Pellizza da Volpedo

Il maestro divisionista nelle memorie di famiglia

Giuseppe Pellizza da Volpedo all’opera
Gabriele Reina
Gabriele Reina

Pittore ritrattista allievo del maestro futurista Sibò (Pier Luigi Bossi), è specializzato nella pittura di viaggio e profondo conoscitore dell’araldica. È stato l’ultimo caporedattore della storica rivista d’arte FMR/Franco Maria Ricci.

  

A Pellizza da Volpedo avevamo reso omaggio tempo addietro sulle pagine di Rivista Savej portandovi alla scoperta della sua casa-studio a Volpedo. Torniamo oggi ad approfondire la sua storia, come uomo e come artista, attraverso le parole di un suo lontano parente. Un punto di vista insolito, un ricordo affascinato e affettuoso allo stesso tempo.

“Anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino.”
Rilke
Viaggio tra i capolavori di Giuseppe Pellizza da Volpedo.

Pellizza attraverso gli occhi di un bambino

Il mio primo ricordo legato al maestro Pellizza da Volpedo risale ai tempi della scuola elementare, a Milano, attorno al 1976. La nostra professoressa aveva trascinato la classe in visita alla sede del municipio meneghino, il celeberrimo Palazzo Marino. Ricordo benissimo come nella sala grande campeggiasse Il Quarto Stato del sommo pittore. Parecchi fra noi, chiassosi e distratti scolaretti, rimasero attoniti se non ammutoliti da quella tela immensa, con il corteo solenne, solido, trasudante luci, con l’imponente figura d’un omone barbuto in panciotto, con la giacca sulla spalla, che incedeva inarrestabile. A me infondeva anche l’idea della canicola lombarda di giugno, forse per via dei cappelli portati da quella massa di lavoratori, che marciava silenziosa su una piazza ocra pallido; molti di loro mi ricordavano certe barbute figure di contadini dei bei paeselli dell’Oltrepo’ Pavese o della Bassa di Giovanni Guareschi. Due cose m’impressionarono anche se allora le percepivo confusamente: la misteriosa atmosfera di silenzio che allignava in tutta la tela e certe pennellate, che, come dire, mi parvero filamentose (ignoravo cosa fosse la tecnica del Divisionismo).

Ricordi d’infanzia

Rammento anche come, desinando a pranzo qualche ora più tardi con i miei genitori, cercassi di descrivere loro quel gigantesco quadro. Non ho dimenticato lo sguardo d’intelligenza che corse fra di loro. Mio padre — cara figura d’imprenditore lombardo che in gioventù si era fatto le ossa nelle miniere di rame del Congo Belga — sorrise, annuì e sentenziò che quell’opera era un capolavoro dell’arte italiana, tra i suoi quadri prediletti, e che se l’artista fosse stato francese sarebbe celebre come Daumier o Corbet.

Daumier, Corbet? Nomi senza senso per me, moccioso ancora ignorante. Ma lui, mio padre, ne capiva eccome di arte. Prima della Guerra aveva conosciuto artisti del calibro di Picasso, Troubetzkoy, Casorati, Vassallo e patrocinato la prima mostra milanese del grande ritrattista Pietro Annigoni. Quella volta, a tavola, si limitò a citare nel suo modo gioviale qualche gustoso aneddoto su quegli artisti. Se si desidera piantar sementi che germinino a meraviglia, quello è sempre un metodo infallibile per parlare ai bambini; instillar loro l’uzzolo della curiosità, delle arti, del dono pericoloso e magnifico dell’immaginazione.

La prima Stazione Centrale di Milano nell’odierna piazza della Repubblica.
La prima Stazione Centrale di Milano nell’odierna piazza della Repubblica.

La Milano dove era cresciuto mio padre (nato l’anno seguente la morte di Pellizza) era stata un mondo umanamente molto diverso dalla città di oggi; certo più bonario e semplice, meno tracotante, frusciante e millantatore: una Milano dove in un semplice ristorante toscano in pieno centro ti poteva capitare d’incontrare ai tavoli artigiani, maestri di scuola, ma pure giornalisti come Montanelli, pittori come Sciltian, gentiluomini della più antica aristocrazia milanese, ex assi dell’aviazione della Grande Guerra, personaggi dannunziani, segaligni editori, poeti squattrinati, facoltosi industriali e austeri senatori del regno che piluccavano con il tovagliolo infilato sotto una barba bianca da profeta biblico. In quella Milano, capitava anche che un intuitivo conte Emanuele Castelbarco patrocinasse nella galleria d’arte Bottega di Poesia una mostra della pittrice Tamara de Lempicka…

Un antenato illustre

Dopo quella visita scolastica a Palazzo Marino, ignoro se volutamente o meno, con i miei genitori ci si recò in Oltrepò Pavese per la consueta gita domenicale. Laggiù la famiglia di mia madre aveva posseduto estese proprietà a Rivanazzano, sia ai piedi della collina dominata dall’antichissimo castello dei Malaspina che al di qua del torrente Staffora. Mentre mio padre guidava la vecchia Citroën appositamente acquistata per le scampagnate — e per essere riempita fino all’inverosimile di primizie di quella terra ubertosa — si mise a discorrere con mia madre proprio del gran quadro di Palazzo Marino, rivelando il nome dell’arista che lo aveva dipinto: Pellizza da Volpedo. E aggiungendo:

era un parente di cui avreste dovuto essere più fieri.
Veduta aerea del borgo di Nazzano e dell’antico castello dei Malaspina.
Veduta aerea del borgo di Nazzano e dell’antico castello dei Malaspina.

In gran parte quelle tenute della bassa Val Staffora erano state eredità della nobile famiglia Pernigotti di Serravalle Scrivia, cui apparteneva mia bisnonna Adelaide, che era stata imparentata con la famiglia di Pellizza, assieme ai Berti di Rivanazzano. Da Rivanazzano a Volpedo, patria di Pellizza, ci saranno forse 3-4 km; un’ora a piedi ai tempi in cui non esistevano le automobili, ma molto meno in bicicletta.

Mi sovvengo che per recarci a Volpedo, e sconfinare nella Val Curone, compimmo però un giro piuttosto largo; perché si passò dinnanzi all’immensa tenuta dei conti Figarolo Tarino, a Rosano. Questa facoltosa famiglia era cugina dei conti Figarolo di Gropello, già amici di mio padre e una cui vasta tenuta nel Monferrato venne, dopo la guerra, acquistata da mio nonno materno. Coincidenza curiosa, il pittore Pellizza da Volpedo ritrasse uno dei conti di Gropello, che ai tempi risiedevano nel grande palazzo di piazza Marconi ad Alessandria. Io stesso sono buon amico della famiglia dei conti di Gropello e talvolta si conversò in merito a questo sfortunato maestro.

L’arte di dipingere uno stato d’animo

Lambendo lentamente l’alto muraglione che cinge Rosano, mio padre esortò me e mio fratello ad ammirare quella imponente costruzione e i maestosi alberi e ci rivelò come, prima dei Gropello, fosse stata la dimora di una potentissima famiglia genovese: gli Spinola. Citando Pellizza da Volpedo e Il Quarto Stato, ci descrisse allora un altro grande quadro gremito di personaggi, famosissimo e più antico, ma dipinto da un pittore chiamato Velazquez, intitolato La resa di Breda, dove era effigiato il grande generale dei re di Spagna Ambrogio Spinola, sepolto proprio lì, a Rosano. Tutto questo mio padre lo raccontava con una vivacità e una capacità di stuzzicare la curiosità inimitabili; poteva rendere avvincente e interessante qualsiasi argomento quell’uomo!

“La resa di Breda”, Diego Velázquez, olio su tela, 1635 ca.
“La resa di Breda”, Diego Velázquez, olio su tela, 1635 ca.

E poi, facendo con la mano un gesto carezzevole rivolto al paesaggio circostante, inondato di sole e dai profumi della campagna, mio padre c’invitò a osservare bene quei dintorni idilliaci, sottolineando come non fosse cambiato molto dai tempi di Pellizza. E qui sfoggiò una parola tedesca che non dimenticai più: Stimmung. Ci spiegò come la Stimmung possa essere anche l’atmosfera particolare che spiccava sia nel quadro di Pellizza che in quello di Velazquez. Perché la Stimmung è una particolare atmosfera dell’animo, non solo fisica, come ad esempio si prova camminando fra le ombre vellutate di autunno dei vigneti, oppure insinuandosi spiritualmente all’interno dei giochi di ombre e di luci de Il Quarto Stato!

Nella casa-studio a Volpedo

Il mio ricordo di Volpedo, la mia Stimmung, coincide quasi in parte con quello di mia madre: il sole incandescente di giugno sulla pianura del Curone, un color verde ossessivo dappertutto e gli alberi di pesche profumate (le famose pesche di Volpedo). Stranamente, riecheggia nella mia memoria in modo molto vago la casa-studio dell’artista, dal soffitto altissimo e con grandi tele alle pareti. Ancora oggi però mia madre rammenta con memoria vivida la sua gita; quando, in una estate del 1946, lei, le sue sorelle e i suoi genitori fossero stati cordialmente accolti nella casa-studio di Pellizza dalle due figlie dell’artista, Maria e Nerina. Furono molto gentili e offrirono loro una caraffa di menta freschissima, mentre altri cespi di menta fragrante si trovavano in un vaso, a centro tavola.

L’ombra lunga del suicidio

Come mai mio nonno avesse deciso di portare le proprie figlie in gita lì a Volpedo lo ignoro, tanto più che egli parlava raramente di Pellizza e se lo faceva era incline a una certa ritrosia; riluttanza certo figlia dei pregiudizi della sua epoca e forse dell’educazione cattolica, ottocentesca, ricevuta dalla severa madre. Temo che la mia bisnonna possidente considerasse ancora la figura di quel parente artista — e per di più morto suicida — quasi come una “pecora nera” nella loro rispettabile e blasonata famiglia. Un po’ come scrisse il Ruffini ne Il Dottor Antonio, best-seller dei tempi della mia inflessibile bisnonna, quando un nobile lord inglese innamorato di Bordighera strepitava che un artista come genero è “un soggetto poco meglio di un pezzente, che vive sui suoi pennelli e sul suo ingegno”. Ma in quel libro veniva fortunatamente zittito dal dottor Antonio stesso, che interloquì con “Michelangelo e Raffaello vivevano anch’essi sui loro pennelli e sul loro ingegno”!

Mio nonno, le rare volte che accennava al cugino Pellizza ne alludeva infatti come a “un nostro parente, una testa calda, sia pace all’anima sua”; a riprova di quanto l’onta del suicidio avesse macchiato per sempre l’immagine di quell’uomo buono, mite e sensibile, all’opposto di figure d’artiste scapestrate e violente come quelle di Caravaggio o Cellini.

“Testa calda” Pellizza? Queste irrispettose qualifiche sono l’inevitabile estratto conto dell’esistenza dei pittori morti suicidi, come van Gogh o il pittore saluzzese Matteo Olivero, degnamente celebrato in questa stessa Rivista Savej, e che considerava Pellizza un amico e un maestro. Ma quanti conoscono o hanno letto le lettere di van Gogh al fratello Théo, mi domando? Quanti sanno che sono veri capolavori della letteratura mondiale, che svelano l’anima di un grande romantico, di una personalità della più alta sensibilità e di estremo rigore morale nella forsennata ricerca del proprio cammino artistico?

Ricordo che il mio maestro di pittura, futurista, una volta mi disse che

per sbirciare van Gogh tagliarsi l’orecchio si riempirebbe uno stadio, che resterebbe vuoto per ammirarlo mentre dipinge una tela.

E’ sempre stato così.

Con una storia triste, tragica, macabra l’audience è assicurata, ma l’immagine del protagonista sovente resta distorta a lungo, prima che il tempo, questo eterno galantuomo, gli renda meritata giustizia.

Ritratto di famiglia

Negli anni appresi che il padre di Pellizza, Pietro, fu proprietario terriero, viticoltore e un fervente garibaldino, assai impegnato nella vita politica e sociale di Volpedo, tanto da essere vicepresidente della società operaia. Non certo un delinquente o un malfattore, perciò.

Da ricerche compiute, la famiglia di Pellizza proveniva da Ferrara, dove erano cortigiani presso gli Estensi. Dal ramo fiorentino, estinto, discese quello tortonese, da cui il ramo di Volpedo, diffusosi nella bassa Val Curone nella seconda metà del XVII secolo. Codesti “Peliceis” erano allora proprietari di terre nella località il Molinetto, in quel di Volpedo. Il padre di Pellizza era imparentato per via della sorella con i nobili Malaspina, la famiglia cantata da Dante e che prima di secolari divisioni familiari signoreggiava nel XII secolo un dominio che confinava con le terre dei marchesi di Saluzzo e si estendeva ininterrottamente fino al mare e a Parma. La madre di Giuseppe era Maddalena Cantù e discendeva da una illustre casata tortonese che risiedeva nella tenuta detta “Lucrezia”.

La ricerca del segno

Quando nacque Pellizza, Volpedo vantava mille abitanti, tre alberghi, botteghe varie. Era un mondo piccolo, ma non isolato, anzi prossimo a grandi strade commerciali. Da bambino Pellizza mostrava già l’indole che mantenne in età adulta; era un mite e un animo gentile, sensibile ai grandi problemi sociali che brulicavano nel nuovo Regno d’Italia, come d’altronde in tutta Europa. I genitori non dovettero pentirsi di avergli concesso d’intraprendere lo studio delle arti, poiché fu un ottimo studente dell’Accademia. Ma a differenza di maestri come Longoni, Pellizza era un vero socialista d’animo.

Come ogni artista, per tutta la sua esistenza si sforzò di trovare “il segno”, quel tratto inconfondibile che contraddistingue le proprie tele da qualsiasi altra e che fa esclamare anche all’uomo della strada “ma è lui!”. Abbracciò il Divisionismo, questa poetica figlia dell’Impressionismo, dove i colori si scomponevano in linee, tratti e filamenti di colore schierati, accostati gli uni agli altri, quasi come le tessere di un mosaico bizantino.

Il Quarto Stato

Pellizza si ridusse quasi al verde per dipingere Il Quarto Stato, ambientato proprio sulla piazza di Volpedo. Questo quadro splendido lo travagliò a lungo e ne rovinò la vita. Adesso è celebrato in tutto il mondo, è apparso sui francobolli, si trova riprodotto nelle dimore dei plutocrati parigini e londinesi, ma dopo la tragica scomparsa del Maestro era rimasto invenduto agli eredi, che non sapevano quasi cosa farsene di una tela di cinque metri. Per fortuna dopo la Grande Guerra un consigliere comunale socialista di Milano si ricordò del capolavoro, quando venne esposto in mostra; contattò il celebre Guido Marangoni per acquistarlo e dopo una sottoscrizione pubblica di 50.000 lire il quadro venne infine alienato dagli eredi.

“Ambasciatori della fame” è la prima prova ad olio che condusse poi alla redazione finale de “Il Quarto Stato”. Tuttavia questa versione non soddisfò il pittore, che decise di rivedere la composizione creando un quadro di dimensioni più grandi: “Fiumana”.

Così il dipinto finì nelle Civiche Raccolte d’Arte di Milano. Era il 1922, epoca del Biennio Rosso. La tela fu ostentata nella sala più ampia del Castello Sforzesco di Milano, ma con l’avvento del Fascismo fu accantonata nei depositi. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al sindaco socialista di Milano Antonio Greppi, Il Quarto Stato riemerse dall’oscurità e fu trasportato nella sala del Municipio Comunale, dove rimase per quasi trent’anni. Ma era considerato ancora troppo spinoso come soggetto, se non compromettente. Dopo un restauro che ne sciolse decadi di sudiciume e una mostra alla Royal Academy di Londra, ebbe veramente inizio la consacrazione e la fama strameritata.

Ricordo infine come, con cocente rimpianto, mio padre ricordò che Pellizza propose quel quadro per la leggendaria l’Esposizione del Traforo del Sempione del 1906, ma fu scartato perché “troppo triste”. Che differenza con la Stimmung, l’atmosfera dell’animo rivelatami da mio padre durante quella gita a Volpedo in un mese di giugno di tanti anni addietro!

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