Sul finire del 1896, in via Po a Torino, nei locali dell’ex Ospizio di Carità, un certo Vittorio Calcina installò il Cinematographe Lumière e diede inizio alle prime proiezioni, le stesse che consentono di fissare al 7 novembre di quell’anno l’inizio della storia del cinema torinese.
Storia lunga e gloriosa, com’è noto, tale da consentire a Torino, per un certo tempo, di essere la capitale del cinema muto italiano. Non a caso, nel 1914, il giornalista Gino Pestelli inventò il termine “Filmopoli” per designare il capoluogo piemontese, che nel 1908, ad esempio, era riuscito a coprire il 65% della produzione cinematografica nazionale. Le cose erano peggiorate con il tempo così che nel 1917 il primato era stato ottenuto da Roma, con il 51% contro il 27% di Torino, che conoscerà la crisi definitiva a partire dal 1922.
Fu così che, nel 1930, quando in Italia ebbe fine il cinema muto, la produzione cinematografica torinese era ormai in nettissimo svantaggio. Ciò non toglie che in quei decenni e in quell’ambito siano sorte a Torino fortune e personalità veramente importanti, coinvolgendo occasionalmente personaggi altrettanto importanti per altri versi. Tra questi Guido Gozzano, che, tra i tanti, piace qui ricordare perché sta per portarci dritti verso il protagonista di queste pagine.
Anno 1916: sui giornali si leggono ogni tanto notizie fasulle che attribuiscono al poeta film altrui. Il motivo è che Gozzano si è impegnato in lavori cinematografici e nascono equivoci. Nell’aprile di quell’anno, tuttavia, lui preferisce smentire e scrive a Silvia Zanardini:
Ha letto il mio nome anche sul “Corriere”! Che buffa montatura per una film [all’epoca il termine era femminile] che io non conosco che per aver presenziato alla lettura e della cui paternità non sono responsabile che per aver complimentato sinceramente il vero e unico autore, il prof. Chiosso.
Chi era costui?
A sinistra: Caricatura di Renzo Chiosso pubblicata il 15 giugno 1913 sulla rivista “La vita cinematografica”. Al centro: Programma di proiezioni al Cinematografo Lumière di via Po 33. A destra: Una scena de “La signora delle camelie” con Francesca Bertini.
Nato il 24 agosto 1877 a Torino, in piazza San Carlo n.1, Lorenzo Luigi Maria Chiosso, noto nel mondo cinematografico e letterario come Renzo Chiosso, era conosciuto anche come funzionario municipale delegato all’assistenza degli istituti cittadini per la tutela della maternità e infanzia, nonché quale insegnante, pubblicista, poeta e autore drammatico.
Fu soprattutto prolifico soggettista per il cinema, non solo a Torino ma anche per la Milano Film e per la Caesar Film di Roma, dove firmò alcuni lavori per la celebre attrice Francesca Bertini, fra cui La signora delle camelie. Nei primi tempi essere soggettista significava, come ha spiegato Aldo Bernardini, lavorare in maniera anonima presso gli Uffici Soggetti esistenti presso le case di produzione più importanti, con l’incarico sia di scrivere un certo numero di testi al mese, sia di ricercare all’esterno dell’azienda spunti e idee, nonché di vagliare le richieste di collaborazione che erano proposte alla casa. É ancora Bernardini a informare che Renzo Chiosso, inserito in quel sistema, nel 1912 aveva scritto in quattro mesi ben sessanta soggetti.
Già l’anno successivo lo stesso Chiosso, in un articolo pubblicato sulla rivista torinese La vita cinematografica di cui era collaboratore assiduo, avanzò istanze precise e motivate per richiedere a favore dei soggettisti, che definì “lavoratori della penna in cinematografia”, una doverosa popolarità, con l’apparizione dei nomi proiettati all’inizio dei film e anche stampati sui manifesti, nelle recensioni e così via. Richiesta tutt’altro che campata in aria, poiché — ma oggi il discorso è superato da moltissimo tempo — il soggetto è la “materia prima” fondamentale di ogni lavoro cinematografico. Non a caso, nel 1916, sarebbe diventato segretario del neonato Sindacato della Stampa Cinematografica, fondato da Alfonso Cavallaro.
Nello stesso anno (1913) in cui scriveva quell’articolo, aveva firmato due memorabili lavori per la Pasquali Film, importante casa di produzione sorta a Torino nel dicembre del 1908 in via Giacinto Collegno n. 46, per iniziativa di Ernesto Maria Pasquali e Giuseppe Tempo. Quei due lavori s’intitolavano Spartaco, ovvero il gladiatore della Tracia , soggetto originale, e Jone o gli ultimi giorni di Pompei, adattamento dell’omonimo romanzo di Edward Bulwer Lytton. Bastano i titoli per comprendere quali e quante lunghe ombre si siano proiettate da allora in poi sulla storia del cinema mondiale grazie a questi due soggetti.
I relativi film furono definiti “colossi” e registrarono incassi favolosi, per quei tempi. Grazie ad essi fu assunto dalla più prestigiosa Ambrosio Film, fondata in via Nizza 187 a Torino nel 1904 e destinata a lunga e fortunata attività, cessata nel 1922. Ma già nel 1914 Chiosso era tornato con Pasquali in veste di direttore dell’Ufficio Soggetti. Scrisse anche per la Gloria Film, tra il 1914 e il 1915 (da citare Iwna la perla del Gange, soggetto di sapore salgariano); poi, nel 1915, per la Gladiator Film (ad esempio Il cadavere di marmo) nonché per Latina Ars, nata in quello stesso anno in via Ospedale 4 bis a Torino (ricordiamo Sul limite della follia) e per la Ars Cinema (Il tramonto dell’umanità).
A partire dal 1915 tentò ripetutamente di ampliare la sfera d’azione in veste di proprietario di case di produzione, da solo o in società: nacque così la Biblia Film, destinata a trattare argomenti biblici ma chiusa l’anno successivo senza produrre nulla. Nel 1916, con Nino Caimi, contribuì a far nascere Film La Donna, dal nome della rivista torinese La Donna, appunto, di cui era redattore, coinvolgendo in qualche modo Guido Gozzano, che collaborava alla rivista. Fu ancora una delusione, probabilmente per assenza di fondi.
Nel 1919 tentò senza fortuna con la Eridania Film, insieme a Carlo Sgarbi e nel 1920 con la Film Italiane Storiche, cessata l’anno successivo senza dar segno di vita. Nello stesso 1920 fu direttore artistico presso la neonata Eporedia Film di Ivrea, che intendeva produrre film storici, ma la società fallì nell’aprile 1921 senza aver realizzato nulla.
Si può ragionevolmente affermare, con Silvio Alovisio, che aveva
perso ogni capacità di valutazione obiettiva della crisi del cinema nazionale.
Quanti soggetti scrisse durante la sua altalenante carriera, iniziata nel 1912? Impossibile saperlo e tuttavia, secondo un articolo promozionale, non affidabile ma indicativo, ne scrisse circa 350.
Rimasto vedovo nel 1921 con due figlie in tenera età e non potendo più contare sui proventi cinematografici, affrontò una nuova attività sotto l’ombra postuma di un grande romanziere. Se, nel cinema, lui aveva lasciato in eredità, come si è detto, ombre lunghe, a Torino era vissuto Emilio Salgari, che a sua volta aveva lasciato un rutilante e sempre vivo immaginario collettivo destinato a contare moltissimo quale capitolo di sociologia della nostra letteratura di consumo.
Chiosso e il grande romanziere si erano conosciuti nel 1902, quando Fatima, la primogenita di Salgari, che aveva dieci anni, era stata chiamata a recitare in un’operetta realizzata dal futuro soggettista. Ne nacque una sorta di amicizia che ebbe incredibili risvolti nel 1911, quando Salgari si tolse la vita per il ricovero della moglie in manicomio, lasciando quattro orfani. Non solo Chiosso collaborò nell’organizzare i funerali laici, nonostante la sua profonda religiosità, ma, anche in veste di delegato comunale all’assistenza degli Istituti torinesi alla tutela dell’infanzia, fu per qualche tempo tutore degli orfani Salgari, per poi diventarne “rappresentante”.
Ottenuta così la fiducia dei numerosi cognati di Salgari, i Peruzzi, che si sarebbero da subito interessati per l’utilizzo delle altrettanto numerose trame di romanzi lasciate dallo scrittore, subentrando come tutori, si mise immediatamente in contatto con l’editore del medesimo, il fiorentino Bemporad. Esisteva un romanzo incompiuto, presso Bemporad: Le straordinarie avventure di Testa di Pietra, accanto a due romanzi inediti ma di prossima pubblicazione. Erano le ultime fatiche del povero Emilio, scritte tra le morse dell’incombente depressione e perciò in parte da revisionare.
In assenza di persone, tra i Peruzzi, in grado di gestire la situazione, Chiosso, presentandosi quale “unico amico” del compianto scrittore ed esibendo note autobiografiche (una sorta di curriculum) si propose di terminare il romanzo incompiuto e quale continuatore dell’opera salgariana, in grado di trarre romanzi dalle trame lasciate. Alla fine, ottenne ben poco. Bemporad gli affidò, per un compenso di 70 lire, la correzione delle bozze de La rivincita di Yanez, uno dei due romanzi di prossima pubblicazione, e temporeggiò per tutto il resto. Il completamento del romanzo lasciato a metà (Testa di Pietra) sarà invece affidato allo scrittore Aristide Marino Gianella.
Si ha notizia, nel 1913, di due romanzi originali di Chiosso ceduti a Bemporad, Farfadò, di ambientazione indù, e La Perla di Tripoli, che tuttavia non saranno mai pubblicati. Nel 1919 gli eredi Salgari vendettero a Bemporad tre titoli inediti dello scomparso scrittore, e Chiosso avrebbe dovuto fornire i testi dopo aver riordinato e completato i relativi fogli rintracciati: tuttavia l’editore diede seguito al contratto soltanto per uno di essi. Per gli altri due, come vedremo, l’operazione sarebbe stata davvero troppo discutibile.
Questi i presupposti.
Perché si arriva così agli anni Venti, quando Chiosso decise di diventare romanziere e quando l’idea di trarre dagli appunti e dalle trame di Salgari nuovi lavori scritti da ghost writers aveva preso piede tra gli editori (con il consenso degli eredi Salgari), tanta era la voglia del pubblico di leggere nuovi romanzi dell’autore prediletto. Ecco dunque che i tre titoli venduti nel 1919 a Bemporad, diventarono, grazie all’abilità di Renzo Chiosso, alcuni tra i numerosi apocrifi che sono circolati.
La circostanza è già nota da molto tempo, come lo sono pressoché tutti i nomi dei ghost writers, tra i quali primeggia il bravo Giovanni Bertinetti. I tre scritti sono Le avventure di Simon Wander (Bemporad, 1921), A bordo dell’Italia Una — Primo viaggio marittimo dell’Autore (Sonzogno, 1925) e Le mie memorie (Mondadori, 1928). Gli ultimi due, essendo riferiti alla vita di Salgari, e pubblicati quando essa era ancora avvolta da leggende, non solo sono risultati, con il tempo, essere apocrifi disonesti e fuorvianti, ma hanno ritardato non poco (e la colpa non è soltanto di Chiosso) i più seri studi salgariani.
Basti pensare che nella falsa autobiografia di Salgari (poi ristampata da Sonzogno nel 1937 con il titolo Le mie avventure) si legge, fra l’altro, come il romanziere sia stato a lungo in Malesia, con il titolo di capitano, a combattere al fianco di Sandokan. Persino la data di nascita di Salgari vi risulta completamente sbagliata e ciò non ha impedito che sia finita in numerosi testi, italiani e stranieri.
Impegnatosi, comunque, nell’ambito della letteratura per la gioventù, riuscì a pubblicare, prima di morire a Torino, il 12 novembre 1949, una dozzina di romanzi, in gran parte presso l’editoria cattolica (in particolare la Pia Società San Paolo di Alba) tutti finiti nel dimenticatoio. La ragione è che, a parte i controproducenti e ricorrenti tentativi di far rivivere in maniera inadeguata il mondo di Salgari, i suoi lavori erano spesso intrisi di messaggi religiosi, che appesantivano le trame, e talvolta di propaganda politica. Ricordiamo Il diavolo nel castello di Geolen (1922), La vergine dormente (1924), Colui che vide il diluvio (1930), I figli della luce (1931), Il solitario del Nilo (1932), Voragine Rossa (1937), Guttuluccia. Romanzo di una goccia d’acqua (1938).
Restano memorabili, per le concessioni alla fantasia scientifica e perciò nell’ambito della protofantascienza italiana, I navigatori del cielo (1925) e La città sottomarina (1940). Quest’ultimo, ispirato forse a una trama inedita di Salgari con lo stesso titolo, rimasta inutilizzata e sconosciuta, riguarda una moderna base operativa nascosta sotto l’oceano e sede di una setta che ha lo scopo di difendere gli oppressi nel mondo. Ricordiamo che Chiosso ebbe modo di consultare le carte inedite lasciate dal defunto Salgari. É appena il caso di ricordare che La città sottomarina è anche il titolo di un film torinese (Pasquali Film) del 1915, il cui soggetto fu firmato da Carlo Merlini, non solo collega di Chiosso ma anche imitatore piuttosto noto di Salgari e perciò autore di non pochi romanzi avventurosi. L’idea di una città segreta sotto l’oceano ha precedenti nella letteratura d’evasione straniera, ad esempio francese, ma chi non crede alle coincidenze avrà modo di porsi qualche interrogativo.
A Torino risultano ancora pubblicate due sue opere postume: La città dei ragazzi (1950) e La leonessa di Serendib (1951), dove è rievocato l’antico nome arabo di Ceylon (Serendip, con la “p” finale), ossia dell’attuale Sri Lanka.