La carriera in marina di Camillo Candiani d’Olivola, signore di Montù dei Gabbi, iniziò nel 1860 e si concluse nel 1910. Alla sua morte, all’età di 78 anni, lasciò dietro di sé un’importante collezione di oggetti, reperti e memorie delle sue campagne oceaniche, messi assieme in mezzo secolo passato per mare. Tutto quanto appartenne a Camillo Candiani fu raccolto e rimase per molto tempo nella sua casa della tenuta di Olivola, tra le colline del Monferrato casalese.
Tra le molte cose giunte sino ai nostri tempi e a lui appartenute, vi sono anche alcune lettere-diario che l’Ammiraglio scrisse ai famigliari durante i suoi viaggi. Tra le tantissime missive ne spicca una di 144 pagine, indirizzata alla sorella Maria Luigia Candiani d’Olivola Bongiovanni di Castelborgo, dalle lontane terre bagnate dall’Oceano Pacifico. In quei racconti, tratti dai suoi diari personali di bordo, si narravano le meraviglie dell’Impero del Sol Levante della seconda metà dell’Ottocento, osservate attraverso gli occhi di un ufficiale della Regia Marina italiana che, nonostante la relativamente giovane età, di mondo ne aveva già visto parecchio.
Il racconto, scritto nel 1873, narra soprattutto dei due mesi di permanenza in Giappone (settembre e ottobre), tra Yokohama e Tokyo (all’epoca denominata Edo, oppure Jeddo/Yeddo per gli stranieri), ospiti del Mikado, il centoventiduesimo Imperatore del Giappone Meiji (1852 — 1912), per poi continuare con il viaggio verso le attuali isole Hawaii fino alla California.
Le lettere di Camillo Candiani rappresentano ancora oggi un’analisi minuziosa del Giappone e delle sue genti nella metà dell’Ottocento, così come della diplomazia del tempo, in un momento in cui il neonato Regno d’Italia cercava di crearsi un’identità internazionale, mentre l’Impero giapponese tentava di aprirsi al resto del mondo. Soprattutto il testo presenta un punto di vista del tutto nuovo, per l’epoca, della corte imperiale, la quale, accogliendo la missione italiana imbarcata sulla pirofregata “Giuseppe Garibaldi”, per la prima volta da secoli si dimostrava benevola con uno Stato occidentale. A bordo del vascello italiano vi era anche il giovane guardiamarina Tommaso Alberto Vittorio, principe di Savoia e duca di Genova, di cui Camillo Candiani era all’epoca aiutante di campo.
La lettera dal Giappone di Camillo Candiani alla sorella Maria Luigia fece parte di uno studio preliminare che venne presentato dal Professor Gildo Fossati al XVIII Convegno dell’Associazione Italiana per gli Studi Giapponesi (1994) e quindi in parte pubblicata dallo stesso professor Fossati l’anno successivo. L’epistolario di Camillo Candiani alla famiglia fu trascritto di recente, mantenendo la versione originale dei testi, inclusi i modismi e lo stile nello scrivere caratteristici di quel periodo. La raccolta venne pubblicata nella sua interezza nel settembre del 2018 con il titolo Alla corte imperiale giapponese, Resoconto di viaggio della regia pirofregata Giuseppe Garibaldi, 1872–1874, Torino, Collana Vivant, 2018.
La “Giuseppe Garibaldi”, varata nei cantieri di Castellammare di Stabia con il nome di “Borbona”, era una pirofregata (denominazione che indicava un sistema di propulsione di tipo misto, a vela e motore) da 3.980 tonnellate a pieno carico, che originariamente faceva parte della flotta del Regno delle Due Sicilie. Durante la campagna oceanica del 1872 — 1874 il vascello italiano circumnavigò il mondo, toccando tutti i continenti.
Il vascello italiano approdò a Yokohama il 23 agosto 1873 e gli italiani della “Garibaldi” rimasero ospiti dell’Imperatore sino al 1° novembre. Camillo Candiani iniziò la stesura della lunga lettera dal Giappone alla sorella il 15 settembre, quasi quattro mesi dopo la sua ultima missiva dalla Tasmania. Minuziosa è la sua descrizione, non priva di un certo orgoglio, della lusinghiera accoglienza avuta dal Principe al suo arrivo. Le cerimonie ufficiali organizzate dal governo giapponese per il Duca d’Edimburgo prima e per il granduca Alessio di Russia poi, entrambi ufficiali di Marina, rendevano necessaria un’accoglienza non meno lusinghiera per un principe di Casa Savoia. Una squadra di otto navi da guerra giapponesi accolse il Duca di Genova e il suo seguito al loro arrivo a Yokohama e per i giorni seguenti parate e rassegne militari si alternarono senza sosta a celebrazioni e banchetti.
Come sempre succedeva ai tempi in cui anche le navi da guerra avevano spazio ristretto ed equipaggio limitato, ogni ufficiale imbarcato ricopriva numerosi incarichi. Camillo Candiani era, a seconda delle necessità, ufficiale di rotta, responsabile della mensa e delle provviste di bordo e soprattutto aiutante di campo dell’allora diciannovenne Principe di Piemonte, oltre ovviamente a tutti i servizi di guardia che gli toccavano come ufficiale. Egli scriveva infatti che da quando la missione era giunta in Giappone, gli restava appena il tempo per dormire.
La missione italiana venne ospitata al Palazzo di Hamagoten, antica residenza d’un daimyō, adattato all’epoca con uno stile mezzo europeo e mezzo giapponese. I daimyō, tra il X e il XIX secolo, fino alla restaurazione del potere imperiale iniziata dall’imperatore Meiji, furono potenti feudatari giapponesi, subordinati solo allo Shōgun. Camillo Candiani era un attento osservatore, oltre a possedere una “penna fluente” e le sue descrizioni del Giappone del tempo riuscivano a essere minuziose e ironiche assieme.
Egli ci parla del palazzo assegnato alla compagine italiana, dei suoi mobili di lacca finissima fatti all’europea espressamente per l’occasione, delle tovaglie di broccato intessuto d’oro, dei muri non dipinti ma coperti con parati a disegni giapponesi della più grande originalità ed eleganza. L’ufficiale scrive anche del vasto e magnifico giardino, a suo dire il più bello che avesse mai visto. Da agricoltore qual era per tradizione familiare, Candiani rimase ammirato dalla tecnica e dall’arte dimostrate dai giardinieri giapponesi nella disposizione delle piante, secondo particolari rigori prospettici che contribuivano a far sembrare gli spazi molto più grandi di quanto fossero in realtà. Infine si dilungò su una particolareggiata descrizione delle tecniche del bonsai, ammirato anche dai vasi in porcellana in cui erano disposte le piante.
Nella realtà dei fatti sin dal suo inizio la missione italiana non sembrò incominciare nel migliore dei modi. Nella prima parte della sua lettera-diario Camillo Candiani sembra dimostrare ben poco entusiasmo verso il Principe di Piemonte, sul quale, al principio, non esita a proferir critiche, spesso anche pesanti. Idee e sentimenti che sembrano inizialmente essere condivisi dalla maggior parte degli ufficiali imbarcati. A questo proposito egli scrive:
in massima abbiamo deciso di non produrre (in pubblico — n.d.r.) il Principe che il meno possibile, perché assolutamente non riesce a cavarsela in nessuna circostanza con discreta figura. Non sa parlare, è gauche (goffo — n.d.r.) nei suoi movimenti, ha l’aria ogni giorno più instupidita, infine non può fare che una trista figura, e quindi val meglio resti sconosciuto.
Revisioni storiche recenti ci spiegano che con tutta probabilità il giovane Principe di Casa Savoia provò imbarazzo al doversi comportare in maniera opposta a quanto deciso dal Governo italiano. Re Vittorio Emanuele II aveva infatti stabilito che la campagna oceanica di suo cugino Tomaso avrebbe dovuto essere unicamente di istruzione e in nessun caso sarebbe diventata una missione diplomatica. Le direttive del governo giunsero troppo tardi al facente-funzioni della diplomazia italiana in Giappone, il conte Balzarino Litta, il quale dovette quindi regolarsi altrimenti e finì con l’annunciare come visita ufficiale la missione di Tomaso di Savoia Genova presso la Corte imperiale giapponese. Scrive a questo proposito Candiani:
Per questo il Conte Litta, domandò replicatamente istruzioni al Ministero (degli Affari Esteri — n.d.r.) e non ne ottenne che quando ogni cosa era fatta, e dippiù istruzioni vaghe, poco profonde e perfino contrarie a quello che dovevasi fare e che si fece.
Col passare del tempo però le dinamiche a bordo andarono mutando e da detrattori del Duca Tomaso, Candiani e gli altri ufficiali ne divennero gradualmente difensori, estimatori e amici, arrivando a ipotizzare che il Principe potesse essere stato fatto oggetto di un complotto ordito per screditare lui, assieme a tutta la casa regnante di allora. Dopo due anni di vita assieme sulla “Garibaldi”, circumnavigando il mondo intero, Tomaso di Genova e Camillo Candiani avevano oramai consolidato la loro amicizia, pur avendo 13 anni di differenza. I due continuarono a rimanere assiduamente in contatto e nel 1879 il capitano di fregata Tomaso di Savoia-Genova volle il capitano di corvetta Camillo Candiani d’Olivola come suo vice comandante a bordo della pirocorvetta “Vettor Pisani”.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Tokyo, la missione italiana guidata dal duca Tomaso di Genova fu invitata ufficialmente alla corte imperiale, assieme a tutto il corpo diplomatico.
Le truppe scelte giapponesi furono allineate fuori il palazzo imperiale per essere passate in rivista dagli ospiti d’oltreoceano. Lasciate le carrozze al termine della parata militare, l’Imperatore, il suo seguito e tutti gli invitati andarono a colazione, o meglio, a un pranzo sontuoso. Si trattò di un evento d’importanza storica per il Giappone, essendo la prima volta che S.M.I. il Mikado, il quale per l’occasione vestiva un costume militare foggiato all’Europea, permise a stranieri di sedersi alla sua tavola.
Sull’evento Camillo Candiani riportò come la conversazione fosse decisamente animata tra gli europei, ma poco con i giapponesi. Inoltre, mentre il Principe di Casa Savoia fece tutto il possibile per essere gentile col Mikado, complimentandolo e ringraziandolo ripetutamente di tutte le cortesie usate nei riguardi della missione italiana, l’Imperatore tacque per tutto il tempo in ragione diretta di quanto mangiò. Una spiegazione sulla voracità e sul silenzio del Mikado in questa situazione, al limite della maleducazione, potrebbe trovarsi nel protocollo di corte che rendeva impossibile per Meiji il potersi intrattenere in conversazione con ospiti, i quali, per quanto illustri nel loro paese di origine, non potevano essere considerati di suo pari livello dai giapponesi. La stessa Imperatrice consorte Shōken non si mostrò agli italiani se non al momento della loro partenza; anche in questo caso doveva trattarsi di un comportamento imposto dal protocollo di corte.
Durante i due mesi passati in Giappone, Candiani scrisse di arti e di turismo, di religione e di politica, di usanze e di abbigliamento. Avendo viaggiato per il paese anche ai tempi della campagna oceanica della pirocorvetta “Magenta” (1866 — 1868), Candiani si dilungò in paragoni tra il Giappone della sua esperienza precedente e quello del 1873. Sette anni dopo il primo viaggio trovò un paese lanciato “senza alcun ritegno” nella via delle riforme. Un Giappone che nel tentativo di imitare l’Occidente a qualunque costo, cercò di riprenderne le istituzioni e le leggi. Il governo Meiji riorganizzò l’esercito e la marina all’europea e si spinse persino a elaborare a tavolino una nuova religione, ispirata ad alcune confessioni occidentali, cercando di trasformare lo Shintoismo del tempo in una religione di Stato, al cui centro si doveva trovare la figura dell’Imperatore.
Per l’intero periodo passato in Giappone ospiti del Mikado, le giornate della missione italiana furono sature di eventi. A pranzi sontuosi con le personalità più in vista della politica giapponese, si alternavano visite guidate nei luoghi più suggestivi dell’area di Tokyo e oltre. Vennero anche spesso intrattenuti nella loro stessa residenza con spettacoli di forza e destrezza; talvolta con giochi di cavalli e cavalieri che simulavano combattimenti tra Samurai e ricordavano alla missione italiana i tempi del Medio Evo europeo. Ma è a tavola dove più d’ogni altra parte si dimostrò l’abilità diplomatica della missione italiana. Tra i principali ospiti abituali ad Hamagoten, spiccava il principe Sanjō Sanetomi. Presidente del Gran Consiglio, la prima carica del Paese, Sanjō Sanetomi oltre che parente e amico personale del Mikado, era anche la persona più influente del Giappone.
Le descrizioni delle aree visitate sono minuziose. I dintorni del tempio di Shiba (quartiere di Minato) ricordano al gruppo quelli dei santuari italiani nei giorni di festa, con un’infinità di banchetti con dolci, frutta, giocattoli e souvenir d’ogni genere a ingombrare le strade e un via vai continuo di popolazione d’ogni estrazione sociale. Secondo gli italiani l’altare dei templi buddisti aveva molto di comune con quello delle chiese in patria, con gli stessi vasi di fiori, statue in legno e mille ornamenti, mentre bacchette odorose sostituivano le candele.
Nel tentativo di scandalizzare la sorella (contrariamente a lui, fervente cattolica), Candiani azzardò che il rito cattolico potesse derivare da quello buddista, ma notò anche come il Giappone fosse in generale indifferente alle questioni religiose, con una morale comune laica e con buone leggi. Il navigatore italiano raccontò poi di quattro quadri del Tempio di Shiba di cui due rappresentavano le battaglie di Gravelotte e di Sedan, (guerra franco-prussiana del 1870 — 1871), un altro l’entrata di Garibaldi a Milazzo e l’ultimo Napoleone III a cavallo; narrando di come i locali guardassero a quelle litografie con fare devoto e raccolto, quasi si fossero trovati davanti all’immagine del Buddha. Candiani descrisse anche alcune delle case da tè di Tokyo, con le loro musmè (giovani ragazze che lavoravano di solito come inservienti), le quali “a gara vengono a servirci il the e l’acqua gelata.”
Sorprendente per gli italiani dovette anche essere il racconto della propria storia personale fattogli dal marchese Date Munenari, uno degli ex gran daimyos. Con l’incarico di ministro degli Esteri a un certo punto si recò in missione in Cina per affari commerciali, dove finì per siglare accordi molto svantaggiosi per il suo paese. Al suo ritorno in patria fu accusato di malversazione e additato come meritevole di hara-kiri (seppuku). Per non sacrificare l’onore della sua numerosa famiglia, l’infelice vestì l’abito bianco rituale e aspettò quindici giorni che il Mikado gli mandasse l’ordine d’aprirsi il ventre cosa che infine non avvenne. Il Mikado era infatti amico intimo di Date e la mancanza di quest’ultimo fu da lui giudicata involontaria.
Come in precedenza riportato, nel palazzo di Hamagoten i banchetti si susseguivano con scadenza regolare. Agli ospiti italiani fu assegnato uno chef francese, ma per lo meno in un’occasione l’Imperatore fece loro dono di un sontuoso pranzo giapponese. Secondo le cronache del tempo il pranzo, “fu quanto di più fine ed elegante può fornire la cucina nazionale. Costò una somma favolosa”. Sembra però che non tutti i commensali furono in grado di apprezzare fino in fondo la raffinatezza e il gusto artistico di quel banchetto, a cominciare dal “poco seducente odore e sapore […] e se solo il cuoco fosse stato più parco nelle erbe aromatiche”.
Vennero serviti trentaquattro piatti, divisi in tre portate ben distinte. Il tutto in vassoi e mobili di lacca, su cui erano sistemati numerosi piattini. Pesci e vegetali, a volte crudi a volte sapientemente cucinati, si alternarono per tutto il pranzo insieme a cacciagione e funghi. Il piatto principale, che lasciò sorpresi gli italiani, comprendeva due enormi carpe servite ancora vive anche al momento di essere mangiate. Scrive Camillo Candiani,
al fine del pranzo i due infelici pesci battevano ancora di tanto in tanto forti colpi di coda sulla tavola, talché io volli perfino accertarmi di non essere un gioco, ispezionando l’interno della povera infelice.
Dolci di vario tipo conclusero il pranzo che fu accompagnato da tre o quattro qualità di sakè.
Di tanto in tanto, tra un evento ufficiale e un incarico di bordo, la missione italiana trovò anche il tempo per alcune visite ad alcuni siti di interesse al di fuori dell’area di Tokyo, tra questi il complesso portuale di Yokosuka, che sarebbe divenuto uno degli arsenali più importanti della Marina imperiale giapponese del XX secolo e quindi i templi e la colossale statua di Buddha a Kamakura.
Per i loro spostamenti non ufficiali gli italiani preferirono i cavalli e i Jinrikisha (jin: umano, riki: forza, sha: veicolo). Camillo Candiani si dilungò nella descrizione di questi leggerissimi veicoli a trazione umana, inventati da un giapponese solamente due anni prima, ma che già venivano usati su scala sorprendente, ipotizzando che probabilmente il loro uso avrebbe finito con l’attecchire anche in Italia. Di essi e dei loro conducenti, egli scrive:
quei poveri infelici che fan da muli destano vera compassione. Ai primi giorni si aveva un vero ribrezzo al farsi trainare così da un nostro simile, ma infine l’uomo vive d’abitudini, poco a poco ci siamo abituati e si è finito per gridare sovente a quei poveri infelici di accelerare la corsa.[…] Un cavallo non potrebbe fare di più.
Il 15 ottobre la missione italiana, guidata da un giovane per quanto riluttante diplomatico principe Tomaso di Savoia-Genova, prese commiato dalla coppia imperiale e dalla sua corte. La pirofregata “Garibaldi” salperà da Yokohama l’1° novembre, diretta alle isole Hawaii e successivamente nelle Americhe…ma questa è un’altra storia che vi racconteremo ancora su Rivista Savej.
👍 Per la pubblicazione del testo originale da cui è questo articolo, si ringraziano il dottor Fabrizio Antonielli d’Oulx, l’associazione Vivant e il Centro Studi Piemontesi. Per la collaborazione nell’inquadramento storico del periodo e delle relazioni Italia-Giappone si ringraziano il professor Giulio Antonio Bertelli, dell’Università di Osaka (Giappone) e il dottor Tomaso Ricardi di Netro.