Narra un mito greco che nella città di Sparta vivevano Castore e Polluce, gemelli dai divini natali chiamati Dioscuri. Necessari l’uno all’altro, condividevano qualsiasi impresa. Erano inseparabili nonostante la loro diversità. Polluce possedeva il dono della vita eterna, di cui il gemello era privo. Un giorno Castore morì. Per riavere il fratello, Polluce chiese l’intercessione di Zeus offrendo in pegno la sua immortalità, ormai un peso senza il suo doppio con cui spartirla. Commosso da questa dedizione, il padre degli dei riportò in vita Castore e permise ai gemelli di continuare a vivere insieme per l’eternità.
Da sempre, nell’immaginario collettivo, le coppie di gemelli sono avvolte da un’aura affascinante. Dopo aver condiviso lo spazio del grembo materno, i gemelli vengono alla luce insieme, mentre la maggior parte degli individui è catapultata da sola nel mondo. Non importa se le fattezze e i caratteri sono identici o meno, il legame che unisce questi fratelli è indissolubile e va oltre le contingenze terrene, suscitando un pizzico di invidia in coloro che ne sono esclusi e che non potranno mai comprenderlo del tutto.
Un rapporto esclusivo era quello che legava due illustri gemelle di Torino, Rita e Paola Levi-Montalcini. Entrambe rese immortali non da Zeus, bensì dai loro fecondi percorsi lavorativi e personali.
Scrisse Rita:
il patto di alleanza concordato sin dai primi anni dell’infanzia e allo stesso tempo il senso d’indipendenza, ci permetteva di essere così unite, ma capaci di attuare la nostra vita secondo le differenti vocazioni.
La vita di Rita fu rivolta alla scienza, quella di Paola all’arte. Della gemella scienziata tanto si conosce: scopritrice del Nerve Growth Factor, il fattore di accrescimento delle cellule nervose fondamentale per la conoscenza del cervello e per la cura delle malattie degenerative, ottenne il Premio Nobel per la medicina nel 1986.
La gemella artista risulta più defilata e sfuggente, racchiusa nel suo “restless universe (universo inquieto)”, come lo definiva Rita. Tuttavia, la scienziata sottolineava:
Tra noi due non c’è alcuna differenza, perché il mio percorso scientifico e il suo percorso artistico nascono dalla stessa capacità intuitiva.
Paola e la sorella nacquero a Torino il 22 aprile 1909, ultimogenite di Adamo Levi e Adele Montalcini. Prima del loro arrivo la coppia, convolata a nozze nel 1901, fu allietata nel 1902 dalla nascita di Luigi, Gino, e nel 1904 da quella di Anna, Nina. Le famiglie dei genitori, ebree sefardite, provenivano da San Damiano Monferrato, oggi San Damiano D’Asti.
Il cognome Montalcini lascia presupporre un’origine toscana, risalente forse all’epoca della persecuzione ebraica nella penisola iberica, nel XV secolo. Poteva capitare che gli ebrei fuggiaschi sostituissero il cognome con il toponimo del paese in cui avevano ricevuto asilo, in questo caso Montalcino, in provincia di Siena. Il matronimico Montalcini fu aggiunto al cognome Levi da Gino per primo e poi dalle gemelle, per distinguersi dagli altri professionisti che portavano il loro stesso cognome paterno, assai diffuso.
Paola e Rita erano gemelle eterozigote, originate dalla fecondazione di due diversi ovuli, perciò fisicamente non si assomigliavano, ma erano complementari. Se si osservano le foto d’infanzia, si nota come Paola fosse più bassa e paffutella in confronto a Rita, alta e snella. I tratti di Paola ricordavano quelli del padre,
sotto la fronte alta, leggermente convessa, gli occhi azzurri, ridenti, denotavano una disposizione all’allegria. Celavano tuttavia un’inquietudine e una continua ricerca di sé stessa.
Rita era il ritratto vivente della nonna materna,
gli occhi dallo sguardo malinconico, la leggera asimmetria del viso, la conformazione gracile e longilinea dell’impalcatura scheletrica.
Paola, di indole estroversa, venerava il padre (fu segnata profondamente dalla sua morte, nel 1932) e condivideva la passione per l’arte con Gino, che fu scultore e architetto. Rita, più schiva, provava un profondo affetto per la madre e aveva in comune con Anna l’interesse per la letteratura. Nina abbandonò il sogno di diventare scrittrice per dedicarsi al ruolo di moglie e madre. Strada quest’ultima non intrapresa dalle gemelle, senza rimpianto alcuno: “Nessun figlio, ma altre soddisfazioni”, diceva Paola. Rita impiegò più tempo a capire quale fosse l’indirizzo giusto per lei. Invece Paola seppe da subito che il suo era un destino di artista.
La famiglia Levi-Montalcini risiedeva a Torino in un palazzo di corso Re Umberto I, che Paola definiva “il sacro focolare”. Adamo, baffoni all’Umberto e soprannominato dai familiari terribile Damino per il suo carattere energico e collerico, era ingegnere. Adelina, Lina, bella come una figura preraffaellita e con un passato di pittrice, si occupava della casa. Non erano ebrei praticanti. Adamo educò i figli al libero pensiero e a dare la priorità assoluta agli interessi culturali. Nonostante questa apertura mentale, aveva del ruolo della donna una concezione tradizionale che la voleva relegata all’ambito domestico. Perciò, finite le scuole medie, Adamo iscrisse le figlie al liceo femminile, che precludeva l’accesso diretto all’università. All’epoca il liceo maschile prevedeva la presenza sia di materie umanistiche che scientifiche, quest’ultime non contemplate nella scuola riservata alle ragazze. Paola, sempre la prima della classe, provava interesse verso la matematica e le scienze esatte, ma la sua propensione verso l’arte le fece accettare senza problemi la decisione paterna.
Finito il liceo dopo qualche tempo Rita riuscì a convincere il padre a lasciarle frequentare lezioni private per poter accedere all’università.
Paola entrò come allieva nella Scuola Libera di Pittura, in via Galliari 33, fondata dal pittore Felice Casorati, uno dei principali esponenti del Realismo Magico. Paola si trovò a lavorare con Giorgina Lattes, Nella Marchesini, Albino Galvano, Gino Gorza, Lalla Romano e molti giovani protagonisti della scena artistica torinese. Lalla Romano la ricordava così:
Paola era molto intellettuale. Per lei nulla aveva valore all’infuori dell’intelligenza […]. Era una lottatrice dello spirito. Piccola e magra, era commovente vederla aggirarsi fra i suoi enormi quadri, grandi come lei stessa al quadrato, afferrarli con tutta l’apertura delle sue braccia, trasportarli, rivoltarli.
La pittrice espose le sue prime opere figurative nel 1928, alla mostra collettiva presso lo studio del maestro. All’anno successivo risale la prima personale allestita sempre a Torino, nella Galleria del Bosco. Nel 1931 partecipò alla prima Quadriennale di Roma e nel 1936 alla XX Biennale di Venezia. Tornò varie volte ad esporre a Roma e a Venezia e arrivò a presentare le sue opere anche all’estero: Parigi, Berlino, New York, San Paolo del Brasile.
Fu nello studio di Casorati che Paola, lontana da ogni accademismo, iniziò a far emergere la sua autonomia creativa. Si staccò presto dal maestro, pur mantenendo nei suoi confronti una profonda stima e non dimenticando l’impianto geometrico e strutturale delle sue opere. Geometria e matematica furono le colonne portanti dell’arte di Paola, che nel 1939 vide la pubblicazione della sua prima monografia curata dall’artista metafisico Giorgio de Chirico:
La pittura di Paola Levi-Montalcini si presenta spoglia d’ogni debolezza femminile, d’ogni facilità e d’ogni superficialità […]. Dotata di un gran temperamento pittorico, non avente altra meta che di lavorare e di dipingere sempre meglio […]. Essa segue instancabilmente la sua meta, con gli occhi ben aperti sul mondo, decisa a perfezionare ed a sviluppare senza posa il suo mestiere seguendo nel tempo stesso il suo sentimento di artista.
Le leggi razziali del 1938 e la guerra provocarono grandi cambiamenti. Rita fu sollevata dagli incarichi accademici, ma continuò le sue ricerche in casa. Paola, esclusa dalle mostre ufficiali, smise di dipingere. In seguito ai bombardamenti dell’estate del 1943, la famiglia sfollò nell’astigiano e in seguito all’armistizio dell’8 settembre si rifugiò a Firenze. Qui vi rimase sotto falsa identità fino al 1945, accolta dalla pittrice Marisa Mori, amica di Paola. Non potendo far altro, le sorelle si dedicarono alla fabbricazione di documenti falsi per amici e conoscenti. Durante l’occupazione nazista, nell’agosto del ’44, l’artista e la gemella osservarono esterrefatte dalla finestra del loro rifugio in via Cavour, le strade piene di gente che dalle campagne si riversava in città. Questo episodio drammatico divenne in seguito il soggetto di uno dei quadri più noti di Paola, La città che cammina del 1953:
Il dipinto rappresenta in astratto la folla che vidi […]. Una folla che scendeva a fiumane dai colli, diretta verso il centro storico, che si presumeva salvaguardato dai bombardamenti. Il dipinto rappresenta quella massa umana, unita e pietrificata.
“La guerra e le persecuzioni razziali” sono le sole parole con cui Paola ricordò il periodo di stasi creativa dalla quale pensava che non sarebbe più uscita. Il conflitto aveva spazzato via il passato e “tutto sembrava aver cessato di esistere ‘come prima’ perché noi stessi non eravamo più quelli di prima”. Paola riprese la sua attività nel 1945, allestendo una mostra personale a Firenze nella Galleria Il Fiore e l’anno successivo, tornata nella sua città natale, presso la Libreria del Bosco. Ma era impossibile tornare a dipingere come un tempo. Il suo modo di approcciarsi all’arte aveva subito un capovolgimento che la condusse gradualmente, alla fine degli anni ’40, al linguaggio astratto. Nei primi anni ’50 partecipò al MAC-Movimento Arte Concreta e nel 1956 fu a Parigi per frequentare l’Atelier 17 di Stanley William Hayter, dove apprese nuove tecniche di incisione.
Nel settembre 1947 Rita partì per St. Louis, nel Missouri. Aveva ricevuto l’incarico di ricercatrice presso la Washington University. Iniziò tra le gemelle un fitto scambio epistolare, basato sulla condivisione dei risultati professionali e sul vicendevole incoraggiamento. L’affetto che Paola provava per la sorella vena ogni missiva sin dall’incipit: “Rì cara”, “Gioia cara”, “Angelo mio”. Paola non pensò mai di raggiungerla negli Stati Uniti perché era troppo legata a Torino:
In nessun posto mi è comodo dipingere come a casa.
In una parte del soggiorno era il suo studio, protetto da una tenda per evitare sguardi indiscreti di parenti e amici. Le sorelle si riunirono nell’estate del 1963, al ritorno di Rita appena in tempo per l’ultimo saluto alla madre che morì a ottobre. Andarono a vivere insieme in via Villa Massimo a Roma, dove Rita prese a lavorare nell’unità di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità.
Fu nei primi anni ’60 che Paola abbandonò la pittura per sperimentare nuove tecniche e materiali differenti.
Supportata dalla collaborazione dei tecnici Angelo e Piero Ientile, diede avvio alle serie dei Montaggi su tela, delle Reti, dei Poliedri in perspex, delle Strutture cinetico-luminose. Tra gli anni ’70 e ’80 si dedicò all’attività grafica realizzando le Morsure su rame e le Calcografie. Tra le ultime opere, le sculture prodotte tra la fine degli anni ’80 e ’90, che sancirono un ritorno alla tridimensionalità, e il volume Discordanze del 1992, basato sulla computer grafica. La produzione della Levi-Montalcini, artista d’avanguardia apprezzata dai critici e stimata dai colleghi, era frutto di attente ricerche e riflessioni, e dai tempi creativi dilungati:
Le cose mi si evolvono per illuminazioni lentissime. Sono un compartimento stagno: o dipingo o ci penso su. Non sono un’istintiva.
Per un artista non è necessario girare il mondo per arricchirsi di nuove sensazioni. Un angolo di un orto gli offre quanto una foresta tropicale. E ad un pittore introverso, come te, neppure l’orto non è più necessario.
Con queste parole Rita riuscì a cogliere lo scopo dell’arte di Paola, alieno da qualsiasi logica tesa al guadagno e alla fama e volto ad esprimere la sua complessa realtà interiore e il suo articolato “mondo fantastico” affascinato dagli opposti: razionalismo-irrazionalismo, rigore-caos, vita-morte. Ma anche Paola viaggiò. Parigi era la sua città favorita e si spostava per visitare mostre e musei, girare per biblioteche e mercatini. Era una bibliofila, spesso comprava più copie dello stesso testo. Rita le spediva dall’America pacchi di libri e libri riceveva in regalo dagli amici. Li leggeva, li sottolineava e appuntava commenti. I suoi gusti letterari erano variegati: romanzi (Dostoevskij figurava tra i suoi autori favoriti), saggi, cataloghi, volumi scientifici e di letteratura, cinema, teatro e, naturalmente, arte (amava El Greco, Picasso, Matisse, Kokoschka). Affermava:
Comprare la macchina, mi interessa molto meno che comprare libri.
Gli interessi dell’artista erano sconfinati (la musica elettronica uno dei tanti) e a malincuore riconosceva che non le sarebbero bastate “ventisette vite” per approfondire e interiorizzare tutti gli stimoli che la sollecitavano. La sua attività artistica e intellettuale la assorbiva e non avrebbe avuto tempo da dedicare a un uomo. I corteggiatori però non mancavano e poteva capitare che arrivassero a casa bellissimi mazzi di rose, lasciandola stupita. Impegnata nella lotta per i diritti delle donne, nel 1992 istituì con la sorella la Fondazione Levi-Montalcini Onlus, con lo scopo di fornire un’istruzione alle giovani africane.
Paola Levi-Montalcini si spense a Roma il 29 settembre 2000. Rita era convinta che, perdendo la sua metà, la vita fosse giunta al termine anche per lei, ma così non fu. Donò quarantacinque opere dell’amata sorella alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma e nel 2001 vide la mostra antologica a lei dedicata nel complesso romano di San Michele a Ripa. Rita morì ultracentenaria il 30 dicembre 2012. Le sue ceneri sono state poste vicino a Paola, nella tomba di famiglia sita nel settore ebraico del Cimitero Monumentale di Torino.
Paola e Rita, vestali dell’Arte e della Scienza, hanno percorso la vita fianco a fianco, come Castore e Polluce. E, come i due Dioscuri, insieme si sono riunite nell’eternità.