E se alcuni grandi autori italiani, per di più piemontesi, avessero scritto (anche) fantascienza? Non è una domanda ipotetica, degna di un universo parallelo oppure di una saga what if targata Marvel Comics, bensì una possibilità concreta. La premessa è che, in effetti, il nostro paese non ha mai avuto una particolare predilezione per i generi letterari. Mentre nel mondo anglosassone le distinzioni tra stili narrativi e ambientazioni, stereotipi ed emozioni evocate/attese, ha nel corso dei decenni alimentato e fatto prosperare l’industria editoriale — rendendola via via più interconnessa con l’industria dell’intrattenimento in toto: si pensi a quella stessa Marvel oggi fortunato studio cinematografico — da noi per varie ragioni lettori e addetti ai lavori hanno continuato a conservare un certo scetticismo.
In tempi più recenti hanno conquistato prestigio il genere storico e il giallo/noir, grazie a penne illustri e a celebri vicende del passato trasformate abilmente in narrativa. Ma quanto alla fantascienza, sembra essere rimasta valida l’antica affermazione dei curatori di "Urania" Carlo Fruttero e Franco Lucentini:
Un disco volante non potrà mai atterrare a Lucca.
Il grande duo di scrittori, nel dire questo, intendeva che le storie di speculazione scientifica (science-fiction è la definizione inglese) non appartengono alla nostra cultura. Nel modo in cui, invece, ne fa parte la finzione storica, diretta discendente del romanzo d’appendice e a quella tradizione a cui possiamo ascrivere persino I Promessi Sposi.
Eppure andando a rovistare nella produzione di alcuni dei più grandi autori del Novecento, che lo si faccia con metodo oppure semplicemente da lettori compulsivi, è possibile imbattersi in piccole chicche narrative che hanno tutte le caratteristiche di racconti di fantascienza. Di solito, si tratta di produzioni minori, opere scritte per puro divertimento che finiscono collezionate all’interno di una raccolta dell’autore e, magari, in parte dimenticate. Ma non è scontato che sia così. L’altro elemento sorprendente è quanto di questa “produzione segreta” si possa trovare, in percentuale, negli scrittori piemontesi. Come se ci fosse un sottile legame tra la science-fiction e la nostra regione; legame che effettivamente esiste, ma ha a che fare, anziché con la produzione originale di un artista della penna, con il luogo fisico in cui fu concepita una certa, celebre collana di romanzi da edicola. Ma andiamo per ordine: perché è un percorso abbozzato, che meriterebbe ulteriori approfondimenti, eppure di notevole suggestione.
Trovare il professore alessandrino come primo nome in lista non dovrebbe sorprendere i lettori più attenti. Eco si conquistò a suo tempo la notorietà internazionale con il romanzo bestseller Il Nome della Rosa: non a caso un giallo storico, come si diceva poco fa riguardo ai generi più affini alla nostra cultura. Un titolo di grande successo la cui fama è rimasta immutata con gli anni e si appresta a essere rilanciata grazie alla serie televisiva di recente produzione con John Turturro nei panni di Guglielmo da Baskerville. Ma il lavoro di Umberto Eco come studioso e divulgatore della cultura di massa è almeno importante quanto il suo romanzo più celebre. Sulle pagine di Linus fu tra i primi a sdoganare un linguaggio, apparentemente minore, come quello del fumetto, mentre il suo Fenomenologia di Mike Bongiorno vale menzione già solo per il titolo. È stato docente e arguto commentatore dell’attualità, di cui scriveva in rubriche come La bustina di Minerva.
Ed è proprio nella seconda raccolta di suoi brevi testi di commento, Il secondo diario minimo, che troviamo l’insolito racconto Stelle e stellette. Narrato in forma epistolare, con l’ironia e la capacità mimetica di linguaggio tipici dell’autore, tratta di una serie di vicende tra il guerresco e il grottesco di cui sono protagonisti gli ufficiali di un esercito spaziale dalle caratteristiche spiccatamente sabaude. Basti dire che tra le firme delle missive c’è un generale di nome Giansaverio Rebaudengo. Il racconto è datato 1976, menzionato dallo stesso autore come “di fantascienza”, segno che almeno il Professore non temeva l’etichetta. Nell’introduzione, Eco precisa inoltre come la vicenda trasferisca in dimensione galattica alcuni suoi ricordi di caporalmaggiore di fureria. Insomma, anche un divertissement ambientato nello spazio profondo può avere solidi legami con la realtà; anzi, la confezione fantastica permette di enfatizzare la componente satirica.
Questo sottotitolo, da solo, potrebbe causare l’ira funesta di illustri esegeti dell’autore di Se questo è un uomo. Confesso però che non si tratta di una mia invenzione, bensì di una definizione che chiunque può riscontrare tramite una semplice ricerca su Google. Storie naturali, raccolta di racconti di Primo Levi edita per la prima volta da Einaudi nel 1966, è classificata su Wikipedia Italia nella categoria “fantascienza umoristica”. E ci sarebbe da domandarsi se all’autore dispiacerebbe questa definizione; probabilmente no.
La giusta diffusione degli scritti di Primo Levi legati all’Olocausto, inseriti anche nei programmi scolastici, sembrerebbe aver oscurato una parte tutt’altro che irrilevante della sua produzione letteraria, che prende il via con Storie naturali per poi proseguire con gli altri racconti. A monte, in queste storie, c’è un presupposto che lega Levi ai contemporanei americani della science-fiction: prendere spunto da una scoperta scientifica o tecnologica, immaginarne una variante possibile per il futuro e, con essa, le conseguenze. Narrativa d’anticipazione in piena regola, insomma; un’attitudine che avrebbe dovuto essere nelle corde dello scrittore, per via della sua professione di chimico. Arricchita da verve e abilità di sintesi insuperabili.
Storie naturali non è “solo” una raccolta di racconti, perché quanto narrato tende ad avere alcuni personaggi ricorrenti, insieme a una blanda, come la definiremmo oggi, continuity. Quanto però al desiderio di mantenere secondaria questa produzione, va precisato come Levi pubblicò originariamente il volume sotto pseudonimo, come Damiano Malabaila. Ci pensava inoltre la quarta di copertina, scritta presumibilmente da Italo Calvino, all’epoca redattore dell’Einaudi, a precisare come “non fosse sufficiente classificare queste pagine sotto l’etichetta della fantascienza”. Ricadere nell’etichetta all’epoca sarebbe stato di certo deprecabile. Ma visto lo stile accattivante delle storie, la loro ironia e la capacità di trattare, in modo originale, temi oggi resi popolari dal cinema americano, viene il dubbio se non potrebbero essere proprio questi semidimenticati racconti il modo per avvicinare qualche adolescente in più alla lettura.
La voce narrante della maggior parte dei racconti è identificabile con Levi stesso, ma uno dei personaggi ricorrenti è Simpson, agente di commercio della multinazionale NATCA. È quest’ultimo a presentare una serie di invenzioni, l’una più innovativa dell’altra, che il narratore, per spirito di curiosità, ipotizza di portare alle estreme conseguenze (sociali). Al centro di ben due storie è il mimete, duplicatore di materia che Malabaila/Levi tenta di usare per clonare esseri viventi, causando lo sconcerto di Simpson. Sarà poi l’amico più giovane Gilberto Gatti, nel secondo racconto, a retroingegnerizzare la macchina: duplica la moglie, con conseguenze che qui non raccontiamo per non togliere il gusto della lettura. Levi anticipa i tempi introducendo il “minibrain”, che è praticamente Internet, il “calometro”, che pretende di misurare la bellezza delle persone (tra Tinder e i social fotografici, non siamo lontani) e una censura demandata alle macchine (altrettanto inquietante, in tempi di algoritmi).
Mentre le invenzioni narrative più estrose fanno da contraltare alle loro ben più celebri versioni nella fantascienza anglosassone letteraria e cinematografica: su tutte la possibilità di registrare e fruire i ricordi, riproposta di recente dalla serie Black Mirror, sebbene risalga a Philip K. Dick.
A sorpresa, la fantascienza umoristica di Primo Levi è meno lontana dal suo racconto autobiografico dell’esperienza ad Auschwitz di quanto possa apparire. A fare da inaspettato filo conduttore sono i fumetti di supereroi. Capostipite dei successi cinematografici globali contemporanei, incentrati sugli eroi in costume, fu nel 2000 X-Men di Bryan Singer. Un film che si distanziava dai predecessori — come Superman e Batman — perché prendeva vita in una realtà pressoché coincidente con la nostra. Nella sequenza iniziale, il futuro villain Magneto scopriva i suoi poteri da mutante, quelli di controllare i metalli, da bambino durante la prigionia nel campo di concentramento nazista. Anche Levi, nel racconto Angelica farfalla, accenna a una possibile, ulteriore evoluzione umana: la stessa dei mutanti X-Men.
Menzione d’onore per due piemontesi d’adozione, rilevanti però ai fini di questo percorso. Italo Calvino, ligure di origine, è stato torinese per via del lavoro editoriale in Einaudi. Avendo dato spazio alle Storie naturali di Primo Levi, difficile non stabilire un parallelismo, stilistico e formale, con i racconti calviniani delle raccolte Le Cosmicomiche e Ti con Zero. Pur non essendo speculativi in senso stretto, è mirabile l’abilità di queste storie nel prendere spunto da leggi fisiche e frammenti dell’evoluzione della vita, sulla Terra e nel cosmo, per raccontare tutt’altro, con ironia ed empatia notevoli. Era stato lo stesso Calvino a definire queste storie dei “bozzetti”, avvicinandole per sintesi e umorismo alle strisce a fumetti che comparivano su Linus ma anche in appendice a Urania.
Ha avuto frequentazioni torinesi solo sporadiche, invece, l’autore televisivo e scrittore Michele Serra. Lo incontriamo lungo il nostro itinerario per via del racconto omonimo sull’antologia Il nuovo che avanza, edita per la prima volta per Feltrinelli nel 1989. Qui, in una singolare forma di distopia capitalista, i cittadini sono costretti a trovarsi, come cognome, uno sponsor commerciale. L’idea anticipa il romanzo Logo Land (2003), dell’americano Max Barry, pur non avendo avuto la stessa risonanza.
Si diceva in apertura che il legame tra il Piemonte e la fantascienza sia solido, ma non per via degli scrittori della nostra regione che ne hanno firmata. Piuttosto, di una certa collana di romanzi da edicola: nientemeno che "Urania". Carlo Fruttero, ne I ferri del mestiere (Einaudi, 2003), racconta divertito l’acquisto di uno stock di volumi di science-fiction in lingua originale in una bancarella nei dintorni, non ben precisati, di piazza San Carlo. Lui e il collega Franco Lucentini erano all’epoca redattori di Einaudi, ma l’amico Sergio Solmi aveva suggerito loro di “dare un’occhiata alla fantascienza”. Sarebbe stato l’inizio di una tradizione che prosegue ancora oggi, e che attraverso i decenni avrebbe consegnato al nostro paese le opere più importanti del genere.
Fruttero annota come una serie di varianti di mercato furono necessarie: Urania, pensata come rivista sul modello degli equivalenti americani, dalle riviste pulp in avanti, non fu premiata da altrettanto successo commerciale. Si ripiegò allora su due antologie:
I due grossi volumi di racconti che uscirono presso Einaudi a cura di Solmi e nostra, vennero accolti con straordinario favore dai critici più sottili e difficili. […] Con poche eccezioni, tutti gridarono al miracolo, e furono questi consensi altolocati a causare il primo boom della fantascienza in Italia, a suscitare le prime inchieste, interviste, dibattiti.
Nella memoria, Fruttero precisa anche che le mode fanno presto a passare e che il successo mediatico fu breve. I romanzi di "Urania", distribuiti in edicola, seppero d’altro canto costruirsi un pubblico fedele, andato avvicendandosi nelle generazioni. Mentre proprio sotto il marchio Einaudi è in corso di recente un’operazione di riscoperta di molti autori classici, sotto forma delle antologie curate da Fabrizio Farina che per il momento hanno raccolto Viaggi nel Tempo e i Viaggi nello Spazio, con grandi nomi tra cui anche i precursori Wells e Poe.
Chissà se Fruttero e Lucentini avrebbero immaginato che, decenni dopo, sulle pagine di "Urania" e per di più perfettamente in contesto, sarebbe apparso un racconto proprio di Primo Levi? Parliamo del numero speciale Millemondi Primavera 1998, a cura di Franco Forte e Giuseppe Lippi, intitolato Strani giorni. Levi era scomparso da circa un decennio, ma nel volume è presente con l’insolito Fan da Cefeo, scritto a quattro mani con Piero Bianucci, divulgatore scientifico e già direttore di Tuttoscienze.
Scrive il curatore Franco Forte:
Nel 1985, Piero Bianucci era conduttore e coautore di una serie di trasmissioni televisive della Rai dal titolo “Viaggio dentro l’atomo”, per la regia di Bruno Gambarotta. Un giorno, a una di queste puntate partecipò, in qualità di scrittore ma soprattutto di chimico, Primo Levi. Poco dopo la registrazione di quella trasmissione, a Bianucci pervenne da Primo Levi la lettera che compone la prima parte di questo racconto epistolare a due mani. Il tono era scherzoso ma avvincente, e Bianucci stette al gioco decidendo di rispondere.
Il risultato del giocoso scambio sarebbe stato pubblicato nel 1986 sulla rivista Astronomia diretta da Margherita Hack.
E il contenuto del racconto? Sorprendente, ma anche coerente e ricco, come la buona fantascienza (che è poi buona narrativa in generale) riesce ad essere.