degno della fantomatica origine biblica: ricchi intagli raffiguranti una moltitudine di arabeschi, animali fantastici, puttini, strumenti musicali, nonché i ritratti di Händel, Mozart, Aretino, Cherubini e Gluck. Il pianoforte venne posizionato nella cattedrale di Siena e furono molti gli artisti che lo vollero provare.
Nel 1867 il pianoforte di Siena fu presentato all’Esposizione Universale di Parigi, dove fu suonato dal pianista Camille Saint-Saëns. In quell’occasione fu soprattutto la cassa decorata a riscuotere l’interesse di pubblico e critica. Scrisse Hyppolite Gautier nella sua guida Les curiosités de l’Exposition Universelle de 1867:
Passeremmo sotto silenzio il pianoforte Marchisio di Torino, perché sappiamo che i pianoforti scolpiti non riscuotono favore […] La cura dell’ornamento potrebbe andare a discapito della musica. Ma questo pianoforte entra nelle grazie del pubblico. I suoi rilievi e gli amorini, che reggono con noncuranza i candelabri, sono sculture molto graziose. Se non dovessimo mai suonare questo piano, vorremmo almeno averlo in casa per ammirarlo.
Nel 1868 il pianoforte, oltre ad ottenere il premio di prima classe all’Esposizione di saggi dell’Industria Nazionale di Torino, venne acquistato dalla municipalità di Siena e regalato a Umberto di Savoia e alla cugina Margherita, futuri re e regina d’Italia, in occasione delle loro nozze celebrate nel Duomo di Torino il 22 aprile di quell’anno. Franz Liszt fu chiamato a suonare la sua opera La campanella durante la cerimonia di presentazione del dono ai principi e definì “divino” il suono dello strumento. Diventato di proprietà dei Savoia, il pianoforte di Siena venne conservato tra la Villa Reale di Monza e il Quirinale di Roma. Fu protagonista di svariati concerti e spesso era la stessa Margherita, abile musicista dilettante, a suonarlo.
La leggenda narra che il piano sarebbe sparito dalla Villa Reale durante la seconda guerra mondiale, probabilmente trafugato dai nazisti. Da allora se ne perse ogni traccia. Nei primi anni ’50 il pianoforte del re fece la sua ricomparsa nelle mani di Avner Carmi, un restauratore e accordatore di pianoforti israeliano, autore del curioso libro The immortal piano, pubblicato nel 1960. Nel suo libro autobiografico Avner Carmi racconta in modo molto fantasioso e romanzesco la storia della fabbricazione del pianoforte da parte della dinastia Marchisio e il modo in cui lui ne venne in possesso.
Durante la seconda battaglia di El Alamein del novembre 1942, che vide la sconfitta dell’armata italo-tedesca, comandata da Erwin Rommel, da parte dell’ottava armata britannica, capeggiata da Bernard Law Montgomery, Carmi era arruolato come autista in un’unità di trasporto al servizio delle forze britanniche.
In seguito alla battaglia, il suo gruppo fu incaricato di setacciare la zona del conflitto per individuare i bottini di guerra abbandonati dai nazisti. Durante questa ricerca un pianoforte venne rinvenuto sommerso nella sabbia del deserto. Era molto malconcio e ricoperto del tutto da uno spesso e duro strato di intonaco giallo. Fu deciso di utilizzarlo per intrattenere le truppe. Terminata la guerra, il pianoforte fu abbandonato in un deposito e finì nelle mani di un rigattiere di Tel Aviv. Un giorno, racconta Carmi, un uomo portò nel suo laboratorio di restauro proprio quel pianoforte, affermando di averlo trovato in una discarica. La sorpresa di Carmi fu enorme nel rivedere lo stesso strumento che tempo prima era stato salvato dal deserto. L’uomo chiese quanto sarebbe costato aggiustare il pianoforte. La tariffa gli sembrò eccessiva e ci fu una discussione che lo condusse a tirare un pugno sullo strumento. Alla fine, l’uomo decise che non valeva la pena di investire tempo e soldi in quell’impresa, perciò se ne andò lasciando il piano nelle mani del restauratore.
Rimasto solo, Carmi notò che, nel punto dove il pianoforte era stato colpito, l’intonaco era caduto lasciando emergere delle figure intagliate nel legno. Si trattava di alcuni puttini festanti, impegnati a suonare lire, tamburi e cembali. Carmi riconobbe nello strumento la leggendaria Arpa di Davide, di cui tanto gli aveva parlato suo nonno, il pianista Mattis Yanowsky. Questi aveva avuto modo di suonare al cospetto di Umberto I di Savoia, che gli raccontò del bellissimo pianoforte donatogli per il matrimonio. Mattis avrebbe desiderato posare le sue dita su quei tasti miracolosi, ma non ne ebbe mai l’opportunità.
Carmi decise di riportare il pianoforte di Siena all’antico splendore. Forse erano stati proprio i nazisti a camuffare il pianoforte, consci di avere tra le mani un oggetto davvero prezioso. Usando oltre cento litri di solvente, lo liberò dall’anonima corazza di intonaco che lo ricopriva e procedette al restauro della cassa impiegando pezzi ricavati da dodici pianoforti antichi di manifattura italiana, francese e tedesca. Soltanto la tavola armonica originale non venne modificata in alcun modo. Nel 1948 il lavoro era terminato. Nel frattempo, Carmi scrisse più volte a Vittorio Emanuele III, ormai in esilio ad Alessandria d’Egitto, per mettergli a disposizione il pianoforte, ma non ricevette mai risposta. Diversi anni dopo però, ebbe modo di suonare il pianoforte del re al cospetto della regina di maggio, Maria José del Belgio: “I suoi occhi erano pieni di lacrime quando lo ascoltò”, ricordò Carmi in un’intervista.
Dopo una serie di concerti tenuti in Israele, nel 1953 Carmi portò a far conoscere lo strumento anche negli Stati Uniti. Il 29 agosto 1955 il Time gli dedicò un articolo, intitolato The Harp of David, e si parlò addirittura della realizzazione di un film. Al 1960 risale la pubblicazione del libro The immortal piano, scritto da Carmi a quattro mani insieme alla moglie Hannah. Il testo divenne un bestseller in America e fu tradotto anche in tedesco e in giapponese. L’Arpa di Davide fu la passione e l’ossessione di Carmi. Racconta a tal proposito una delle figlie, Smira:
Quel pianoforte deve a me, alla mia mamma, alle mie sorelle Ora e Aviva un’intera vita di pena. Dal 1945 fino a quando è morto, nel 1979, mio padre non ha avuto più altra famiglia che questo meraviglioso oggetto. Tutto il suo denaro, il suo tempo libero, era per il pianoforte: dal momento in cui accarezzò la tastiera e sentì quel suono magico… ha pensato solo a lui. Ha pensato solo a rintracciare il sentiero del suo lungo viaggio, il suo incredibile restauro, i suoi concerti nei musei, a sentirlo vibrare nelle mani di tutti gli artisti più famosi del mondo. Il piano era magico, perché il suo suono non era di questo mondo. E quando sento quel suono, che è l’anello di congiunzione tra il clavicembalo e il pianoforte e che in più è come un tocco d’arpa, ma più profondo e drammatico, io trasecolo e mi sento ripresa dalla malia che prese mio padre.
Nel settembre 1996 la moglie e le figlie di Carmi misero all’asta il pianoforte di Siena presso la Galleria Tyrosh a Hertzlya Pituah, vicino a Tel Aviv. Per l’occasione, sul quotidiano La Stampa apparve un appello dell’allora assessore alla cultura del comune di Siena, Omar Calabrese, affinché qualche mecenate si facesse vivo per fare in modo che lo strumento, nato a Torino e perfezionato a Siena, potesse ritornare in Italia. Così non è stato. Ma c’è ancora una possibilità. Attualmente (gennaio 2020) l’Immortale si trova in Israele, a Cesarea, ed è di nuovo acquistabile per due milioni di dollari attraverso il sito di aste online eBay, ma non può essere spedito in Italia. Speriamo che qualche volenteroso si faccia avanti per acquistarlo e, magari, riportarlo a Torino, dove la sua storia ebbe inizio.
👍 Grazie a Steve Ballard, studioso e appassionato del “pianoforte di Siena”.