La chimica narrativa di Primo Levi

L’elemento “Piemonte” ne “Il sistema periodico”

Primo Levi chimico alla Siva Vernici di Settimo Torinese.

Professore di Letteratura italiana all’Università di Torino, ha tenuto corsi di Lingua e Letteratura Italiana presso diverse università straniere. Ha pubblicato saggi su Dante, Petrarca, l’Umanesimo, Tasso, l’età barocca, Manzoni, Primo Levi e curato voci per il Grande Dizionario della Lingua Italiana.

  

Sulle pagine di Rivista Savej ci eravamo soffermati tempo addietro ad analizzare il profondo legame tra Levi e il Piemonte (e soprattutto tra Levi e il piemontese), che emerge dalle pagine della sua “Chiave a stella”. Pubblicata nel 1978, “La chiave a stella” segue di qualche anno la pubblicazione di un’altra opera fondamentale per capire Levi sia come scrittore che come chimico: nel 1975 viene infatti dato alle stampe “Il sistema periodico”. Proprio quest’opera è oggetto d’indagine della prof.ssa Erminia Ardissino in quest’articolo tratto da una conferenza tenuta l’8 marzo 2006, nell’ambito di un Seminario sulla letteratura italiana contemporanea presso l’Istituto Italiano di Cultura di Córdoba, con l’appoggio del Ministero degli Affari Esteri.

Nel testo le opere di Levi da cui sono tratte le citazioni sono abbreviate come segue: SP per “Il sistema periodico”; AM per “L’altrui mestiere”; PS per “Pagine sparse”; OI per “Ad ora incerta”.

Tra scienza e letteratura

Copertina de “Il sistema periodico”, Einaudi, 1975.
Copertina de “Il sistema periodico”, Einaudi, 1975.

Primo Levi attua molto presto, con i racconti Piombo e Mercurio, il tentativo di avvicinare sapere scientifico e sapere umanistico-letterario. Collocati poi all’interno della raccolta Il sistema periodico (1975), essi risalgono infatti al 1942. Alla stessa epoca probabilmente è da ricondurre anche il progetto della “storia di un atomo di carbonio”, realizzato poi molto più tardi e posto in chiusura della medesima raccolta con il titolo Carbonio.

Questi primi esperimenti letterari del chimico Levi quindi precedono di molto il vivace dibattito sulla separazione fra “le due culture” nel pensiero occidentale, seguito dal saggio di Charles Snow The two cultures, letto presso il Senato dell’Università di Cambridge il 7 maggio 1959 e pubblicato lo stesso anno dalla rivista Encounter. La questione del conflitto fra scienza e umanesimo che suscitò molte reazioni in tutta la cultura occidentale, interessò anche l’Italia (ancora in gran parte crociana), dove il saggio di Snow venne presentato nel 1964 con una introduzione di Ludovico Geymonat, filosofo della scienza, che pure da tempo auspicava il riaccostamento di sapere scientifico e sapere umanistico in ambito accademico ed educativo.

Esperimenti chimico-narrativi

Il superamento di questa frattura, tentativo che non lasciò grandi tracce nella cultura italiana, diventa invece per Primo Levi, chimico in possesso di un’ottima formazione umanistica e animato da una curiosità senza confini, il programma per quello che sarà il suo secondo “mestiere”, quello di scrittore. Come attesta nella Premessa ai saggi raccolti sotto il titolo L’altrui mestiere, il suo punto di vista è duplice, come due sono i suoi campi di azione:

mi sono divertito a guardare il mondo sotto luci inconsuete, invertendo per così dire la strumentazione: a rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato, e le lettere con l’occhio del tecnico.
Copertina della prima edizione Einaudi de “L’altrui mestiere”, 1985.
Copertina della prima edizione Einaudi de “L’altrui mestiere”, 1985.

E più specificatamente, giustificando le sue “invasioni di campo”, ancora aggiunge:

sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo. C’è chi si torce le mani e lo definisce un abisso, ma non fa nulla per colmarlo; c’è anche chi si adopera per allargarlo, quasi che lo scienziato e il letterato appartenessero a due sottospecie umane diverse, reciprocamente alloglotte, destinate a ignorarsi e non interfeconde. È una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. […] Mi auguro che questi miei scritti, entro i loro modesti limiti d’impegno e di mole, facciano vedere che fra le “due culture” non c’è incompatibilità: c’è invece, a volte, quando esiste la volontà buona, un mutuo trascinamento (AM 632).

Il legame con Calvino

Italo Calvino nel 1961.
Italo Calvino nel 1961.

Il sistema periodico, composto da ventun racconti il cui titolo e contenuto corrisponde ogni volta a un elemento della classificazione di Mendeleev, costituisce uno di questi “ponti”, il più complesso e suggestivo, che Levi tenta per mediare tra scienza e letteratura. È questo un programma che condivide in quegli anni con Italo Calvino, cui era legato per varie vicende della vita (la Resistenza; una recensione che accomunava i loro primi due libri; la stessa casa editrice, presso cui Calvino era anche redattore), ma anche dal comune interesse per la natura.

Come Levi indica nel 1985, in occasione della morte dell’amico, “il legame sottile e insieme profondo” che li univa era anche costituito dall’interesse, stimolato in quegli anni dall’esempio di Raymond Queneau, di cui Calvino si era fatto a Parigi ammiratore e allievo, per una letteratura come sintesi dei saperi. Avevano persino lavorato insieme alla revisione di alcuni nodi della traduzione della Piccola cosmogonia portatile di Queneau, un testo importante e rivelatore anche per Levi. Avevano discusso, condividendoli, “programmi vaghi e grandiosi, di una letteratura mediatrice, rivelatrice, a cavallo fra le ‘due culture’, partecipe di entrambe” al cui “traguardo”, scrive ancora Levi, “si era avvicinato meglio lui [Calvino] di me” (PS 1274–5).

Piombo e Mercurio

Primo Levi, intervistato da Luigi Silori nel 1963, riflette sul mestiere di scrivere e su quello di chimico.

Il sistema periodico beneficia indubbiamente di questi esperimenti letterari, come delle esperienze della vita e narrative che intercorrono tra la scrittura dei primi racconti e la finale composizione della raccolta. Piombo e Mercurio, primi lontani tasselli, sono storie di fantasia in cui l’elemento chimico è oggetto di ricerca, un “trovato” che determina la trama. Essi non raggiungono la ricchezza e la complessità dei successivi racconti. Anche se il nesso tra la vicenda narrata e l’elemento chimico di cui si tratta resta ancora la ricerca o la scoperta dell’elemento, c’è negli altri racconti un di più, una riflessione sulla vita, mediata dalla storia e dalla scienza. L’elemento diventa una chiave interpretativa, un mezzo per capire e indagare la complessità dell’esistenza, della materia e dell’uomo, per compiere un ulteriore passo verso la comprensione dei problemi di fondo del vivere. La ricerca della vena di un metallo diventa la ricerca della ‘vena’ che fa pulsare il mondo, degli individui che danno senso, che sono il sangue nel corpo della vita. La catacresi ha funzione doppia: ‘vena’ da vaso sanguigno è traslato a indicare il giacimento di metallo, ma proprio per ragione chimica ritorna a indicare in questi racconti un veicolo di energia vitale nella composizione della vita e della scrittura. L’individuazione degli elementi umani, di cui si arricchisce via via la sua esistenza, significa per Levi il progressivo riconoscere e decifrare se stesso e il mondo che lo circonda.

La chimica della realtà

La chimica è la via per la comprensione della realtà:

Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all’intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo (SP 804).
Locandina realizzata in occasione della mostra “Primo levi e il sistema periodico” (Bari, 13 febbraio 2017).
Locandina realizzata in occasione della mostra “Primo levi e il sistema periodico” (Bari, 13 febbraio 2017).

In un primo momento la chimica sembra essere addirittura un principio ordinatore, la barriera contro il caos della materia e la sua ostilità. In Idrogeno, che tratta della scelta in età adolescenziale della professione futura, la decisione è motivata con entusiasmo di neofita:

Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici,[…] per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosé, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo (SP 758).

La chimica ha valore sacro, le tavole dei suoi elementi sono come le tavole della legge, ha il potere di attribuire senso e ordine alla ribelle materia. Poi l’entusiasmo si smorzerà, ma quando la chimica cesserà di rappresentare l’ordinatrice, la fonte di risposte e certezze, non cesserà di essere chiave epistemologica, strumento per penetrare la ‘vena’ profonda dei misteri della vita.

La storia di una vita

I ventun racconti de Il sistema periodico non hanno un ordinamento chimico, ma cronologico. All’avvio della conclusione, in Carbonio, una meta-narrazione, l’autore tenta di classificare letterariamente la sua opera:

Il lettore, a questo punto, si sarà già accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica […]. Non è neppure un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. È, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga. Giunto a questo punto della vita, quale chimico, davanti alla tabella del sistema periodico, o agli indici monumentali di Beilstein o del Landolt, non vi ravvisa sparsi i tristi brandelli, o i trofei, del proprio passato professionale? Non ha che da sfogliare un qualsiasi trattato, e le memorie sorgono a grappoli; c’è fra noi chi ha legato il suo destino, indelebilmente, al bromo o al propilene o al gruppo -NCO o all’acido glutammico; ed ogni studente in chimica, davanti ad un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga o formula o parola, sta scritto il suo avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari “poi”; dopo il successo o l’errore o la colpa, la vittoria o la disfatta (SP 934).
Copertina de “Il sistema periodico” (Einaudi, 2014) affiancata alla tavola periodica degli elementi.
Copertina de “Il sistema periodico” (Einaudi, 2014) affiancata alla tavola periodica degli elementi.

L’ordinamento dei racconti segue strettamente la vicenda biografica di Levi. Dapprima gli antenati ovvero il suo background antropologico (Argon), poi gli studi liceali (Idrogeno), quelli universitari (Zinco, Ferro, Potassio), i primi lavori e i primi testi narrativi (Nichel, Piombo, Mercurio, Fosforo). Quindi la Resistenza (Oro) e, centrale, la discesa al ‘fondo’, l’abisso del lager (Cerio, l’unico racconto sulla deportazione, è collocato esattamente a metà dell’opera, preceduto da dieci e seguito da altri dieci racconti). Segue la risalita, il riscatto, con le successive esperienze di lavoro (Cromo, Zolfo, Titanio, Arsenico, Azoto, Stagno), quindi un racconto a cavallo fra il mestiere di chimico e l’incursione nell’“altrui mestiere” (Uranio), infine la stagione della scrittura (Argento, Vanadio, Carbonio). C’è in questi racconti tutta la vita di Primo Levi, esemplata sub specie chimica, fino al momento dell’explicit del libro, fino al punto finale, quando l’atomo di carbonio è identificato con l’energia entratagli in corpo, che

fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su e in giù, fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo (SP 942).

E che di autobiografia si tratti lo prova, senza ombra di dubbio, il fatto che per dimostrare tappe fondamentali della propria vita, in una lettera di autodifesa inviata a Commentary nel novembre 1985, Levi si appoggi proprio ai racconti de Il sistema periodico, come di prove a proposito del suo antifascismo e del suo dichiararsi ebreo: “si vedano, ad esempio, i capitoli Zinco e Ferro in The Periodic Table” e “li ho espressi chiaramente in The Periodic Table” (PS 1290–2). E poi ancora, nell’Itinerario d’uno scrittore ebreo, dice innanzitutto che “questo libro è, a prima vista, un racconto per sommi capi della mia vita di chimico” e poi che, “ad un esame più approfondito, i critici hanno ravvisato nel libro un respiro più ampio della pura autobiografia: esso contiene la storia di una generazione” (PS 1214). Si tratta infatti di un’opera radicata nella sua vita professionale e pre-professionale, di un riconoscimento che il letterato deve al “chimico che gli aveva aperto la strada”:

mi sembra doveroso, per così dire, che il letterato rendesse grazie al chimico (PS 1214).

Elementi di un’autobiografia

Primo Levi, 1960 circa.
Primo Levi, 1960 circa.

“Ogni elemento dic[e] qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa)” (SP 934), e genera una soluzione narrativa diversa. Talora la corrispondenza fra l’elemento e la storia è fondata sulla somiglianza, “un’analogia scherzosa” (PS 1215), come in Argon: “ Il poco che so dei miei antenati li avvicina a questi gas” (SP 741). Anche in Fosforo, Giulia, la collega di Primo che vuole “procurar[gli] subito una modesta porzione di gioia”, forse per una “intuizione oscura di quanto il destino [gli] stava preparando”, è come il fosforo, elemento appunto “portatore di luce” (SP 840 e 843), che il protagonista ha il compito di isolare presso l’industria Wander, dove ambedue lavorano. Oppure il legame si fonda sulla metonimia come in Ferro: “Sandro sembrava fatto di ferro, ed era legato al ferro da una parentela antica” (SP 776), o sull’antitesi come in Zinco: “sono io l’impurezza che fa reagire lo zinco” (SP 769), o su un equivoco come in Titanio: “Non ti taglio: titanio” (SP 883), dice l’imbianchino alla terrorizzata bambina Maria, che ha frainteso, famigliarizzandolo, il nome dell’elemento fondamentale per la vernice bianca. Talvolta l’elemento offre una morale, è il costituente di una favola, come in Potassio: “diffidare del quasi-uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla)” (SP 791), o condensa un valore, come in Oro, ove la Dora, fiume trascinatore di oro, che il protagonista sente scorrere dalla prigione di Aosta, è “amica perduta, e tutti gli amici sono perduti, e la giovinezza, e la gioia, e forse la vita” (SP 859). Talvolta l’elemento offre una filosofia di vita per opposizione, come in Arsenico dove il veleno è usato contro il ciabattino dalla “tranquilla dignità”, che invece esce vittorioso dalla guerra mossagli dal concorrente (SP 889). O è la risposta a profondi quesiti, la chiave dell’universo, come in Idrogeno, l’elemento “dalla cui condensazione si formano in eterno silenzio gli universi” (SP 763), che si rivela improvviso a chi vuole sondare il mistero e crede di trovarne la chiave nella chimica rudimentale che si appresta a conoscere.

Le metafore della chimica

La chimica è anzitutto per Levi un grande repertorio di metafore. Le sue storie di “chimica militante” (SP 808) sono tratte dalla vita:

andavo in cerca di eventi, miei e d’altri, che volevo schierare in mostra in un libro, per vedere se mi riusciva di convogliare ai profani il sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua del mestiere di vivere (SP 914).
Parte di una sezione dedicata a Primo Levi al MUFANT (Museo del Fantastico e della Fantascienza) di Torino.
Parte di una sezione dedicata a Primo Levi al MUFANT (Museo del Fantastico e della Fantascienza) di Torino.

L’obiettivo che si nasconde tra le pieghe delle storie è però quello di misurarsi con gli enigmi dell’esistenza, in cerca di una chiave, che spesso prende forma proprio dall’ordinamento della tavola degli elementi. La ricerca di una risposta ai perché, il desiderio di superare il caos e la refrattarietà della materia ha una sua forza che impone rispetto:

il rapporto con la Materia cambiava, diventava dialettico: era una scherma, una partita a due. Due avversari disuguali: da una parte ad interrogare, il chimico implume, inerme, con a fianco il testo dell’Autenrieth come solo alleato […]; dall’altra, a rispondere per enigmi, la Materia, con la sua passività sorniona, vecchia come il Tutto e portentosamente ricca d’inganni, solenne e sottile come la Sfinge. Incominciavo allora a compitare il tedesco, e mi incantava il termine Urstoff (che vale Elemento: letteralmente, Sostanza primigenia) ed il prefisso Ur che vi compariva, e che esprime appunto origine antica, lontananza remota nello spazio e nel tempo (SP 771).

L’elemento Piemonte

La costruzione autobiografica de Il sistema periodico, dominante nella scrittura-testimonianza di Primo Levi, determina la collocazione quasi del tutto piemontese dell’opera. Fatta eccezione per i racconti fantastici Piombo e Mercurio, per Fosforo, ambientato a Milano e nella sua periferia, per Oro che si svolge in Val d’Aosta, e per Cerio, storia di Auschwitz, i restanti racconti hanno tutti come sfondo Torino o la sua regione, i luoghi abitati da Levi.

Primo Levi risponde alla domanda: “Che cos’è la piemontesità?”
Primo Levi risponde alla domanda: “Che cos’è la piemontesità?”

Il Piemonte, con il suo dialetto, costituisce un elemento essenziale nella composizione della raccolta, nella chimica narrativa fatta di un incastro di parole, di aggregati linguistici, che si combinano come gli elementi nelle molecole e formano la tessitura del testo. La scrittura, dice infatti Levi, “è un mestiere di parole, scelte, pesate, commesse a incastro con pazienza e cautela” (AM 746).

Gli antenati

Nella lontananza del tempo è collocato il primo racconto sugli antenati, che costituiscono in qualche modo l’Urstoff del narratore. È la storia di una famiglia arrivata in Piemonte nella notte dei tempi:

pare siano giunti in Piemonte dalla Spagna attraverso la Provenza […]. Respinti o male accetti a Torino, si erano stanziati in varie località agricole del Piemonte meridionale (SP 742).

La sostanziale non identità ebraica del protagonista, la totale fusione (fino alle leggi razziali del 1939) con la restante società, quella dei “gôjím”, dei cristiani, si radica nell’inerzia ereditata da secoli di marginalità, ma anche di non aperta intolleranza che gli antenati avevano sperimentato in Piemonte.

Famiglia Levi, gennaio 1927.
Famiglia Levi, gennaio 1927.
Non furono mai molto amati né molto odiati; non sono state tramandate notizie di loro notevoli persecuzioni; tuttavia, una parte di sospetto, di indefinita ostilità, di irrisione, deve averli tenuti sostanzialmente separati dal resto della popolazione fino a parecchi decenni dopo del 1848 ed il conseguente inurbamento (SP 742).

Il racconto Argon stabilisce subito le coordinate di questa ‘autobiografia’, di cui il dialetto piemontese è elemento essenziale. Argon è una straordinaria mistura linguistica, in cui compaiono, oltre al dialetto, il gergo ebraico-piemontese, il sottogergo dei negozianti torinesi di stoffe, il ricorso ad altre lingue (qui il francese), il linguaggio biblico, quello proverbiale.

Il multilinguismo in Primo Levi

Tutti i racconti de Il sistema periodico sono improntati ad un plurilinguismo e a uno sperimentalismo linguistico che si avvantaggia di molteplici contributi, ma su tutti dominante è ovviamente la parlata locale, inserita perfettamente nell’italiano letterario, classico, di Levi. Con questa composizione a pastiche lo scrittore non viene meno al suo programma di chiarezza come valore essenziale della scrittura:

Ho sempre pensato che si deve scrivere con ordine e chiarezza; che scrivere è diffondere un messaggio, e che se il messaggio non è compreso la colpa è del suo autore; che perciò uno scrittore ben educato deve fare in modo che i suoi scritti siano capiti dal massimo numero di lettori e con il minimo di fatica (AM 766).

L’elemento estraneo all’italiano viene inserito e isolato in un contesto chiaro, quindi resta come incastonato, per lo più anche tradotto, e non riduce la leggibilità del testo.

Il classicismo di Levi non è solo arricchito di termini delle scienze e delle tecniche […] è anche attraversato da uno sperimentalismo linguistico che ha i suoi esisti più vistosi nella mimesi di “voci” altre da quella dell’autore, e nel “pastiche” esercitato su linguaggi e registri speciali dell’italiano. (Mengaldo P. V., “Lingua e scrittura in Levi”, pag. 199)
Il documentario “Primo ufficio dell’uomo. I mestieri di Primo Levi”, è stato realizzato allo scopo di ripensare, attraverso l’esperienza e le opere di Primo Levi, il ruolo del lavoro nella vita degli individui e all’interno della società. Sono inoltre ricordate le tappe principali della formazione di Levi e della sua attività di scrittore e di chimico.

La mistura linguistica non è fine a se stessa, anzi, rivela le discordanze, le fratture, le disarmonie del reale. L’opzione puristica, l’attaccamento al buon italiano contrasterebbe, senza questi inserti, con la “fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno di noi alberga” e che deve essere autorizzata a esprimersi. Anche in una lingua rigida e impeccabile entra la vita che muta, e il pastiche linguistico offre quella componente di irrazionalità che consente di troncare “ogni sospetto di lievitazione retorica” (AM 767). Levi è scrittore che ama la complessità e le contraddizioni di Rabelais e del suo maccheronico, che ricerca un linguaggio composito che alberga le varie forme di vita.

Argon

Argon non solo si compone di una mescolanza di idiomi, ma è occasione per registrare e studiare

la bizzarra parlata dei nostri padri di questa terra […] prima che sparisca: parlata scettica e bonaria, che solo ad un esame distratto potrebbe apparire blasfema, mentre è ricca invece di affettuosa e dignitosa confidenza con Dio, Nossgnôr, Adonai Eloénô, Cadòss Barôkú (SP 746).
Primo Levi, illustrazione tratta da “Una stella tranquilla” di Pietro Scarnera.
Primo Levi, illustrazione tratta da “Una stella tranquilla” di Pietro Scarnera.

Introdotto dalla serie di “barba” e “magne”, ovvero zii e zie, ironicamente definiti “savi patriarchi tabaccosi e domestiche regine della casa, che pure si autodefinivano orgogliosamente “‘l pòpôl d’Israél” (SP 743), il gergo israelitico-piemontese, la lingua santa “Lassòn Acòdesh”, diventa la vera protagonista del racconto. I personaggi appena abbozzati, ma non “figé dans un’attitude”, non in una galleria di ritratti, sono vivi perché conosciuti attraverso un breve aneddoto, una frase proverbiale, una storia di poche righe (in genere di avventure commerciali o coniugali e familiari), che efficacemente li riassume. “Barbaiotô (zio Elia)”, “Barbasachín” (zio Isacco), “Barbamôisín (zio Mosé), “Barbasmelín (zio Samuele)”, “Magnaiéta (zia Maria)”, “Magnafôriña (zia Zefora)”, “Magnavigàia (zia Abigaille)”, etc. fanno da veicolo a un mondo linguistico che riaffiora per la volontà di averne memoria (ancora scrittura-testimonianza, dunque). Nello stesso tempo questo repertorio rappresenta la creatività dell’esistente in una forma che contrasta

l’ordine mortuario del dominio e dell’omologazione con le proprie possibilità di libertà creativa, polistilismo, varietà e fantasia, anomalia (Mengaldo P. V., Lingua e scrittura, pag. 233).

Contaminazione linguistica

Di questa parlata in via di estinzione viene presentato il piccolo vocabolario, i cui lemmi sono spiegati con la stessa passione etimologica che Levi coltiva nei suoi saggi. Il gergo si sposa nella narrazione con il dialetto piemontese, perché con esso forma un linguaggio dalla straordinaria

forza comica, che scaturisce dal contrasto fra il tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico, mai scritto se non per scommessa, e l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei padri, sacra e solenne, geologica levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai” (SP 746).

Si tratta talora di una contaminazione fonica, come nel caso di “hasirùd” con la u francese o piemontese, che non esiste in ebraico, dove c’è invece solo la desinenza “ùt” ma senza la connotazione spregiativa che acquisita nel gergo raccontato da Levi (SP 747). Altre volte la contaminazione è lessicale come nel caso della “vesta a kiním”, ovvero un vestito a puntini o letteralmente a pidocchi (“la terza delle dieci piaghe d’Egitto, enumerate e cantate nel rituale della Pasqua ebraica”, SP 747), o l’espressione “c’ai takèissa ‘na medà meshonà” modellato sul piemontese “c’ai takèissa ‘n ‘assidènt” (“gli prendesse un accidente” SP 750). Talvolta Levi saggia la formulazione del pensiero dialettale in italiano, come nell’espressione “tutto poteva venire a taglio” (SP 755), come sarà la maniera e l’innovazione dominante del successivo La chiave a stella.

Copertina de “La chiave a stella” (Einaudi, 1978) e di “Primo Levi e il piemontese. La lingua de ‘La chiave a stella’” (Edizioni Savej, 2018, seconda edizione). In questo saggio l’autore, Bruno Villata, analizza l’origine piemontese della lingua che Levi mette in bocca a Tino Faussone, l’operaio specializzato protagonista del suo romanzo.
Copertina de “La chiave a stella” (Einaudi, 1978) e di “Primo Levi e il piemontese. La lingua de ‘La chiave a stella’” (Edizioni Savej, 2018, seconda edizione). In questo saggio l’autore, Bruno Villata, analizza l’origine piemontese della lingua che Levi mette in bocca a Tino Faussone, l’operaio specializzato protagonista del suo romanzo.

Il racconto Argon ha valore di testimonianza linguistica, suffragata anche dal fatto che alla fine vi è, come negli studi linguistici, una nota sulla grafia, ma non solo, è anche una dichiarazione d’intenti, un programma narrativo. Infatti l’alchimia linguistica, che è la sostanza dell’“altrui mestiere”, è anche chiave di lettura del mondo, perché il contrasto che genera il gergo ibrido degli ebrei piemontesi ne rispecchia per Levi altri due:

quello essenziale dell’ebraismo della Diaspora, disperso fra “le genti” (i “gojímm”, appunto), teso fra la vocazione divina e la miseria quotidiana dell’esilio; e un altro ancora, ben più generale, quello insito nella condizione umana, poiché l’uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere (SP 746).

Il dialetto nell’italiano, l’ebreo nel corpo sociale, le diverse tensioni nell’uomo: la parola si fa dunque emblema delle disarmonie tra ordine e disgregazione, tra caos e finalità, appartenenti alla vita.

Arsenico

Il piemontese, dialetto che Levi possiede, per sua ammissione, “corretto come forme e suoni” ma “così liscio e snervato, così educato e languido, che appare poco autentico” (SP 885), è poi presente qui e lì in altri racconti. Nei termini con cui sono indicati gli antenati di Sandro in Ferro, i “magnín” e i “fré” (calderari e fabbri) del Canavese, e soprattutto nell’“ottimo piemontese”, “con argute venature astigiane” del protagonista di Arsenico, cliente dall’aspetto inconsueto: “avrebbe potuto essere un filosofo contadino” (SP 884), che fa analizzare al giovane Levi un cartoccio di zucchero in cui è nascosta una “qualche porcheria (‘saloparía’)” (SP 885). Vittima di un concorrente nel mestiere di ciabattino (lo zucchero regalatogli conteneva arsenico), l’artigiano non si scompone, non vuole sporgere denuncia perché “il mondo è grande e c’è posto per tutti” ed esce di scena “con la tranquilla dignità che gli è propria” (SP 889), di cui la parlata è una componente essenziale. La storia, scrive Levi, è “un po’ deperita per effetto della traduzione dal piemontese, linguaggio essenzialmente parlato, all’italiano marmoreo, buono per le lapidi” (SP 887).

Le parole non possono mai rendere il personaggio, come si legge in chiusura di Ferro: “è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta” (SP 781). Se il linguaggio fissa nella regolarità delle sue leggi la vita, il dialetto serve per evitare la retorica monumentale. Come per Queneau le sue “dotte bizzarrie”, così gli inserti dialettali o gergali di Levi sono usati non per la loro intraducibilità (è lo stesso Levi a tradurli), ma per fedeltà alla recitazione orale, per corrispondenza con la storia e con la molteplicità della vita.

I luoghi del Piemonte

Illustrazione di Torino tratta da “Una stella tranquilla” di Pietro Scarnera.
Illustrazione di Torino tratta da “Una stella tranquilla” di Pietro Scarnera.

L’idioma locale è però anche un aspetto del legame con la terra di origine. Del dialetto, che confessa ancora, “io parlo male, ma che amo del ‘debito amore’ che ci lega al luogo in cui siamo nati e cresciuti, e che diventa nostalgia quando ne siamo lontani” (AM 821), è felice di trovare nel dizionario etimologico, “insospettati diplomi di nobiltà”. Esso è un aspetto della sua appartenenza a una terra, a una specifica identità. La geografia piemontese, che fa da sfondo ai racconti entra per cenni, pochi ma significativi. Levi riconosce nell’attrazione speciale che prova per il paesaggio, un suo carattere inconsueto, e si dice “anche troppo distratto dal paesaggio, variopinto, tragico o strano, per sentir[s]i chimico in ogni fibra (AM 631). E non è casuale che la prima poesia della raccolta Ad ora incerta sia Crescenzago (OI 519–20), un componimento di sei sestine a rima ABABCC scritto nel 1943, che parla dell’esistenza spenta del proletariato suburbano, ritratto in un paesaggio dalle tinte fosche e cupe, che richiama i contemporanei quadri di Mario Sironi. Il paesaggio della periferia milanese determina nella poesia le figure umane, così come ne Il sistema periodico i brevi cenni spaziali sottolineano soprattutto l’alienazione dell’esistenza, il disagio del vivere, l’aggressione esterna che l’individuo subisce.

I luoghi sono dapprima gli appartamenti dove vivono gli “antenati”: la soffitta “sudicia e caotica” di via Vanchiglia di Barbaricô e della sua “grassa gôià volgare” (SP 751), “la filza di stanze polverose e disabitate” dove abitava Nonna Màlia (SP 756) con tutti i vecchi e inutili oggetti di cui si rifiutava di disfarsi. Questi ambienti, dove il piccolo Primo era condotto dal padre, sono relitti di un mondo passato, isole fuori dai tempi, che non destano sospetti, ma non mancano di suscitare un certo disagio, come il cioccolatino che la nonna gli offriva, immancabilmente “tarlato” e che perciò Primo faceva “sparire in tasca pieno di imbarazzo” (SP 756).

Poi ci sono i laboratori: quello delle prime prove e quello universitario. In Idrogeno il laboratorio sperimentato nell’adolescenza è situato

in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evoluta di un mammifero (SP 759).

È un’immagine che rende bene la primitività dei maldestri tentativi di Primo e dell’amico Enrico di capire il mondo con le proprie forze, mentre la scuola gentiliana offriva loro percorsi lineari, ma inutili, attraverso un sapere chiaro e piano, che lasciava però intatti i misteri e le incognite profonde che emergevano istintive e inevitabili dell’età adolescenziale.

La notte dell’Europa

All’esterno dell’Istituto di Chimica degli anni universitari domina sempre l’oscurità, metaforica ovviamente. È “la notte, la notte dell’Europa” del 1939 di Ferro: la notte delle leggi razziali e delle aggressioni hitleriane. Ma anche in Potassio si rinnova l’immagine della notte con l’evocazione di una impossibile luce:

Risalivo svogliatamente via Valperga Caluso, mentre dal Valentino giungevano e mi sorpassavano folate di nebbia gelida; era ormai notte, e la luce dei lampioni, mascherati di violetto per l’oscuramento, non riusciva a prevalere sulla foschia e sulle tenebre. I passanti erano rari e frettolosi […] (SP 785).
“Corriere della Sera”, 1938.
“Corriere della Sera”, 1938.

Prima il parco del Valentino era ritratto “tutto verde” in Zinco (SP 768): la sua primavera rifletteva le illusioni dei giovani che, in quell’istituto dai “misteriosi minareti […], che tuttora conferiscono a quel tratto di Corso Massimo d’Azeglio una melensa impronta di falso esotismo” (SP 764), “fumavano e chiacchieravano” nell’inconsapevolezza della gioventù.

Altro luogo emblematico è la cava di amianto di Balangero, rappresentata con i caratteri e le parole dell’Inferno dantesco:

In una collina tozza e brulla, tutta scheggioni e sterpi, si affondava una ciclopica voragine conica, un cratere artificiale, del diametro di quattrocento metri: era in tutto simile alle rappresentazioni schematiche dell’Inferno, nelle tavole sinottiche della “Divina Commedia”. Lungo i gironi, giorno per giorno, si facevano esplodere le volate delle mine […]. Al fondo, al posto di Lucifero, stava una poderosa chiusura a saracinesca, sotto a questa, era un breve pozzo verticale che immetteva in una lunga galleria orizzontale; questa a sua volta sboccava all’aria libera sul fianco della collina […] (SP 795).

L’uscita della galleria è il punto in cui il trenino della miniera “trascinava a riveder le stelle”. Sono già gli anni dell’esclusione degli ebrei dalla società, Levi ottiene questo lavoro ma “in incognito, senza nome o con un nome falso” e gli è raccomandato di “non entrare in troppa confidenza per le note ragioni” con i colleghi (SP 794). È posto a vivere in inferi a cielo aperto.

Cava di amianto di Balangero.

I luoghi del lavoro dopo il ritorno dal lager sono ben poco descritti. Appena accennata “la grande fabbrica in riva al lago”, dove Levi abbozza Se questo è un uomo, ricordata infatti “assediata dal fango e dal ghiaccio” (SP 871), quasi a riassumere le difficoltà del dopoguerra. Più familiare il laboratorio che divide con Emilio, collocato infatti nella di lui casa, in mezzo all’andirivieni di semplici ma cordiali genitori. Sullo sfondo le cascine delle campagne torinesi, da cui viene l’operaio Lanza di Zolfo e presso cui si reca Levi con la moglie alla ricerca della pollina in Azoto (SP 879 e 896).

Ferro

Il Piemonte che fa da sfondo ai racconti non è dunque una regione amena, ma caratterizzato da asprezza, non nemico come i tempi, ma rivelatore delle difficoltà dell’umano esistere, e perciò formativo. La sua durezza insegna il rigore e l’impegno, la cancellazione delle illusioni. Questa sua aspra positività emerge chiaramente in Ferro, il racconto di Sandro, che viene appunto dalla “terra bella e avara” della Serra d’Ivrea e che sa rapportarsi con le montagne, misurandosi e migliorandosi, preparandosi “per un avvenire di ferro” (SP 778). Della sua storia fanno parte le palestre di roccia

I Picchi del Pagliaio con il Torrione Wolkmann, i Denti di Cumiana, Roca Patanüa (significa Roccia Nuda), il Plô, lo Sbarüa. […] Sbarüa è deverbio da “sbarüé”, che significa “spaurare”; lo Sbarüa è un prisma di granito che sporge di un centinaio di metri da una modesta collina irta di rovi e di bosco ceduo: come il Veglio di Creta è spaccato dalla base alla cima da una fenditura […] (SP 778).
Serra d’Ivrea in primo piano.
Serra d’Ivrea in primo piano.

Ferro è il racconto in cui compare la più ampia e serena visione paesaggistica, le Alpi all’alba:

Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove (SP 778).

È una vista aperta, che riconduce a origini bibliche, a regioni di libertà e purezza allora impossibili, ma verso cui erano naturalmente chiamati. Con la sua luce (quasi un Fiat lux), è la risposta all’oscurità della notte della storia.

All’esperienza forte e naturale dell’alpinismo con Sandro appartengono anche “le pareti di buona roccia salda interrotte da ripiani erbosi dove crescevano felci e fragole, o in autunno more” e da cui “si scendeva a rompicollo, in pochi minuti, per sentieri cosparsi di sterco vaccino antico e recente” (SP 779). Così pure il paesaggio freddo ma lunare di una notte di montagna, all’addiaccio:

il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale (SP 780).

È un mondo solido e stabile, con una sua identità e fermezza rocciose, per questo costituisce un riferimento etico per i giovani in formazione. Intaccabile ma generoso, esso restituisce loro il “sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino” (SP 781).

Radici

Proprio questa impressione di generosa forza che viene dalle montagne riassume la percezione che Levi ci offre del Piemonte. Esso appare positivo anche perché, nonostante tutto, è la terra dei padri e come tale offre un’identità sicura e radicata:

Il Piemonte era la nostra patria vera, quella in cui ci riconoscevamo; le montagne attorno a Torino, visibili nei giorni chiari, e a portata di bicicletta, erano nostre, non sostituibili, e ci avevano insegnato la fatica, la sopportazione, ed una certa saggezza. In Piemonte, e a Torino, erano insomma le nostre radici, non poderose, ma profonde, estese e fantasticamente intrecciate (SP 783).
Veduta di Torino.
Veduta di Torino.

Le radici in questa terra educano a un rapporto civile con la società e con il mondo, al lavoro costruttivo e non alienante, alla chimica che è epistemologia, alla forza fisica che lo aiuterà a vincere i tempi della prigionia (SP 781).

Calvino sigilla una sua storia de I nostri antenati con un

“frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine”, che si staglia sullo sfondo di un cielo visto “solo a sprazzi irregolari e ritagli”, luminosa e lieve immagine di una scrittura come “grappolo insensato di parole idee e sogni”.
(Calvino I., “Il barone rampante”, pag. 776-7)

Levi oppone, con una simile metafora arborea, un intrico di radici, che disegna nel fondo umorale e tenebroso della natura umana, nell’oscuro agitarsi dell’uomo nella storia, la traccia vera e vitale che trova nella profondità la sua sostanza, nel confronto con la terra e la materia la sua forza, e si estende intrecciando letterarie sotterranee fondamenta.

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Bibliografia

  • Calvino I., Il barone rampante, in Milanini C. (a cura di), Opere, Milano, Mondadori, 1990–1, pp. 776–7.
  • Levi P., Opere, Belpoliti M. (a cura di), Torino, Einaudi, 1997.
  • Mengaldo P. V., Lingua e scrittura in Levi, in Ferrero E. (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Torino, Einaudi, 1997, pp. 169-242.
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