Illustrazione © Giuseppe Conti
Piemonte e Inghilterra. Benché apparentemente distanti, esistono in realtà diverse affinità tra queste due entità politico-territoriali. Per molti, ad accomunare Inghilterra e Piemonte è innanzitutto una lunga tradizione militare, risalente, per il Piemonte, all’epoca Savoia, quando, durante il Risorgimento, il Regno di Sardegna era soprannominato la Prussia d’Italia proprio in virtù della sua vocazione marziale. C’è poi un certo gusto per l’ordine e la disciplina che lega piemontesi e inglesi, senza parlare della condivisa propensione industriale. Pochi però si sono dedicati alle meno lampanti interrelazioni linguistiche e letterarie. È vero che, specie negli ultimi tempi, si tratta perlopiù di influenze unidirezionali (cioè provenienti dall’Inghilterra verso il Piemonte), e che le analogie linguistiche tra inglese e italiano (o piemontese) non sono paragonabili a quelle intercorrenti tra francese e italiano; eppure, da secoli un sottile fil rouge, a tratti quasi invisibile, a tratti più evidente, corre attraverso le Alpi in direzione della Manica, avvicinando intellettuali, romanzieri e linguisti piemontesi e inglesi.
Il primo, o certamente uno dei primi piemontesi, a stabilire importanti contatti con l’Inghilterra fu Giuseppe Baretti. Critico letterario, anima inquieta dal vivace e acuto spirito polemico, Baretti fu un cervello in fuga ante litteram, o un emigrante “disperataccio”, come amava definirsi lui stesso. Non riuscendo a trovare la propria collocazione professionale in Italia, dopo un primo trasferimento oltremanica, durato dal 1751 al 1760, nel 1766 decise di stabilirsi definitivamente a Londra. Anzi, fu praticamente costretto ad abbandonare l’Italia, visto che da noi non poteva più sperare di ottenere la libertà intellettuale necessaria (la rivista da lui fondata e diretta, la Frusta letteraria, fu censurata dal governo veneziano dopo soli due anni) né uno stipendio affidabile. Malgrado le iniziali difficoltà di adattamento, il contatto col mondo inglese rivoluzionò l’esistenza di Baretti. Naturalmente non si trattò dell’unico italiano a soggiornare in Inghilterra nel Settecento, dal momento che altri intellettuali coevi fecero altrettanto, come Francesco Scipione Maffei, Alessandro Verri e Francesco Algarotti; tuttavia, egli dimostrò di conoscere meglio di chiunque altro la società e la lingua inglese del tempo.
Baretti, in tutto, trascorse quasi trent’anni a Londra, dove lavorò come poeta dell’Opera Italiana, insegnante di italiano, segretario della Royal Academy of Arts e saggista. Non tutto in Inghilterra si rivelò così virtuoso come poteva apparire dall’Italia. Baretti considerava il sistema politico inglese, così ammirato in tutta Europa, né migliore né particolarmente peggiore di altri, mentre Londra, agli occhi del piemontese, accanto alla ricchezza, alle bellezze architettoniche e alle opportunità offerte, esibiva anche il peggio della società umana: miseria, sfruttamento, prostituzione e delinquenza. Eppure, dopo dieci anni di soggiorno oltremanica, Baretti ammise che:
Ad onta di tutti i vizi e di tutti i mali che regnano nella lor isola, la loro isola è tuttavia il miglior paese senza paragone che oggi sia nel mondo.
Appena giunto nella capitale britannica, Baretti realizzò immediatamente la necessità di apprendere, e anche in fretta, la lingua inglese, così da poter trovare lavoro e comprendere il mondo intorno a sé, soprattutto quello dei salotti buoni della società londinese, che erano poi quelli che interessavano a Baretti. La padronanza linguistica era dunque, allora come oggi, fondamentale per un forestiero in cerca di fortuna, e principalmente l’apprendimento della varietà orale della lingua, poiché è proprio la conversazione il vero banco di prova in base al quale gli inglesi giudicano le persone. Nel Settecento erano pochi, pochissimi probabilmente, gli italiani in grado di comprendere ed esprimersi correttamente in inglese, e Baretti diventò uno di questi, tanto che già nel 1754 asseriva di conoscere l’inglese “tanto quanto l’italiano”.
La riflessione linguistica è centrale in gran parte della produzione barettiana. Tra i suoi lavori, il più fortunato è senza dubbio An Account of the Manners and Customs of Italy, con il quale l’autore spiega ai lettori anglofoni, sulla scorta di un’esperienza solida, maturata sul campo e non frutto di viaggi sporadici nel bel paese, come pensano e vivono gli italiani. Anche l’Introduction to the Italian Language era a uso pressoché esclusivo degli inglesi, mentre nel 1760 Baretti diede alle stampe il suo Dictionary of the English and Italian Language, il quale poteva contare sull’aggiunta di diecimila vocaboli rispetto al dizionario di Ferdinando Altieri fino ad allora in uso, e conteneva anche una grammatica inglese per gli italiani e un’altra italiana per gli inglesi.
Tuttavia, per la lungimiranza delle vedute espresse, vale la pena ricordare quanto scrisse nel 1764 (quindi due anni prima del suo trasferimento definitivo a Londra) sul numero 24 della Frusta letteraria:
Oh che bella cosa, se mi venisse fatto di svegliare in qualche nostro scrittore la voglia di sapere bene anche la lingua inglese! Allora sì, che si potrebbono sperare de’ pasticci sempre più maravigliosi di vocaboli e di modi nostrani e stranieri ne’ moderni libri d’Italia! E quanto non crescerebbono questi libri di pregio, se oltre a que’ tanti francesismi di cui già riboccano, contenessero anche qualche dozzina d’anglicismi in ogni pagina.
Sebbene nei fatti impiegò pochi anglicismi nei propri scritti, si può però affermare che Baretti fu l’iniziatore di una linea multilingue che avrebbe nel corso del tempo accomunato diversi scrittori piemontesi, tra cui Pavese, i vercellesi Faldella e Cagna, e Primo Levi. Lo scopo di Baretti era, per dirlo con Marazzini, quello di accogliere nel proprio idioletto diverse influenze linguistiche per “costruire soluzioni stilistiche inedite”, e facendo “valere la dismisura di un eccesso” nel tentativo di ottenere una lingua, sì, sperimentale, ma che suonasse più naturale e antiaccademica possibile.
Si sarebbero dovuti attendere circa duecento anni per vedere compiutamente realizzati quei “pasticci maravigliosi” auspicati da Baretti. Beppe Fenoglio riuscì per primo a mescolare la lingua italiana e quella inglese in maniera così originale da dar vita ad un nuovo linguaggio letterario, un personalissimo codice che lo studioso Eduardo Saccone argutamente battezzò “fenglese”. Anche per Fenoglio, come per Baretti, l’incontro con l’Inghilterra si rivelò rivoluzionario. Fu però un incontro destinato a realizzarsi soltanto sul piano ideale e letterario. Tuttavia, come testimonia l’insegnante di inglese di Fenoglio al liceo, questo amore durò per tutta la vita: dalla seconda ginnasio, l’interesse continuò ben oltre la quinta (quando lo studio della materia cessava di essere parte del programma di insegnamento), per concludersi nel 1961, cioè “fino a un anno e qualche mese prima della morte”.
Tra le altre testimonianze di questo rapporto immateriale, eppure vivissimo, c’è quella di Pietro Chiodi, docente di filosofia, scrittore e studioso di Heidegger. Chiodi conferma la passione autentica di Fenoglio, la quale non si limitava al mondo letterario inglese, ma giungeva a una più elevata sfera morale: egli, fin dagli anni del ginnasio,
si era immerso, come un pesce si immerge nell’acqua, nel mondo della letteratura inglese, nella vita, nel costume, nella lingua, particolarmente dell’Inghilterra elisabettiana e rivoluzionaria: viveva in questo mondo… per cercarvi la propria ‘formazione’, in una lontananza metafisica dallo squallido fascismo provinciale che lo circondava. Più volte mi disse — prosegue Chiodi — che da adolescente aveva spesso sognato di essere un soldato dell’esercito di Cromwell, “con la Bibbia nello zaino ed il fucile a tracolla”.
Non è pertanto un caso se Fenoglio scelse di battezzare “Milton” il protagonista di Una questione privata, proprio come il celebre poeta inglese del Seicento, o se il partigiano Johnny dell’omonimo romanzo, e di Primavera di bellezza, è guidato da principi etici quasi puritani. Quanto allo scrittore albese, l’ammirazione per quel mondo gli permise di evadere dalla chiusura culturale del gretto universo in cui viveva da ragazzo. Una sensazione liberatoria simile a quella provata, qualche tempo prima, da Pavese al momento della “scoperta” dei romanzieri nordamericani, un incontro che, come scrisse lo stesso Pavese:
Aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci.
La formazione culturale e umana del giovane Fenoglio passò dunque attraverso numerose letture, ma anche traduzioni dall’inglese all’italiano, “tirocinio fondamentale per la sua faticosa e sofferta ricerca di lingua e di stile”, come giustamente osserva Mark Pietralunga.
L’opera che forse più di altre toccò la sensibilità dello scrittore fu Wuthering Heights. Il giovane Fenoglio rimase così affascinato dalle vicende ideate da Emily Brontë, e fu così deluso dalla riduzione cinematografica di William Wyler, uscita nelle sale italiane nel 1941, che nel corso degli anni Quaranta si mise al lavoro su un adattamento teatrale per restituire al romanzo quella dimensione fantastica che era stata trascurata dalla pellicola. Il testo della pièce, intitolata La voce nella tempesta, sarebbe rimasto inedito fino al 1974, allorché Einaudi lo diede alle stampe per la prima volta.
Ciò che più conta è che, in Wuthering Heights, Fenoglio individuò alcuni temi che avrebbe successivamente sviluppato in maniera personale. Il più evidente è quello dell’amore triangolare e infelice, che nel romanzo inglese riguarda Heathcliff e Catherine, il cui rapporto sentimentale è interrotto dall’entrata in scena di Edgar Linton. Un simile rapporto a tre è alla base del già menzionato Una questione privata. Qui è Milton a essere innamorato della bella e scontrosa Fulvia, la quale corrisponde all’amore del giovane solo a livello ideale e letterario: a Milton, infatti, la ragazza preferisce l’amico Giorgio, meno sensibile e colto del primo, ma più grazioso e benestante.
Ma il frutto più gustoso, nato dall’innesto tra la pianta italiana e quella inglese, è senz’altro rappresentato dal “fenglese”, evidente soprattutto ne Il partigiano Johnny e, in misura minore, in Primavera di bellezza.
Come altri scrittori piemontesi, anche Fenoglio dubitava delle proprie capacità di utilizzare la lingua italiana correttamente; allo stesso tempo, egli era scettico sulla naturalezza e sulla sinteticità dell’italiano. Per queste ragioni, Fenoglio, in determinate circostanze, preferì ricorrere alla lingua inglese, considerata più malleabile e pragmatica, combinando le sue strutture lessicali, morfologiche e sintattiche con quelle italiane, così da ottenere un idioma ibrido, un linguaggio letterario particolarissimo e innovativo. Non si tratta né di uno stile alto, accademico, né di uno stile dimesso, ma classicheggiante nella sua coerenza, che ben si adatta al tono epico delle avventure di Johnny e degli altri partigiani.
Concorrono a determinare questo stile i numerosi calchi lessicali, come l’aggettivo “impressivo”, dall’inglese impressive, o l’espressione “lavoro d’artificio” derivata da firework; oppure gli equivalenti italiani di experimental e appreciatively, ossia “esperimentale” e “apprezzativamente”. Ci sono poi quei sostantivi dalla veste apparentemente italiana, ottenuti invece grazie all’introduzione dei suffissi –ità ed –ezza, corrispondenti, in genere, alla desinenza inglese –ness, tipica dei tanto ammirati poeti del Seicento. Rientrano in questa categoria “desertità”, modellato sul sostantivo inglese desertness, e “diminutività”, oltre a “sigillatezza” e “direttezza”, derivati rispettivamente da diminutiveness, sealedness e directness. Infine, ma l’elenco sarebbe davvero sterminato, Fenoglio fece ricorso a una serie di espressioni inizianti con i prefissi un- e in-, che in inglese vengono solitamente impiegati per esprimere il significato contrario dell’aggettivo o del verbo che precedono, come in “occhi bassi unvedenti”, “suolo inaiutante” e “nell’insunny del portico”.
Se per Baretti l’inglese su cui misurarsi era principalmente quello della conversazione, il riferimento di Fenoglio era invece l’inglese scritto, anzi letterario, e per di più arcaico. Dobbiamo quindi credere allo scrittore albese allorché, con una sicurezza per lui insolita, si rivolse così a Calvino:
Adesso ti dirò una cosa che tu non crederai: io prima scrivo in inglese e poi traduco in italiano.
Certo, guardare oggi al mondo anglofono come modello ideologico e linguistico non avrebbe certamente la stessa carica innovativa e sovversiva, ma allora contribuì a introdurre un prezioso elemento di distinzione e rinnovamento nella letteratura piemontese. Baretti e Fenoglio sono esempi estremi di quella linea multilingue di scrittori in grado di attingere ad elementi eterogenei e integrarli nella propria poetica. Eppure, nella loro irregolarità, se non addirittura nel loro sentirsi sradicati, nel caso di Baretti, entrambi rappresentano esempi perfetti di intellettuali in grado di volgere lo sguardo verso il centro (rappresentato dai modelli di riferimento culturali e linguistici) senza però cessare di essere periferici, e quindi abbandonare il proprio privilegiato punto di osservazione piemontese.