Illustrazione di copertina de “La chiave a stella”, Einaudi, 2006.
Nel 1978 Primo Levi pubblica “La chiave a stella”, in cui, attraverso la voce diretta del protagonista Tino Faussone, racconta la storia di un operaio specializzato che si reca in vari paesi per montare gru, ponti, strutture metalliche per impianti petroliferi. A quarant’anni esatti dalla pubblicazione di quella che è considerata l’opera più ottimista di Levi, Fondazione Enrico Eandi attraverso la sua casa editrice Edizione Savej, sceglie di omaggiare uno dei più grandi scrittori piemontesi pubblicando una nuova edizione del saggio di Bruno Villata “Primo Levi e il piemontese. La lingua de La chiave a stella” .
Un testo che ha il merito di aver messo in luce un aspetto poco analizzato di quest’opera di Levi che suona come una vera e propria dichiarazione d’amore verso il proprio dialetto.
Dare conto di cosa racchiudano un racconto, un romanzo, un’opera d’arte in generale è un’operazione quasi sempre parziale: si può approcciare un’opera dal punto di vista delle sue radici, cioè i fili che la legano alla storia che l’ha preceduta, tentando di indagarne le fonti che l’hanno ispirata e che in qualche misura sono entrate a farne parte (di letture fatte dall’autore, di cronaca a lui contemporanea, di esperienze di vita vissuta in prima persona o per sentito dire); si può affrontare un discorso che miri invece a identificarne i legami con il resto della produzione artistica dell’autore che l’ha creata, notandone variazioni di stile oppure conferme; si può indagarne la valenza politica, la portata, l’incisività che questa può aver avuto sul mondo in cui si affacciava; se ne può indagare l’estetica, l’aderenza a qualche corrente artistica, la letterarietà o invece la tendenza alla saggistica; si può riflettere sulle parole che impiega, i nomi propri, i nomi di luogo; si può anche cercare di descriverne la lingua nel suo complesso.
La chiave a stella, come è accaduto per tutti gli altri capolavori di Levi, ha dato e continua a dare ai lettori e agli studiosi la possibilità di avvicinarlo da ognuno di questi punti di vista. Si tratta di materiale complesso, approcciato e poi elaborato in maniera scientifica, quindi restituito con grande semplicità, chiarezza e bellezza (gli scienziati sanno fare questo, partire dal caos che è la vita, che è la materia, e semplificare, rendere lineare, sintetizzare, parola cara ai chimici; lo scrittore può poi aggiungere la “poesia”).
La curiosità di Primo Levi scienziato e studioso — una volta pensionato era quasi quotidianamente presente in Biblioteca Nazionale, a Torino — è parte fondante anche di questo romanzo, in cui la necessità e passione per il narrare non risparmiano al lettore giochi, allusioni, riferimenti dotti, spiegazioni di questioni tecniche farcite di termini settoriali; sono tante poi le strade e i sentieri sfiziosi per la mente del lettore e dello studioso, quasi delle prove di abilità, sottigliezza, serrature a combinazione che giacciono nel testo con l’implicita richiesta di essere aperte, la combinazione trovata.
La chiave a stella è un romanzo che si compone di tante storie brevi, in cui il narratore -personaggio Primo Levi è l’ascoltatore delle storie di Faussone, un operaio torinese specializzato nel montaggio di infrastrutture, amante dell’avventura e del viaggio, purché siano motivati dalla necessità della sua insostituibile manodopera ed esperienza di tecnico montatore. Nei rari e brevi periodi in cui Faussone non è impegnato in qualche cantiere in giro per il mondo, staziona insofferente a Torino, ospite di due anziane zie che tanto vorrebbero che il nipote si sposasse.
Primo Levi invece veste i panni appunto dell’ascoltatore delle avventure di Faussone, dicendo di sé di essere un chimico, scrittore nel tempo libero; a questo proposito esprime più volte nel corso dell’opera il desiderio di trasformare le storie dell’operaio specializzato in una raccolta di racconti — non a caso il mestiere di Primo Levi nella realtà storica fu proprio il chimico, lavoro abbandonato poi solo per lasciare il posto a quello dello scrittore, già in sé indizio del realismo che l’opera intende mettere in scena; i due si incontrano in una fabbrica dell’Unione Sovietica, entrambi lontani dall’Italia e da Torino per via dei loro rispettivi lavori.
Ciò che fa di quest’opera un romanzo è l’unione dei racconti di Faussone (uno anche di Levi, in verità) tramite una cornice, che appare qua e là nelle puntualizzazioni fuori campo di Primo Levi personaggio e narratore. “Faussone, a cui in altre sere io ho raccontato tutte le mie storie…”: Faussone, la pagina bianca dello scrittore, a cui tutto si può dire, a cui poter far dire qualunque cosa.
L’opera appare in un momento storico che risentiva fortemente dell’ideologia nata negli anni ’60 per la quale il dialetto era avvertito come sintomo di ignoranza dell’italiano, di impoverimento intellettuale, mentre l’italiano era inteso come il mezzo per riscattarsi socialmente, nella scuola come poi sul lavoro. Ecco che la TV, ormai presente in tutte le case, iniziava a unificare la Penisola, da una parte permettendo all’Italia di stringersi attorno all’italiano come nemmeno Dante seppe fare, dall’altra però anche deregionalizzandola e appiattendo le sue particolarità linguistiche, le sue varietà dialettali.
Gli anni ’70 e ’80 risentirono ancora di questo clima, mentre era però maturata — per alcuni non era mai stata messa in dubbio — anche la consapevolezza della ricchezza linguistica, culturale ed etnografica che i dialetti portavano con sé, così come del progressivo e veloce dileguo di queste risorse e del mondo a cui esse facevano riferimento (la parola che denomina un oggetto muore, se l’oggetto viene meno). Da qui la conseguente necessità di operare nella direzione di un salvataggio, se non del dialetto stesso quanto meno delle testimonianze: la stagione degli Atlanti Linguistici, non a caso, fu inaugurata proprio allora, quando la civiltà contadina e artigiana italiana volgeva ormai al suo tramonto, e alcuni scrittori tentarono il medesimo salvataggio attraverso le loro opere.
Levi fu tra quelli che non misero in dubbio la ricchezza della lingua, e che non la classificarono in base al prestigio sociale di cui godeva, considerando già da allora la varietà dialettale come un tratto da sottolineare, da registrare, a cui dare la dignità che spetta a ogni lingua (nel caso de La chiave si tratta di dare voce al gergo di un operaio torinese, nel momento in cui a Torino la Fiat aveva a tutti gli effetti creato un ecosistema, sociale come linguistico).
Altri scrittori fecero ragionamenti simili, che misero in opera con risultati per certi aspetti paragonabili: primo fra tutti, d’altronde anche legato da rapporti di amicizia a Primo Levi, fu Nuto Revelli, con le interviste in dialetto condotte presso numerosissime famiglie contadine del cuneese, poi confluite, previa traduzione in italiano, ne Il mondo dei vinti (1977, mentre La chiave è del 1978) e ne L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1985, ma basato sui medesimi materiali raccolti per Il mondo dei vinti, dunque nato in contemporanea).
Revelli registrò ore e ore di conversazioni, per poi fare una cernita dei materiali, tradurli in italiano e poi impiegarli nella stesura delle sue opere. La traduzione dal dialetto all’italiano avvenne, per usare le parole di Revelli stesso, rispettando “per quanto possibile, anche la struttura delle frasi parlate” (Revelli, 1977, p. VII).
Nuto Revelli scrive inoltre:
Nella traduzione dal dialetto ho rispettato rigorosamente il discorso parlato […]. Non ho tradotto le espressioni dialettali più significative, le parole "intraducibili", ed alcune frasi che restituiscono il "suono" del discorso parlato. (1985, p. X)
Sembra quasi di leggere un commento valido non solo per le opere di Revelli, ma anche per La chiave a stella…
Ecco quindi anche a che livello si situa la rottura certamente premeditata da Levi, che sapeva bene che la padronanza di una lingua non ne scaccia un’altra, ma che anzi, la pluralità di linguaggi e di mezzi di espressione è quanto di meglio uno scrittore possa desiderare di saper ammaestrare in una narrazione; e a Levi questa bravura e padronanza del cambio di registro, del particolare significativo, insomma, il tatto del linguista evidentemente non manca.
L’opera si apre con le parole di Faussone: “Eh no: tutto non le posso dire”. La frase è emblematica: prima di tutto perché Levi ci avverte che in questo romanzo prima si dice e poi si scrive; in secondo luogo perché la narrazione — orale, scritta, cinematografica che sia — è una scelta di porzioni del messaggio che si vuole veicolare, e non si può appunto dire tutto. L’opera d’arte è una selezione del reale utile a dare sensazioni e immagini personali, a dare forma alla storia, identificando tracciati utili a illuminarne il senso. Faussone perciò compie la prima selezione, Levi -ascoltatore la seconda, valutando cosa ritenere nella sua memoria; Levi-scrittore mette poi sulla carta un ulteriore assortimento del materiale, selezione al cubo con aggiunta di escursioni della fantasia ed escamotage stilistici, finalmente opera d’arte.
“Dunque le stavo dicendo”, esordisce poi Faussone in Meditato con malizia (La chiave a stella, p. 7); alla pagina successiva continua “In quel porto che le stavo dicendo”, e poche righe sotto “Allora, le stavo dicendo”, e così via per tutto il libro.
Ma se in quest’opera prima di tutto si dice, la domanda fondamentale è: in che lingua interloquiscono i personaggi Primo Levi e Faussone, nel tempo in cui si svolgono le narrazioni e i dialoghi?
La letteratura in una lingua non è mai soltanto in quella lingua, e a proposito della letteratura in italiano questo discorso forse vale addirittura di più rispetto ad altre lingue, grazie alla varietà di “dialetti” di cui è arricchito il nostro Paese. Un testo scritto in italiano per forza di cose appiattisce la complessità linguistica — e l’espressività — della nostra Penisola su uno standard, che è lo standard appunto dell’italiano letterario, della televisione, della scuola, quello in cui un accento regionale o una sintassi non conforme ai manuali di grammatica sono errori da matita rossa.
La chiave a stella mette invece in campo uno stratagemma linguistico per non appiattire le peculiarità della lingua di Faussone, in questo caso il piemontese, e nello specifico il torinese di un operaio specializzato, e anzi, agisce a tratti addirittura per esaltarla; prima di approcciarci a un testo così, e quindi per comprendere il significato e l’utilità dell’analisi svolta da Bruno Villata, potrebbe interessarci dunque essere più coscienti del materiale di cui si parla, e del meccanismo letterario e linguistico che l’autore, Primo Levi, ha organizzato e messo in movimento.
I testi letterari sono finzione della realtà, di una realtà in cui l’autore stipula un contratto di complicità con il lettore dalle regole chiare; di questa finzione letteraria il lettore deve diventare consapevolmente un favoreggiatore affinché il meccanismo sia efficace, il lettore deve accettare cioè tacitamente e spontaneamente che il romanzo utilizzi una rappresentazione di compromesso che nella realtà non sarebbe realizzabile. Se poi la narrazione è anche avvincente a un certo punto il lettore cessa di essere cosciente di questo compromesso, ormai calato nelle regole della nuova dimensione (si pensi al senso di spaesamento che tutti abbiamo provato nel tornare alla realtà dopo essere stati calati in una dimensione “altra” creata da un romanzo o da un film che ci sono particolarmente piaciuti, in cui ci siamo sentiti particolarmente coinvolti). Ne La chiave a stella il compromesso c’è, e ce ne accorgiamo fin dalle prime pagine, laddove il lettore fa la conoscenza di Faussone, circa trentacinquenne al principio degli anni ’70 del Novecento. Primo Levi mette in scena un personaggio del quale ci pare fin da subito di poter immaginare carattere, attitudini, movenze ed espressioni, soltanto grazie alla lingua che egli parla: si avverte infatti immediatamente che il colore dell’italiano che Faussone parla, fatto di tante vivacissime sfumature, è diverso da quello del tricolore ( “che parlava tricolore”, La chiave a stella, p. 19).
Nelle sole prime tre pagine troviamo espressioni del tipo bavature (in luogo di sbavature), dare il bombé (a significare dare forma arrotondata), farlecca (ferita), si capisce che (tipico tratto del parlato frequentemente impiegato in piemontese, as capis che), è come succhiare un chiodo (locuzione tipicamente dialettale a indicare l’inutilità di un’azione), fa un caldo della forca, era un tipo mezzo e mezzo (locuzione comunissima a indicare qualcosa di non soddisfacente, mes e mes, corrispondente all’incirca all’italiano parlato così così), ci sono degli aeroporti che Caselle fa fino ridere (riferimento al sistema geografico torinese, dove Caselle è il paese dove sorge l’aeroporto).
Troviamo poi parole scritte con una grafia insolita, ad esempio nàit (dall’inglese night, locale notturno) e chetuòk (dall’inglese cat walk, nome di una passerella industriale), che adottano non tanto quella che potrebbe sembrare una grafia fonetica, ma bensì quella che sarebbe l’ipotetica grafia che utilizzerebbe il medesimo Faussone, che renda quindi conto del fatto che il piemontese nel ’900 ha integrato nel suo sistema alcune parole inglesi che, percepite come straniere, sono pronunciate e scritte così come sono ascoltate, senza coscienza né preoccupazione per la grafia corretta, anche perché non scritte ma soltanto, appunto, dette.
Non si tratta di piemontese, evidentemente, e non si tratta di italiano; di cosa si tratta quindi? La risposta la fornisce Levi-ascoltatore-narratore stesso, nel capitolo intitolato La ragazza ardita:
Lui, veramente, aveva detto "’na fija", ed infatti, in bocca sua, il termine "ragazza" avrebbe suonato come una forzatura, ma altrettanto forzato e manierato suonerebbe "figlia" nella presente trascrizione. (“La chiave a stella”, p. 42)
Trascrizione, di questo Levi ci dice che si tratta. Altrove aggiunge infatti che ha scritto
anche per il linguaggio. Ogni epoca ed ogni area hanno valorizzato i rispettivi linguaggi. Anche il Piemonte ne ha avuti, in passato: ma qui a Torino, in fabbrica, è ormai nato un altro italiano-piemontese, dove nuove espressioni, nuovi vocaboli, nuove metafore hanno sostituito il lessico precedente, figlio di una cultura agricola. Ora, nessuno — mi pare — aveva mai registrato in un libro questo nuovo piemontese, che dalla fabbrica ha ormai contagiato la società circostante. Era una lingua letterariamente vergine; ho voluto fare un omaggio, anche linguistico, a Faussone. (“Introduzione”, in “Opere”, I, pp. LIII — LIV)
Trascrizione, dice Levi, omaggio, anche linguistico, a un linguaggio nuovo per la carta, una registrazione di questo nuovo piemontese della fabbrica.
Cesare Segre, uno tra i grandissimi della filologia italiana del ’900, interpreta il fenomeno della trascrizione con il termine traduzione, nello specifico simulata traduzione:
Levi ha opportunamente sostituito al dialetto un italiano regionale che solo saltuariamente acconsente al dialetto: insomma ha finto di tradurre. (“Introduzione”, in “Opere”, I, p. XXIX)
Ancora un’ulteriore circumnavigazione dell’entità linguistica che Primo Levi doveva avere in mente nello scrivere La chiave la fornisce Cesare Cases:
Nel romanzo “La chiave a stella” Levi ha tentato un curioso impasto di italiano e di piemontese per rendere il parlato di un operaio specializzato torinese, il montatore Faussone. (“Introduzione”, in “Opere”, I, p. XIII)
mentre Marco Belpoliti, parafrasando Gian Luigi Beccaria (Beccaria 1978, pp. X-XI), parla di
italiano piemontizzato, come aveva osservato già Beccaria, tipico di tornitori, fresatori, aggiustatori, elettricisti; invenzione rispetto a quello adottato da Fenoglio e Pavese, che nelle loro opere avevano fornito prove di “piemontese illustre”, di radice rurale; inoltre come ricorda Beccaria, il libro contiene una serie di termini tratti dai "linguaggi settoriali" (lingua di fabbrica, di azienda) con l’aggiunta di numerosi esempi di gergo furbesco cittadino (l’edizione annotata rende espliciti molti di questi termini). Con questo libro Levi non ci fornisce la traduzione del dialetto in italiano (cosa che accade in altri narratori, per esempio Lucio Mastronardi), né, scrive Beccaria, "un italiano infetto di dialettismi inseriti a macchia qui e là", quanto un italiano "pensato" in dialetto, "la cui dialetticità è giocata, più che sul lessico e sulle locuzioni, sulla sintassi"; questa è "volutamente povera e ripetitiva, o, per influsso del dialetto, fortemente anacolutica". (1998, pp. 41-44, s. v. “La chiave a stella”)
Bruno Villata, l’autore di questo libro, scorge nella parlata di Faussone un linguaggio che
non costituisce affatto una lingua artificiale o un’invenzione di Primo Levi, ma corrisponde piuttosto all’italiano parlato da persone che solitamente erano abituate a esprimersi in piemontese e che non avevano ancora raggiunto una competenza molto profonda della lingua ufficiale, (“Primo Levi e il piemontese. La lingua de 'La chiave a stella'”, 2013, p. 2.)
precisando che la lingua messa in bocca a Faussone è
un italiano che non solo è ricco di lemmi e di espressioni calcate sulle corrispondenti forme piemontesi, ma che abbonda anche di quelle deviazioni rispetto alla norma toscana che facevano parte del comportamento di quanti erano soliti esprimersi in una delle parlate pedemontane ed avevano scarsa competenza dell’italiano.
Levi, l’unico finalmente titolato per esprimersi risolutivamente in materia ci parla di trascrizione e registrazione. La trascrizione di Primo Levi non è l’operazione dei linguisti e dei dialettologi, che consiste nel rappresentare i suoni di una lingua con il sistema di scrittura di una lingua diversa, né quella dei filologi di fronte a un testo manoscritto; è piuttosto simile alla registrazione, così come precisa Levi stesso.
Registrazione di cosa? Una registrazione di fantomatiche conversazioni avvenute in piemontese, lingua di entrambi gli interlocutori; certamente il piemontese è la lingua preferita da Faussone, e quasi sicuramente è quella impiegata da Levi per mettere a proprio agio il suo interlocutore, per motivi di comune appartenenza torinese (e del tipico campanilismo degli italiani all’estero), al fine di situare la conversazione a pari livello, per marcare la comune provenienza dal mondo del lavoro buono e sano; per trovare, insomma, un codice condiviso.
Per rendere questo sentimento di parità, di appartenenza a un medesimo, Primo Levi adotta un linguaggio che il lettore piemontese riesce facilmente a trasporre quasi esattamente nel proprio dialetto, e che un italiano può facilmente comprendere, senza che gli sfugga in nessun momento la consapevolezza di non essere di fronte a una lingua letteraria, bensì a una trascrizione del parlato che non si astiene mai dal rendere con franchezza e realismo il tono di una conversazione orale.
Trascrizione, poi. Ciò che pare è che con quest’opera Levi progetti di dare colloquialità al suo piemontese, di crescere in verismo, di imparare con il mezzo che gli è proprio, lo scritto, a dire: si può immaginare che Levi — e qui servirebbe poter curiosare tra appunti personali, agendine e foglietti nelle tasche dello scrittore — inizi sistematicamente a annotare frasi in piemontese udite in conversazioni, ascoltate dietro gli angoli, al tavolo accanto al proprio in una mensa o in un bar, così da crearsi un repertorio del parlato da mettere poi nella bocca del suo personaggio, quel medesimo repertorio che lui non padroneggia con la medesima spontaneità di un Faussone e che gli invidia per schiettezza, atavismo e genuinità.
Infine traduzione, da Segre detta “finta” (che Revelli invece attua deliberatamente): sembra infatti talvolta di scorgere una traduzione in italiano di alcuni passi di conversazioni in piemontese, esatta, senza aggiunte né sottrazioni, che fa il pari dall’altro lato con quella che è indotto a fare il lettore piemontese in senso opposto, dall’italiano verso il dialetto, verso linguaggi e modi che gli sono più congeniali.
Come guida alla lettura di quest’opera preziosissima per la porzione di lingua e di cultura piemontese che mette in scena, attraverso la quale Primo Levi sembra riconciliarsi con una delle sue lingue, appropriandosi tramite Faussone di ciò che con dispiacere non gli è proprio nella vita reale, appare apprezzabile un commento puntuale che fornisca proprio quelle traduzioni utili a cogliere
l’ampiezza dell’estensione semantica di tutte le parole e il gioco dei significanti. (Villata, “Primo Levi e il piemontese. La lingua de 'La chiave a stella'”, 2013, p. 4).
Lo studio di Villata introduce il lettore ad alcuni termini tecnici propri della linguistica: che calco semantico, loanshift, diglossia, metaplasmi non siano mostri spaventosi, ma rappresentino il corretto modo di chiamare alcuni procedimenti che Primo Levi padroneggiava non solo istintivamente ma anche dal punto di vista tecnico dello studioso della lingua. Attraverso questo studio il lettore potrà quindi godere con più consapevolezza dell’opera, cogliendone meglio allusioni e sottintesi, e potendo apprezzare aspetti tecnici certamente previsti e premeditati da Levi stesso. Apparirà particolarmente gustosa la sezione dedicata alle parole non riportate dai dizionari italiani, più tecnica invece la sezione dedicata ai fenomeni grammaticali, utile spunto e possibile inizio di una più ampia ricerca per lo studioso che volesse affrontare in un futuro il medesimo tema. Si fruisca dunque questo studio come un apparato di guida alla lettura, per una comprensione più piena e soddisfacente de La chiave a stella.