Uscito originariamente nel 1988, Il pendolo di Foucault è il secondo romanzo del semiologo e divulgatore Umberto Eco. Pur non avendo avuto lo stesso, unanime consenso internazionale del suo libro narrativo d’esordio, Il nome della Rosa — opera con cui Eco seppe conquistarsi l’attenzione del pubblico generalista, che già lo conosceva come acuto osservatore della contemporaneità — rimane un capitolo imprescindibile della sua bibliografia, innanzitutto per l’abilità con cui costruisce un mistero che attinge a secoli di teorie massoniche, alchemiche e assimilabili, fino a quelle che oggi definiremmo “complottiste”.
Come sua consuetudine, Eco seppe anticipare a tal punto i tempi da essere avvicinato, una quindicina d’anni dopo, a un altro bestseller internazionale, Il Codice Da Vinci di Dan Brown. Difficile non immaginare il professore alessandrino ridersela sotto i baffi, all’accostamento: affascinato dalle costruzioni pseudonarrative oggi comuni, ai tempi di Internet, era senz’altro altrettanto lontano dal prenderle sul serio.
Il pendolo di Foucault è un volume ponderoso, che innesta la miriade di riferimenti in una trama a più voci — pur se narrata dal punto di vista del protagonista Casaubon — e in cui si può trovare la prima e a oggi più efficace derisione e messa a nudo del meccanismo paradossale dell’editoria a pagamento o “di prestigio”. Un castello narrativo talmente fitto da nascondere, tra le pieghe, anche un frammento autobiografico, proveniente dall’infanzia dello scrittore medesimo, che tira in ballo indirettamente un’area del Piemonte, che non è però la città di Alessandria che vide Umberto bambino e in seguito studente. Un mistero che merita di essere dipanato pian piano, come nelle migliori narrazioni. E che ha per chiave una parola: “bricco”.
***era ancora il paesotto che Belbo aveva conosciuto durante la guerra. Poche case nuove, ci disse, agricoltura in declino, perché i giovani si erano spostati in città. Ci mostrò certe colline, ora a pascolo, che un tempo erano state gialle di frumento. Il paese appariva all’improvviso dopo una svolta, ai piedi di un colle, dove stava la casa di Belbo. Il colle era basso e lasciava intravedere dietro la distesa monferrina, coperta di una leggera foschia luminosa. Mentre salivamo Belbo ci mostrò una collinetta di fronte, quasi calva, e sul culmine una cappella, fiancheggiata da due pini. “Il Bricco”, disse. Poi aggiunse: “Non fa nulla se non vi dice nulla. Ci si andava a fare il merendino dell’Angelo, il lunedì di Pasqua. Ora in macchina ci si arriva in cinque minuti, ma allora ci si andava a piedi, ed era un pellegrinaggio”.
Siamo alle soglie di pagina 400 del romanzo, quando Casaubon e gli altri personaggi si uniscono a Jacopo Belbo nel raggiungere la casa di campagna di quest’ultimo, nel pieno delle ricerche che li vedranno, in seguito, percorrere poi altri chilometri per ulteriori incontri. Con un espediente da romanzo d’appendice, che ritroviamo però anche nel Manzoni de I Promessi Sposi, l’autore nasconde il nome della località dietro ai tre asterischi. Ci rimane così la descrizione del paesaggio come indizio principale su quale sia l’ispirazione reale.
C’è poco su cui lavorare, nella prima parte, a eccezione dell’annotazione sociologica sull’abbandono delle campagne da parte dei più giovani; un appunto, tra l’altro, che colloca fortemente il libro negli anni in cui è stato scritto, essendo in parte le stesse condizioni mutate dal recente boom del comparto enogastronomico. Ma anche in questa luce, potrebbe trattarsi di una qualsiasi località collinare al di fuori dai grandi centri urbani, al Nord così come al centro Italia.
Dopodiché, nella seconda parte del racconto, c’imbattiamo della rivelatoria parola “bricco”. Dice la Treccani:
bricco2 s. m. (pl. -chi). — Adattamento ital. del region. bric2: “gli altri ragazzi si chiamavano, da bricco a bricco, con grida selvagge” (Fenoglio); “fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato” (Pavese).
Dunque, per ragioni etimologiche, la campagna descritta si trova in Piemonte. La biografia di Umberto Eco, nato ad Alessandria nel 1932, non va considerata rilevante, in questa fase: la finzione narrativa potrebbe essere stata ambientata, volutamente, in un territorio lontano dalle terre d’origine dello scrittore. Ma se le colline si trovano ovunque, sono solo quelle piemontesi a poter essere giustamente definite “bricchi”.
Ancora, però, non abbiamo ristretto il campo a sufficienza. Potremmo trovarci in qualsiasi punto della regione, con una maggiore probabilità per la parte meridionale, prevalentemente collinare. È la maiuscola nel “bricco” descritto, così come la natura dello stesso luogo attraverso le parole dello scrittore, a offrirci un ulteriore appiglio. Se è un Bricco, gli abitanti della zona lo conoscono come tale.
Una collinetta di fronte, quasi calva, e sul culmine una cappella, fiancheggiata da due pini.
Corrisponde a questa descrizione la Chiesetta della Madonna della Neve, nella borgata Bricco Cremosina di Nizza Monferrato, nel sud della provincia di Asti. Gli alberi, nel corso del tempo, sono anche stati più di due; inoltre si tratta di cipressi, non di pini. Ma quanto a riconoscibilità, siamo molto vicini alla descrizione di Umberto Eco. Se ancora abbiamo dubbi sull’aver individuato il luogo esatto, una seconda descrizione alcune pagine dopo, quando i protagonisti si sono sistemati a lavorare su una terrazza della casa di campagna di Jacopo Belbo, viene in nostro aiuto.
Dalla terrazza si vedeva il Bricco, e sotto la collinetta del Bricco una grande costruzione disadorna, con un cortile e un campo di calcio. Il tutto abitato da figurine variopinte, bambini, mi parve. Belbo vi accennò una prima volta: “È l’oratorio salesiano. E lì che don Tico mi ha insegnato a suonare. In banda.”
La celebre frase attribuita ad Agatha Christie parla di tre indizi in grado, se riuniti, di formare una prova. La somiglianza della collina del Bricco Cremosina, a Nizza Monferrato, con il “Bricco” descritto nel racconto potrebbe essere la prima. La cittadina del sud astigiano fu edificata sulle sponde del torrente Belbo, affluente del Tanaro: si chiama Belbo, nella finzione narrativa, il proprietario della casa di campagna, che sia questo il secondo indizio?
Il terzo, bello evidente, è presente nel paragrafo che abbiamo appena riportato. A Nizza Monferrato esiste a tutti gli effetti un oratorio salesiano, intitolato a don Giovanni Bosco e potenzialmente visibile dalla stessa terrazza da cui si vede il Bricco, purché l’estensione panoramica sia sufficientemente ampia. I documenti lo riportano come già punto di ritrovo negli ultimi anni del diciannovesimo secolo, sebbene l’inaugurazione del primo edificio nell’attuale sede, posteriore a una tragica alluvione, è del 1907. Seguirono, negli anni, svariati ampliamenti.
Tra i contemporanei, a Nizza Monferrato, la memoria dell’Oratorio Don Bosco è associata alla figura di don Giuseppe Celi, sacerdote originario del padovano che ne fu direttore dal 1941 al 1985 (sarebbe scomparso un decennio dopo). Anche il campo sportivo di cui fa menzione il testo esiste, e fu portato alla forma attuale negli anni Sessanta, per volere del direttore medesimo. L’assonanza tra don Celi e don Tico è piuttosto sospetta, perciò non possiamo fare altro che proseguire la lettura del racconto nel racconto, quello di Jacopo Belbo.
“Don Tico. Non ho mai saputo se fosse un soprannome o il suo cognome. Non sono più tornato all’oratorio. Ci ero capitato per caso: la messa, il catechismo, tanti giochi, e si vinceva un’immaginetta del Beato Domenico Savio, quell’adolescente con i pantaloni spiegazzati di panno ruvido, che nelle statue sta sempre attaccato alla sottana di don Bosco, con gli occhi al cielo, per non sentire i compagni che raccontano le barzellette oscene. Scoprii che don Tico aveva messo insieme una banda musicale, tutta di ragazzi tra i dieci e i quattordici anni. I più piccoli suonavano clarini, ottavini, sassofoni soprani, i più grandi sopportavano il bombardino e la grancassa. Erano in divisa, giubbotto cachi e pantaloni blu, con berretto a visiera. Un sogno, e volli essere dei loro. Don Tico disse che gli serviva un genis.”
Ci squadrò con superiorità e recitò: “Genis nel gergo bandistico è una specie di tromboncino piccolo che in realtà si chiama flicorno contralto in mi bemolle. È lo strumento più stupido di tutta la banda. Fa umpaumpa-umpa-umpap quando la marcia è in levare, e dopo il parapapà-papa-pa-paaa passa in battere e fa pa-pa-pa-pa-pa… Però s’impara facilmente, appartiene alla famiglia degli ottoni come la tromba e la sua meccanica non è diversa da quella della tromba. La tromba richiede più fiato e una buona imboccatura — sapete, quella specie di callo circolare che si forma sulle labbra, come Armstrong. Con una buona imboccatura risparmi il fiato e il suono esce limpido e pulito, senza che si senta il soffio — d’altra parte non si debbono gonfiare le gote, guai, accade solo nella finzione e nelle caricature.”
“Ma la tromba?”
“La tromba la imparavo da solo, in quei pomeriggi d’estate in cui in oratorio non c’era nessuno, e io mi nascondevo nella platea del teatrino… Ma studiavo la tromba per ragioni erotiche. Vedete quella villetta laggiù, a un chilometro dall’oratorio? Li abitava Cecilia, figlia della benefattrice dei salesiani. Così ogni volta che la banda si esibiva, nelle feste comandate, dopo la processione, nel cortile dell’oratorio e soprattutto in teatro, prima delle recite della filodrammatica, Cecilia con la mamma era sempre in prima fila al posto d’onore, vicino al prevosto della cattedrale. E in quei casi la banda iniziava con una marcia che si chiamava Buon Principio, e la marcia era aperta dalle trombe, le trombe in si bemolle, d’oro e d’argento, ben lucidate per l’occasione. Le trombe si alzavano in piedi e facevano un assolo. Poi si sedevano e la banda attaccava. Suonare la tromba era l’unico modo per farmi notare da Cecilia.”
Sono stati necessari alcuni anni perché Umberto Eco lo ammettesse pubblicamente, ma l’episodio attribuito al personaggio di Jacopo Belbo è, in realtà, accaduto realmente, facendo parte della sua storia personale.
È a questo punto dell’indagine che le note biografiche diventano fondamentali: il giovanissimo Umberto, come molti coetanei, durante la guerra si trasferì da Alessandria a Nizza Monferrato, dove aveva alcuni parenti. Entrò effettivamente a far parte della banda musicale di don Celi — il sacerdote, in seguito, avrebbe ammesso di ricordarsi di lui — e qui puntava allo strumento solista proprio allo scopo di farsi notare da una bambina che gli piaceva. Più avanti, nel testo, la vicenda prosegue senza tralasciare le ironie dell’adulto a posteriori:
“Primo, io avevo tredici anni e lei tredici e mezzo, e una ragazza a tredici e mezzo è una donna, e un ragazzo un moccioso. E poi amava un sassofono contralto, un tal Papi (…). Ma insomma, se fossi passato alla tromba Cecilia non avrebbe potuto ignorarmi, io in piedi, sfavillante, e il miserabile sassofono seduto. (…) E io studiavo la tromba, come un pazzo, sino a che non mi sono presentato a don Tico e gli ho detto mi ascolti, ed ero come Oscar Levant quando fa il primo provino a Broadway con Gene Kelly. E don Tico disse: tu sei una tromba. Ma…”
“Com’è drammatico,” disse Lorenza, “racconta, non farci stare col fiato in sospeso.”
“Ma dovevo trovare qualcuno che mi sostituisse al genis. Arrangiati, aveva detto don Tico. E io mi sono arrangiato.”
Nizza Monferrato oggi. A sinistra il Palazzo comunale con la sua torre civica e a destra la piazza del comune.
Il racconto di Belbo/Eco prosegue lungo le traversie per convincere due scapestrati coetanei a suonare il genis al posto suo. Fino all’occasione per l’esibizione tanto attesa:
“Venne il giorno che potei presentare a don Tico due genis, non dirò perfetti ma, almeno alla prima prova, preparata lungo pomeriggi insonni, accettabili. Don Tico si era convinto, li aveva rivestiti della divisa, e mi aveva passato alla tromba. E nel giro di una settimana, alla festa di Maria Ausiliatrice, all’apertura della stagione teatrale con Il piccolo parigino, a sipario chiuso, davanti alle autorità, io ero in piedi, a suonare l’inizio di Buon Principio.”
“Oh splendore,” disse Lorenza, con il viso ostentatamente soffuso di tenera gelosia. “E Cecilia?”
“Non c’era. Forse era malata. Che so? Non c’era.”
Il racconto del genis è il più corposo di una serie di aneddoti, provenienti dall’infanzia di Eco, inseriti all’interno de Il pendolo di Foucault. Lo integrano elementi legati alla Resistenza vista dagli occhi di un giovanissimo — la zona di Nizza Monferrato fu teatro di molte cruciali battaglie — nonché un secondo episodio, legato all’improvvisa occasione, per il piccolo Umberto, di suonare la tromba a un funerale.
Sebbene la notorietà del romanzo continui a essere soprattutto legata ai suoi intrighi misteriosi, con gli anni l’affetto espresso da Nizza Monferrato e i suoi abitanti nei confronti dell’amico Umberto Eco è andato crescendo. È del 1998, edito dalla storica associazione Accademia di Cultura Nicese “L’Èrca”, la pubblicazione del volume Gente e paesaggi nicesi dal “Pendolo di Foucault” di Umberto Eco. Nato da un’idea di Carlo Nosenzo, con copertina e disegni di Manlio Isoardi e realizzazione grafica di Ugo Morino, raccoglie in formato di pregio tutti i momenti del romanzo ambientati a Nizza Monferrato.
Nel 2006, è poi una passeggiata culturale estiva organizzata dalla Pro Loco di Nizza Monferrato, proseguita con successo attraverso gli anni, a prendere le mosse proprio dalle pagine nicesi de Il pendolo di Foucault. L’allora vice presidente Maurizio Martino scova, nelle ultime pagine del volume, l’espressione “Lungo le falde del Bricco” e decide di trasformarla in un efficace titolo per l’iniziativa.
Pur essendosi nel frattempo trasferito a Milano, nonché spesso in giro per il mondo per convegni ed eventi, Umberto Eco ritornò a Nizza Monferrato nel 2010, all’inizio dell’anno all’Istituto Nostra Signora delle Grazie, per un convegno su don Giuseppe Celi, e a novembre, per ricevere la cittadinanza onoraria dal sindaco Pietro Lovisolo e dall’assessore, suo coetaneo e compagno di giochi da bambino, Pietro Balestrino. Alla cerimonia ufficiale nell’affollatissimo Foro Boario di piazza Garibaldi, il docente disse alcune parole di circostanza per poi rileggere, con una certa partecipazione, i passaggi salienti delle sue memorie nicesi immortalate nel romanzo.
Alla scomparsa nel 2016, è stata nuovamente l’Accademia di Cultura Nicese “L’Èrca” ad attribuire a Umberto Eco un premio Èrca d’Argento alla memoria, ritirato da un vecchio amico, il fisarmonicista Gianni Coscia, con cui condivise gli anni del ginnasio di Alessandria.
È noto come, tra le ultime volontà, il professore alessandrino abbia manifestato la contrarietà a convegni e lavori di studio sulla sua opera. Inaugurata nella nuova sede poco dopo la sua scomparsa, la Biblioteca Civica di Nizza Monferrato oggi porta il suo nome; e forse essere complice della locale “casa dei libri”, dopotutto, non gli sarebbe dispiaciuto.