Matteo Olivero, “Luce”, 1914, olio su tela, 120,5 x 141,5 cm.
Lo chiamavano “il pittore della neve”, un’espressione riduttiva perché Matteo Olivero è piuttosto un pittore della luce, avendo fatto della ricerca luministica la ragione della sua arte. Certo la neve è presente in molti dei suoi quadri: la montagna rappresenterà per tutta la vita il suo rifugio perché in montagna sono le sue radici.
Nasce nel 1879 vicino ad Acceglio, nell’Alta Valle Maira. La madre, rimasta presto vedova, decide di vendere tutti i suoi beni ad Acceglio per poter far studiare il figlio prima a Dronero e poi a Torino perché il giovane Matteo intende frequentare l’Accademia Albertina. Si rivela presto un bravo allievo di bravi maestri come Giacomo Grosso e Andrea Tavernier e non gli mancheranno le menzioni d’onore. Una borsa di studio della scuola gli consente un ambìto viaggio a Parigi in occasione della Grande Esposizione Universale del 1900. È l’affacciarsi del giovane pittore, che ancora non ha finito gli studi, sul panorama dell’arte d’oltralpe. Suggestioni e stimoli derivanti anche da questa esperienza col tempo lo aiuteranno a trovare la sua strada.
È affascinato dal fenomeno della luce. La ricerca costante di una tecnica luministica sin dai primi anni dell’Accademia lo porterà verso il divisionismo. Scrive:
Il divisionismo consiste nel dipingere con colori scomposti invece di mescolarli sulla tavolozza e formare la tinta voluta. […] Con questa tecnica è innegabile che si ottenga maggior trasparenza dell’aria, maggior intensità di luce, maggiore verità e colore e vita specialmente nei paesaggi e negli ambienti. […] Nel paesaggio il mio occhio vede più distintamente i colori scomposti specialmente nei cieli luminosi e negli effetti di sole. […] Con questa scuola e con la mia speciale tecnica giungo maggiormente ad approssimarmi ai colori e alle luci più vibranti che ci dà la natura. Così ho ottenuto l’effetto abbagliante della neve al sole.
È quanto realizza in Solitudine, il suo primo capolavoro.
Siamo nell’inverno del 1902 e Matteo è al penultimo anno dell’Accademia. Solitudine è un grande quadro di due metri e, nonostante il titolo, l’ampia distesa innevata inondata dalla luce comunica un senso di pace e di sereno raccoglimento davanti alla poesia della natura.
Un effetto di sole sulla neve, ove superai non lievi difficoltà
dice laconico l’artista di questa sua opera.
In realtà ne è molto orgoglioso perché sappiamo che verrà ripetutamente esposta nelle più importanti mostre successive. Un lungo steccato che costeggia un sentiero divide la distesa dei prati sepolti da una coltre di neve abbagliante. Oltre lo steccato, in alto, una baita che pare disabitata, lungo i pendii, esili tronchi spogli e sterpi irrigiditi dal gelo; sullo sfondo, le creste dei monti lontani contro un cielo dalla luce cangiante; in basso le ombre violette dello steccato e dei lievi avvallamenti modellati dalla neve. Un’osservazione della natura che diventa contemplazione lirica, in un’atmosfera sospesa di silenzio e di quiete.
È questa una prova ormai matura della tecnica divisionista dell’artista: brevi tratti di colori puri affiancati — “scomposti” — in punta di pennello che si ricompongono fondendosi in un insieme armonico di luce.
“Non ebbi maestri di detta scuola” — scrive — “né cercai di imitare le tecniche di altri divisionisti”.
Sappiamo che tra gli “altri divisionisti” ammirava molto Segantini, cui viene paragonato proprio a proposito di Solitudine, e poi Pellizza da Volpedo, che considerò un maestro oltre che un amico. Ci è rimasto un loro carteggio molto interessante in cui l’artista più anziano, Pellizza, incoraggia quello più giovane con riflessioni e consigli specifici, e Matteo lo ricambia con affettuosa ammirazione. Del famoso Quarto Stato di Pellizza scrive che “si avanza convinto, organizzato, a testa alta, verso un avvenire di giustizia e di pace” rimarcando con convinzione l’ideologia socialista che sottende. L’affinità di origini e di interessi artistici ha sicuramente cementato quest’amicizia purtroppo destinata a finire dopo pochi anni: Pellizza nel 1907 mette fine alla sua vita in seguito alla morte della moglie. Un colpo durissimo per Matteo.
Ormai abita a Saluzzo. Ha abbandonato Torino. Non faceva per lui quell’ambiente artistico che giudicava condizionato da invidie, rivalità e amicizie di convenienza. È troppo sincero e diretto e probabilmente anche ingenuo per riuscire a districarsi nel mondo insidioso dell’arte. Abita con la madre nella parte vecchia della città e poco lontano, su per la salita al castello, ha il suo studio in un vecchio palazzo. Si trova bene a Saluzzo, fa numerose amicizie e in tutte le manifestazioni, specie nelle feste di Carnevale, la sua presenza è insostituibile. Inventa carri fantasiosi, ad esempio un dirigibile sollevato da un enorme pesce volante con le ali al posto delle pinne, progetto prima dipinto su tela e poi effettivamente realizzato come dimostrano alcune fotografie. E fu guidando questo carro che si prese una polmonite che quasi lo ridusse in fin di vita.
Anche nella maschera di Rigadin, il suo alter ego carnevalesco, rivela l’aspetto allegro e burlone del suo carattere. Rigadin ha un gran cappellone da pievano, un paio di occhialini e il suo bel viso di artista con i capelli arruffati, gli occhi azzurri e la barbetta bionda. Indossa una casacca decorata da medaglie e onorificenze varie sopra un paio di pantaloni a quadri come una tovaglia ed è a quadri anche il borsone da viaggio e, visto che è in viaggio, si porta appresso anche il bastone da passeggio e l’ombrello. Le calze gli scendono a fisarmonica sugli zoccoli di legno e così zoccolando se ne va in giro improvvisando comiche orazioni che attirano capanelli di curiosi.
Naturalmente questi sono giorni di solenni libagioni con gli amici e certo il vino contribuisce a rendere Rigadin ancora più brillante. Purtroppo Matteo non è sempre Rigadin: è soggetto ad alterne fasi depressive che lo rendono inquieto, dubbioso, disanimato. Il rimedio consueto allora consiste nel tornare alle radici, cioè alle sue montagne, la fonte della sua ispirazione.
Mattino: Alta Valle Macra (1909). Abbiamo di fronte una tela di circa 8 metri quadrati, quasi a rendere la vastità del panorama che l’artista vuole rappresentare. Bisogna effettivamente spostarsi via via davanti al quadro per riuscire ad osservarne i particolari e come questi si sviluppino nel contesto di una composizione armonica, perfettamente equilibrata. A sinistra un giro di lose di pietra conficcate a terra delimita una sorta di recinto (ah la fatica dei nostri vecchi!); più in alto, sotto il cielo che va illuminandosi dell’oro rosato del primo mattino, ecco un campo di grano o di orzo che già sta imbiondendo; più in basso, sul crinale di una conca ancora invasa da una nebbia azzurrina, un piccolo gruppo di casolari da cui sale un filo di fumo dello stesso colore della nebbia. E poi un pilone votivo con un santo dipinto a tutta parete. Certo i santi di grandi dimensioni proteggono meglio di quelli più piccoli. Lontano, sullo sfondo, una lenta linea si incurva appena a disegnare il profilo della vallata ancora immersa nell’ombra contro il cielo che da tonalità fredde trascolora verso quelle calde e dorate del sole che sorge: una progressione luministica resa con grande maestria e sensibilità poetica attraverso la tecnica “divisa”.
E dunque, soprattutto d’estate, (“il caldo mi intorbidisce la mente” — scrive) Matteo parte per le sue montagne. Lo accompagna la madre. La madre è colei che per lui vede e provvede vegliando sulla sua salute specie nelle ricorrenti crisi di depressione, per lui si adatta a soggiornare in qualche locanda di montagna per consentirgli di lavorare serenamente, con lui si arrampica su per i bricchi verso qualche baita fatiscente dove magari ci piove perché possa studiare il paesaggio e quegli effetti di luce che lo affascinano, il vibrare e il cangiare dei colori specie all’alba e al tramonto. La madre è la sua ancora, il suo saldo appiglio alla vita. Un rapporto forse un po’ troppo esclusivo. Sta di fatto che l’artista non si risolse mai a formarsi una famiglia. E quando verrà a mancare la madre si sentirà perduto.
Intanto la sua attività non ha battute d’arresto. Ha al suo attivo numerose mostre anche importanti e nel 1909, grazie all’amicizia con la famiglia Galimberti (il Senatore Tancredi Galimberti è il padre di Duccio Galimberti, uno dei più importanti capi della Resistenza) viene invitato alla VIII Biennale di Venezia. E l’anno seguente prende parte all’Esposizione parigina del Union Internationale des Beaux Arts con una quarantina di lavori probabilmente aspettandosi, in quell’ambito così composito, un riconoscimento per tanti anni di studio e ricerca. Il salone è molto grande e annovera opere di ogni scuola e tendenza comprese le prime avanguardie che proprio in questi anni cominciano a farsi apprezzare. Nuovi termini sono ora in voga a Parigi: fauvismo, cubismo e anche futurismo che per altro arriva dall’Italia. E poi nomi nuovi: Kandinskj, Mondrian, Picasso, Modigliani…difficile per un artista come Olivero che ha sempre creduto nella tecnica “divisa” comprendere il significato di certe innovazioni radicali.
Ma allora come è riuscito a dipingere l’Autoritratto ultrafuturista esposto alla mostra torinese del Circolo degli Artisti del 1913 quella che a suo dire aveva fatto “ridere mezza Torino”? Certo nell’Autoritratto torna ad emergere l’animo burlone di Rigadin che si diverte in questo caso a rifarsi con ironia o forse con sarcasmo alla simbologia futurista. Linee nette e decise, dadi, bulloni e lucchetti, un vaso da notte olezzante al posto del naso, croci e decorazioni da un lato, carote e pomodori dall’altro, una spada insanguinata che ha ormai debellato passato e passatisti e anche una didascalia in basso a definire “l’ultrafuturista”.
Certo Olivero non ha alcuna difficoltà a confrontarsi con le tecniche futuriste, data la sua abilità ed esperienza, e pittore futurista avrebbe anche potuto esserlo, ma la sua vocazione è un’altra. Scrive:
ho per maestro la natura; dipingo solo ciò che sento […] cerco di rendere la poesia della natura e nella tecnica tendo alla scomposizione dei colori.
Continuerà per tutta la vita ad essere fedele a questa poetica pittorica che negli anni ha elaborato e perfezionato partendo dalla sua formazione accademica.
La ricerca appassionata, continua, degli effetti della luce non riguarda solo l’artista del paesaggio ma anche il ritrattista. Abbiamo tutta una serie di ritratti ed autoritratti veramente pregevoli per la tecnica e l’intensità espressiva.
Ecco un giovane Matteo (Autoritratto, 1904) coi capelli arruffati e irsuti, magrissimo che ci fissa con lo sguardo inquieto e vagamente allucinato dei grandi occhi scuri, benché azzurri in realtà. Molto particolare è l’Autoritratto al chiaro di luna (1907), illuminato da una strana luce bianca o meglio livida, quella della luna, appunto.
“Nei miei paesaggi cerco sempre gli effetti di luce vibrata, di rendere i momenti poetici”, scrive.
E non solo della luce del sole, anche della luna. Alle spalle del pittore, in piedi col lungo camice da lavoro, il muro e la chiesa del cimitero di Saluzzo con il viale di pioppi cipressini, scuri nella notte chiara, suggeriscono un’atmosfera se non lugubre, sicuramente misteriosa. Il viso dell’artista, dilavato dalla luce lunare — unica nota di colore un ciuffo biondo della barba — guarda di lato qualcosa di remoto aldilà dell’ampio prato del cimitero. Che cosa? Forse la labile linea che separa la vita dalla morte?
Ma ritroviamo la verve scanzonata di Rigadin in una vivace tela del 1919: Uno strambo in piazza San Marco. Davanti alla Basilica luminosa di colori accesi e riprodotta con perfezione di dettagli (si tratta di un montaggio) ecco l’Artista vestito in modo piuttosto stravagante col cappello a cilindro, un grande fiocco nero sulla camicia candida, gilet rosso e frac scuro. Elegantissimo ma certo bizzarro in questo contesto. Matteo-Rigadin ama i travestimenti e l’allegro stupore di chi gli passa accanto, diverte e si diverte, come nelle feste di Carnevale di cui era l’anima. E qui Rigadin il burlone, l’alter ego del Matteo invece tormentato e inquieto, sembra sorridere ironico nel sole che inonda piazza San Marco.
Di questo stesso anno 1919 è uno degli autoritratti più belli per l’intensa espressività, specchio di un animo che vive quasi con sofferenza la sua vocazione artistica. È passato un anno dalla fine della Prima guerra mondiale. Chiamato alle armi, a motivo dei suoi 36 anni viene adibito solo a funzioni di servizio prima a Ferrara e poi a Roma, passando così, per sua fortuna, incolume attraverso il flagello della guerra. Ma anche il dopoguerra è traumatico. E negli occhi scuri del ritratto si coglie ancor sempre quel suo sguardo inquieto, quasi disorientato e un confuso senso di malessere esistenziale.
Nell’ultimo autoritratto che abbiamo, l’Autoritratto col fazzoletto rosso del 1924–25, sarebbe difficile riconoscere il bel viso magro e l’atteggiamento un po’ dandy del giovane Matteo: qui egli si presenta come un autentico montanaro quale in realtà sentiva di essere nel profondo. La pennellata è larga e veloce, i colori sono decisi, luminosi, in pieno sole: rosso il fazzoletto, candida la camicia, nero il cappello, bionda la barba, acceso l’incarnato. E di sotto all’ala del cappello, strizzando gli occhi azzurri nel sole, Matteo ci guarda con piglio rude, deciso, da vero montanaro.
Fra i ritratti molto intenso e particolarmente studiato è Mia Madre del 1915, acquistato dal Comune di Torino e poi esposto alla GAM. Forse Matteo avrà dimenticato qualche ruga, forse avrà ingentilito qualche tratto, ma nella sua essenzialità il ritratto rivela una grande forza di penetrazione psicologica. Dallo sfondo scuro come negli antichi dipinti emerge verso la luce solo quel viso serio dagli occhi velati di tristezza che parlano di tutt’intera una vita.
La luce. L’infinita mutevolezza della luce, i suoi volti misteriosi e sfuggenti, la luce che plasma, crea e ricrea, accende e perfino altera la realtà: questo studia con passione e ostinazione Matteo Olivero.
Tra i filamenti dorati del sole che appare tra le nuvole allontanate dal vento, il verde della valle si accende: gli alberi, il prato, le pinete, le lunghe ombre fredde del mattino, parlano con tonalità diverse di verde e nel frantumarsi di quella luce dorata che li avvolge, si destano al giorno. Questo è Il sole ad Acceglio del 1919.
Il sole all’alba o al tramonto, il sole che trascolora, il sole che abbaglia, Matteo gli ha dedicato infiniti studi rovinandosi gli occhi, alzandosi prima dell’alba, gelando col suo cavalletto nella neve. Viene da socchiudere gli occhi come se si fosse abbacinati osservando ad esempio Il sole a Torrette (1910) o il Riflesso del sole sul lago (1914) o il Sole alla Madonna dell’Olmo (1924) oppure Il sole tra gli alberi (1925). Il sole non è tra gli alberi ma come davanti ad essi, abbagliante: i rami non riescono a schermarlo e con violenza si accende nel verde del fogliame irraggiando intorno corone d’oro. Fanno parte questi ultimi, per la sorprendente resa luminosa, di una serie di bozzetti, realizzati intorno alla metà degli anni venti e finalizzati quasi sempre all’esecuzione di un’opera di maggiori dimensioni, ma hanno autonomamente un loro intrinseco valore per la vivacità dell’immediatezza inventiva oltre ad essere testimonianza dello studio quasi ossessivo della luce. Qui la luce solare diviene folgorante, accecante: schegge e frammenti e filamenti d’oro contornano il disco in cui avviene l’esplosione luminosa. Ricorda la potenza del sole di Van Gogh.
Il modo estremamente personale di intendere il divisionismo unito alla indiscussa perfezione tecnica gli consentono creazioni di grande suggestione poetica. Ecco La neve sopra Casteldelfino (1924) dalla azzurra luminosità diffusa in cui veramente la luce sembra vibrare sul prato innevato, sulla breve balza in ombra, sulle orme lasciate da qualche passante e ancora sulle lontane pendici profilate di bianco. Anche quell’unico larice spoglio, irrigidito dal gelo, è però reso vivo da scaglie di luce, schegge di sole che lo colpiscono di ramo in ramo.
Di nuovo un’ampia distesa innevata, di nuovo una limpida giornata di sole invernale. Ma lungo la strada avanza in fila un gruppo di persone a capo chino, una mesta teoria di figure scure che colpisce in tutto quel candore. È uno dei quadri più famosi: Funerali a Casteldelfino (1924–25). Olivero aveva già affrontato il tema della morte in una tela giovanile, Finì d’tribulè (1903), titolo che evoca una rassegnata saggezza antica, e comunque questo è un soggetto non estraneo alla tematica sociale cui per altro il pittore ha dato il suo contributo con diversi lavori nei primi anni del Novecento. Nei Funerali a Casteldelfino il corteo sfila solenne nel suo dolore composto: nessun tono patetico o drammatico, se mai una commossa poesia nel rappresentare l’eterna vicenda della vita; la morte e la vita si succedono e mentre una si allontana nel suo silenzio dolente, già l’altra si rinnova. Lo dicono i prati che si fanno una varco tra la neve che si scioglie e il cielo trasparente e quella luce dorata che avvolge tutto in un presagio di primavera.
Nel 1921 Matteo Olivero riceve la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia, motivo per lui di grande soddisfazione. In effetti a 42 anni ha alle spalle una discreta mole di lavoro: ha esposto, e talora più volte, a Roma, Grenoble, Venezia, Milano, Parigi, Bruxelles, Monaco, Cuneo e naturalmente a Torino dove, al Circolo degli Artisti, il Re acquista nel 1914 la sua tela Impressioni veneziane. Ha motivo di essere fiero di ciò che ha creato ma ha anche la consapevolezza che è in atto una profonda rivoluzione nel mondo dell’arte. Le avanguardie stanno infrangendo i vecchi canoni estetici perché intendono rompere con la tradizione e i nuovi critici giudicano con una certa arroganza i pittori che si rifanno ai modelli ottocenteschi definendoli “passatisti”, stanchi epigoni di un’arte del passato.
Nel 1922 — ad esempio — mentre il giovane acclamato Casorati dipinge con il suo tocco nitido ed essenziale il ritratto dell’imprenditore e finanziere torinese Riccardo Gualino, Olivero nemmeno viene invitato alla Biennale di Venezia, un appuntamento al quale, tolti gli anni di guerra, dal 1909 non era mai mancato e intanto Carrà sperimenta la sua pittura metafisica e De Chirico crea le sue Muse Inquietanti e il fratello Savinio le surreali Scatole sonore e Boccioni e Balla e Depero perseguono dinamici moduli futuristi… Olivero invece rimane fedele alla sua arte.
A sinistra: “Muse inquietanti” di De Chirico. A destra: “Scatole sonore” di Alberto Savinio.
Nel 1921 conosce l’ingegnere Burgo, il fondatore della grande cartiera di Verzuolo. Sarà un amico e un mecenate e per lui Matteo dipingerà la Valle Po in numerosi studi e tele, fermandosi e tornando più volte a Calcinere dove era stata costruita la centrale che consentiva di incrementare il lavoro della cartiera.
La “sua” Valle Macra, la Val Varaita e Casteldelfino, la Valle Po e Calcinere: sono queste le valli che ama, dove trova ispirazione e dove si rifugia quando ricompaiono quelle crisi depressive che stanno facendosi sempre più frequenti. Cosa lo tormenta? Potrebbe anche essere la preoccupazione di dover provvedere a sé e alla madre, ma probabilmente non si tratta di ragioni economiche, per quanto non disdegni affatto le piccole committenze; c’è piuttosto un malessere profondo nel suo animo che si acuisce quando si rendere conto che l’ispirazione viene a mancargli e quasi rinuncia allo studio e alla ricerca che sono sempre stati la base del suo impegno di artista. La tecnica da sola non basta. E poi c’è l’amarezza per giudizi impietosi e frettolosi della moderna critica che ha occhi solo per le nuove tendenze e definisce “passatista” ogni forma d’arte che si rifaccia alla tradizione.
Va detto anche che in alcune opere più tarde i critici riscontrano una certa fissità fotografica a scapito dell’immediatezza creativa. Questo perché Olivero, che ha acquisito una buona dimestichezza con la fotografia, la usa come ausilio compositivo, il che comporta un’inevitabile staticità dell’immagine. Eppure ancora realizza lavori importanti come L’attesa (1924) a cui giunge attraverso una pregevole serie di lavori preparatori. Sullo sfondo delle amate montagne di Calcinere una donna anziana — la madre — attende paziente qualcuno o qualcosa… o forse è un’attesa fuori dal tempo, simbolo di tutte le attese della vita fino a quella della morte?
Del 1925 — come già citato in precedenza — sono il singolare Autoritratto col fazzoletto rosso e i due quadri ambientati a Casteldelfino: La neve sopra Casteldelfino e il famoso Funerale a Casteldelfino acquistato dal Municipio di Cuneo dove l’anno seguente, alla prima esposizione delle Belle Arti, avrà la soddisfazione di disporre di un’intera sala con 48 opere. Sempre in questo periodo, siamo intorno alla metà degli anni Venti, si colloca la serie di studi sulla luce solare negli attimi in cui appare più folgorante, accecante, e sempre con esiti straordinari.
È invece la luce smorzata del tardo pomeriggio a creare la poesia del Pascolo autunnale a San Martino di Saluzzo (1928). Nel cielo terso svetta una fila di giovani pioppi che costeggiano la linea curva del prato. Per il freddo le foglie sono quasi tutte ingiallite eppure non c’è malinconia: una brezza leggera le trascorre e quasi le trasforma in un palpito dorato contro quel cielo così azzurro. Al centro della composizione la bambina dal vestitino rosso e le due mucche bianche che lì accanto pascolano placide sono disegnate dalla luce radente e nitida che allunga davanti a loro ombre leggere. Poesia di luci e colori, un senso raccolto di quiete, il sorriso delle ultime ore di un giorno sereno. Davvero questa non si direbbe l’opera di un animo travagliato.
Il tracollo avviene due anni dopo, quando nel 1930 a 86 anni muore la madre. Per tutta la vita era stata la sua roccia, lo aveva accudito, consigliato, curato, sopportato le alternanze di umore che dalla depressione sempre latente passava all’euforia di Rigadin. Senza questa donna la vita di Matteo perde il timone e l’ancora. D’altra parte tanto era preciso e severo nel suo lavoro d’artista quanto assolutamente incapace e inetto nelle cose pratiche. Lo testimoniano alcune fotografie del suo studio, impressionanti per il disordine. Eppure vi lavorava bene comunque.
È il cavalier Burgo, suo amico e mecenate, a venirgli incontro in questo periodo così difficile. Con generosità lo accoglie nella sua grande casa di Verzuolo e gli fa anche adattare un ambiente a studio. Ma un mattino di primavera del 1932 Matteo apre una finestra e si lascia cadere nel vuoto.
Perché un artista che amava e inseguiva la luce ha invece scelto il buio? Si può pensare alla sua solitudine, all’ispirazione che gli pareva venisse meno, all’amarezza di sentirsi superato in un periodo di notevoli rivolgimenti artistici e soprattutto a quel male oscuro che lo tormentava sottraendogli forza creativa, desideri, interessi… tuttavia è impossibile comprendere a fondo uno spirito complesso e particolarmente sensibile come quello di un artista. Sappiamo che ha lasciato incompiuta, sul cavalletto del suo studio, una copia luminosa del Po a Calcinere: il Monviso solenne sullo sfondo, il Po che scende verso di noi a scaglie di luce. Ci ha lasciato la sua luce. A noi cercare di comprendere meglio la sua opera tuttora non adeguatamente conosciuta.