Illustrazione tratta dal poster del film “Filibus” del 1915.
Definirlo poliedrico potrebbe persino apparire riduttivo, perché Giovanni Bertinetti seppe operare in così tanti versanti culturali e per di più utilizzando così tante maschere, anche straniere e anche femminili, calandosi perfettamente nei vari ruoli, da far pensare davvero che fossero in azione numerose persone, tutte competenti e tutte completamente diverse tra loro. Forse è più corretto definirlo geniale nell’accezione più ampia del termine, ossia persona che ha genio da vendere e che va a genio a tutti.
È stato scrittore onnisciente, saggista, poeta, romanziere, novellista, ghost writer, giornalista, fondatore e direttore di riviste letterarie, prolifico soggettista cinematografico, regista, direttore di case cinematografiche, filosofo, vaudevilliste di successo, dicitore radiofonico, bohèmien…
Un perenne bohèmien, in realtà, perché non fu mai ricco.
Alcuni titoli dei romanzi di Giovanni Bertinetti.
In un articolo pubblicato su La Gazzetta del Popolo il 7 luglio 1957, sette anni dopo la sua morte, si legge di ben undici figli nati dal suo matrimonio, di cui soltanto due ancora vivi in quell’anno: la figlia Assunta, che aveva allora 58 anni, e Giovanni junior, nato nel 1903 ed emigrato nell’America del Sud.
Ha scritto l’articolista, in visita a Borgaretto, frazione del comune di Beinasco:
La figlia dello scrittore sa che il padre, ormai, è stato dimenticato; sa che nessuno si accosta alla sua tomba nel piccolo cimitero in mezzo ai campi di camomilla: una croce di legno nella nuda terra. Tuttavia dice alla madre: “Coraggio ‘pasarot’. Vuoi che abbandonino così la moglie di Giovanni Bertinetti?”. La vecchia si rianima. Ha sposato un uomo che non aveva i piedi sulla terra: quando andava a dire a Giovanni che non aveva niente da mettere in pentola, lui, asserragliato in un bugigattolo che era stato una stalla, la pregava di avere pazienza, doveva ancora sistemare un paio di personaggi […]. Lui se ne partiva a piedi tutti i giorni diretto a Torino, in compagnia dei suoi personaggi, e lei restava sola con bocche affamate di bimbi. Ma di quella vita misera lui non aveva colpa: aveva sempre lavorato, tutti i giorni a scrivere nella stalla, o su un tavolino del Caffè degli Artisti, in via Po. Non sapeva vendere la sua merce perché non aveva i piedi sulla terra, ecco tutto.
C’è da augurarsi che un giorno Giovanni Bertinetti trovi meritevole attenzione, anche biografica, perché di rado un’esistenza artistica e umana interessante e per qualche verso importante come la sua, è caduta così a torto e così in fretta nel dimenticatoio. Il fatto è che, come si suole dire, non aveva santi in paradiso, anche perché era un orso solitario.
Nato a Torino il 22 febbraio 1872 da Giuseppe e da Maria Martinetti, è mancato a Borgaretto, a circa cinque chilometri dal capoluogo piemontese, il 28 ottobre 1950.
E resta l’imbarazzo di scegliere da dove iniziare la disamina delle sue attività.
Si potrebbe cominciare, non per ordine d’importanza bensì per via della notorietà che ha ottenuto negli ultimi decenni il suo ruolo di ghost writer salgariano, con i diciassette romanzi (o diciotto, secondo altre fonti) che scrisse tra il 1928 e il 1945 senza comparire.
Già è noto che dopo la morte di Emilio Salgari, avvenuta nel 1911, si avvertì l’esigenza di proseguirne l’opera prematuramente interrotta utilizzando le trame che aveva lasciato e, in ogni caso, riproponendo il magico cognome “Salgari”. Ed è noto che a questo scopo furono impegnati alcuni scrittori che, “nascosti” per contratto, realizzarono romanzi destinati spesso a notevole successo. Suoi sono appunto, tra gli altri, Il fantasma di Sandokan (1928), Le ultime avventure di Sandokan (1928), Sandokan nel labirinto infernale (1929), Lo schiavo del Madagascar (1929) e Lo scotennatore (1931), iniziato, quest’ultimo (come altri) da Paolo Lorenzini, noto come Collodi Nipote, e poi affidato a Bertinetti per la sua maggior abilità nel far rivivere il mondo di Salgari, sia pure con molti limiti.
Due tra i vari romanzi postumi di Emilio Salgari, scritti in realtà da Giovanni Bertinetti.
Sicuramente merita di essere tramandato ai posteri per il suo Le orecchie di Meo, pubblicato nel 1908 da Lattes di Torino. Giudicato il suo capolavoro narrativo, ha entusiasmato, tra gli altri, Umberto Eco e Norberto Bobbio quand’erano fanciulli ed è stato considerato a lungo l’ideale cugino letterario di Pinocchio.
Ha scritto Eco nel 1989:
Ne ho ancora la prima edizione rilegata come un libro mastro: le pagine sono ormai periclitanti, manca il frontespizio, questo libro l’ho consumato con gli occhi. Bertinetti […] un giorno raccontò le avventure di questo bambino svogliato a cui, invece di crescere il naso, crescevano le orecchie asinine di incredibile lunghezza, tanto che doveva annodarle a crocchia sul capo e coprirle con un fazzoletto da pirata. Mostruoso come era, veniva inseguito per terra e per mare dal Re dei Mostri, una sorta di Barnum che voleva mostrarlo a tutta l’America, e fuggiasco lontano dal babbo piangente e da una deliziosa fanciulla i cui capelli erano fili d’oro e la boccuccia odorava, passa nel paese dei Bugiardi (dalle gambe corte) a quello degli Inventori (dalla capa tanta).
Illustrato magnificamente da Attilio Mussino, il libro, più volte ristampato e poi riproposto dall’editore Viglongo nel 1945 e nel 1988, ebbe due fortunati seguiti: I pugni di Meo (Lattes, 1933) e Meo nei sette paesi delle meraviglie (Marietti, 1938), per non dire di iniziative sfumate o inedite.
La formula consistente nel dare vita alle metafore lo spinse ad altre fortunate realizzazioni nell’ambito della letteratura per la gioventù: da ricordare Zozò, il furfantello trasformato in scimmiotto (1935), che ha per protagonista un fanciullo di dieci anni che si diverte a scimmiottare gli altri, finché non riceve una punizione esemplare, e Fumettino, storia di un ragazzo di fumo (1938), che vede in azione un ragazzo che non realizza nulla di buono (“tutto fumo”) perché nato dal fumo di una pentola. Va detto che tutti, Meo, Zozò e Fumettino torneranno normali, dopo tante disavventure, grazie a ogni sforzo di buona volontà per migliorare sé stessi.
La volontà era per Bertinetti una vera e propria ricetta di vita con risvolti filosofici ed è da credere che se ne avvalse durante tutta la vita per affrontare le avversità. Per divulgare questa sua fondamentale norma esistenziale s’inventò addirittura una nuova identità e poiché intendeva utilizzare note teorie filosofiche del tempo, enunciate tra gli altri da Henry-Louis Bergson e da Maurice Blondel, ossia due stranieri, decise di diventare il filosofo americano Ellick Morn e con questo pseudonimo pubblicò Il mondo è tuo (Lattes, 1907), un manuale per ottenere successo in ogni ambito della vita.
Ha ricordato Gigi Michelotti:
I suoi trattati di psicologia sulla volontà e sul modo di imporsi nella vita e negli affari, comparsi con la firma Ellick Morn, ebbero fortuna ed estimazione: come scritti da un autentico americano. Giovanni Papini additò Ellick Morn come modello ai giovani; un deputato di cui non ricordo il nome, elogiò le sue teorie in Parlamento. Un successo: che a qualunque altro avrebbe dato alla testa, non a lui che ne trovò uno stimolo alla vita solitaria.
Con lo stesso pseudonimo e gli stessi intendimenti pubblicò Sorgi e cammina (1909), Alla conquista dell’energia (1911), Il nuovo mondo è tuo (1922) e Sei tu radioattivo? (1934). Alcuni di questi manuali furono tradotti in Francia come tradotti dall’inglese, anche se già nel dicembre 1918 Bertinetti aveva deciso di attribuirsi lo pseudonimo sulle pagine della rivista torinese La Vita Cinematografica.
Collaborava dunque ad una prestigiosa rivista di cinema?
In realtà figurava tra i protagonisti della cinematografia torinese, proprio mentre Torino era la capitale indiscussa del cinema italiano. E, per non dare l’idea di strafare, era addirittura direttore di case cinematografiche con lo pseudonimo Orazio d’Elena.
Come soggettista aveva dato impulso notevole alla Corona Film, ideando la serie Philibus, basata sulle peripezie di un bandito munito di dirigibile, e aveva scritto la sceneggiatura di film avventurosi e polizieschi, nel biennio 1914–1915, come La scure degli Stuart, Il delitto del lago, Il castello del ragno e molti altri. Fu anche soggettista alla Latina Ars e presso la Pasquali Film, dove l’attore acrobata di eccezionali doti fisiche Francesco Vespignani, noto con lo pseudonimo Luciano Albertini, si era prodigato in ruoli atletici impersonando anche Sansone in un film di successo internazionale. Fu così che Bertinetti fondò la Albertini Film, dal nome d’arte dell’attore, allo scopo di sfruttare in pieno le doti di un personaggio che incarnava il mito della forza e della volontà. Correva l’anno 1919.
L’avventura della nuova casa cinematografica durò tre anni con la produzione di oltre venti film divisi in tre serie: quello di Sansonia (nome ideato da Bertinetti e assegnato ad Albertini); quella di Sansonette (idem, assegnato a Linda Albertini, pseudonimo di attrice sconosciuta spacciata come moglie di Vespignani-Albertini-Sansonia) e infine la serie Lilliput, con i bambini Arnold e Patata, gabellati come figli della coppia Albertini.
Fu un successo vertiginoso, alimentato anche dall’abile trovata pubblicitaria di Bertinetti che si era inventato una famiglia artistica giocando con pseudonimi e fantasie. Ma le sregolatezze di Vespignani portarono alla cessazione della bella trovata. L’attore, idolo delle donne, lavorò poi a lungo in Germania, per finire i suoi giorni in manicomio a Bologna, alcolizzato, solo e dimenticato da tutti.
Come riuscisse Bertinetti a conciliare le sue varie attività resta un mistero e dalle date che man mano scriviamo, tenendo separate tali attività per una più agevole esposizione, si vede come esse si intrecciassero senza soluzione di continuità.
Vero è che effettuò qualche tentativo di coniugare, ad esempio, il mondo letterario con quello cinematografico. Dapprima con il tentativo, peraltro fallito, di realizzare un film da Le orecchie di Meo, e poi con il romanzo per ragazzi di genere fantascientifico Il gigante dell’Apocalisse (Lattes, 1930), dove si legge, fra l’altro, un dialogo tra esponenti di una compagnia hollywoodiana dove risalta la figura di un romanziere e sceneggiatore intento a dissertare di fotogenia e di belle attrici. Il suo nome è Marcus Alliston.
Anche Bertinetti, insomma, inserì sé stesso nella propria opera e questo personaggio costituisce l’esempio più significativo, anche perché Marcus Alliston è un altro dei suoi innumerevoli pseudonimi. Lo aveva usato molti anni prima per firmare uno strepitoso romanzo a puntate, intitolato La vita è un sogno, pubblicato sulla rivista torinese Forum, dove compare — in un rutilante susseguirsi di avventure ai confini con l’irreale — un ammalato di “nostalgia dell’irrevocabile”, che si innamora di donne bellissime, però morte da secoli! Purtroppo questo romanzo, chissà perché, non è mai stato pubblicato anche in volume, come altri già apparsi a puntate su Forum.
Cos’era Forum? Era un settimanale di arte, lettere, scienze, industrie, commerci e sport, di proprietà di Carlo Giaccone, fondato e diretto dallo stesso Bertinetti nel 1901 e durato sino al 1905. Ricco di prestigiose collaborazioni (ricordiamo Carlo Dadone, Mario Vugliano, Augusto Piccioni), diede modo al poliedrico direttore di sfogare e sfoggiare la propria bulimia intellettuale, usando un numero incredibile di pseudonimi per trattare praticamente ogni argomento dello scibile senza inflazionare il proprio nome sulle stesse pagine.
E così Bertinetti fu di volta in volta lo scrittore di racconti polizieschi Herbert Bennet, oppure Ettore Napione, tuttologo, oppure Zio Tom, autore di favole, e poi Relater, Speker (pseudonimo con il quale firmò, tra l’altro, una memorabile intervista a Carolina Invernizio), Lady, Dottor Ics, Blick, Reader e molti altri, titolari di altrettante rubriche del giornale.
E fu Donna Clara, esperta di cucina, di faccende domestiche e di mille altre cose riferite al mondo femminile. Con quello pseudonimo pubblicò poi un libro diventato famoso, Dalla cucina al salotto (Tip. Bona, 1905), subito ristampato da Lattes (1906) e poi ripubblicato numerose volte sino ad ottenere nel 1927 una nuova edizione ampliata da Lidia Morelli.
Alcune pagine interne del volume “Dalla cucina al salotto” del 1905.
Il successo fu tale che Donna Clara ricomparve in numerosi altri manuali editi da Lattes tra il 1907 e gli anni Trenta: Eleganza femminile, Guerra alle rughe, La medicina in casa, L’arte di arredare la casa . I cento segreti della bellezza, La cuoca medichessa, Il libro intimissimo della donna, alcuni dei quali firmati con il doppio pseudonimo “Donna Clara ed Ettore Napione”, tanto per essere più convincente! Probabilmente si divertì un mondo. Anche quando si firmò Baronessa d’Orchamps pubblicando I segreti della donna (1911).
Merita di essere ricordato, il poliedrico Bertinetti, anche per romanzi divertenti quali Il rotoplano 3 bis (Lattes, 1910), Ipergenio il disinventore (Lattes, 1932) e L’allegro cacciatore (Lattes, 1935). Da non dimenticare, infine, la sua attività di commediografo, anche dialettale, spesso acclamata a gran voce al Teatro Rossini.
Un giorno, forse, si riterrà interessante investigare anche sull’uomo Bertinetti, e non solo sull’artista. Al riguardo ci rimane una testimonianza del già citato Gigi Michelotti:
Si sarebbe detto che il mondo non lo interessasse; che tutto ciò che entro vi accadeva, di bello e di brutto, non lo riguardasse; che avesse così poca stima negli uomini che il loro agitarsi e battagliare non lo toccasse: e niente gli sfuggiva di ciò che nel mondo accadeva di sorprendente. […] A me è sempre apparso come uno di quei mulini a vento sensibili a ogni muover di fronda. Un niente era sufficiente ad accendere la sua fantasia, che accesa spaziava. Ma poiché sapeva di non avere capacità di resistenza, amava chiudere nel giro di ventiquattr’ore, o di pochi giorni, ogni sua fatica. E quante belle cose avremmo potuto avere da lui che sono andate disperse. Oggi, che non è più, ne sentiamo vivo il rimpianto.