Quel che resta di una battaglia

Marengo 1800: una visione archeologica del conflitto

La battaglia di Marengo, Louis-François Lejeune, olio su tela, 1802.

Specializzata in Archeologia medievale all’Università di Firenze, ha partecipato a missioni di scavo in Turchia e Uzbekistan; da diversi anni lavora in Piemonte in attività di scavo archeologico e archeologia preventiva. È interessata soprattutto alla storia dell’archeologia e al mutare della percezione del passato.

  

È il 9 gennaio 1807. Il giorno dopo la battaglia di Eylau, dove russi e francesi hanno combattuto tra le bufere di neve, senza che alla fine fosse neppure chiaro chi era veramente il vincitore. Il colonnello Chabert si sveglia, apre gli occhi e non vede nulla. L’aria è irrespirabile, non riesce a muoversi. A stento sposta le mani e tasta intorno a sé: sono tutti cadaveri. Poi si accorge di uno spazio vuoto sopra la sua testa. Immagina che, per la fretta con cui sono stati buttati nella fossa, due morti si siano incrociati sopra di lui, come due carte da gioco alla base di un castello. Trova un braccio non attaccato a niente, lo afferra e con quello, mosso dalla disperazione, si fa strada tra i cadaveri sino allo strato di terra che li sigilla. Non saprebbe spiegare come ma si apre un varco, vede la luce, solo quando riemerge nella neve si accorge di avere il cranio spaccato, e sviene.

Napoleone durante la battaglia di Eylau, Antoine-Jean Gros, olio su tela, 1808.
Napoleone durante la battaglia di Eylau, Antoine-Jean Gros, olio su tela, 1808.

L’archeologia immaginata

Copertina de “Il colonnello Chabert”, Honoré de Balzac, Newton Compton Editori, 2012.
Copertina de “Il colonnello Chabert”, Honoré de Balzac, Newton Compton Editori, 2012.

Il colonnello Chabert è il personaggio di un racconto giovanile (1832) di Balzac; un eroe della battaglia di Eylau che, colpito da una sciabolata, viene dato per morto, gettato in una fossa comune ma poi, il giorno dopo, si risveglia. Una situazione non del tutto improbabile nella confusione di una battaglia campale di quelle dimensioni; successe ad esempio, proprio a Eylau, al soldato francese Jean Baptiste de Morbot: il 9 gennaio si risvegliò nudo in mezzo a un mucchio di cadaveri, con indosso solo il cappello e lo stivale destro, che uno dei barellieri stava cercando di sfilargli.

Quando il colonnello Chabert esce dalla fossa, sul campo di battaglia non c’è più nessuno vivo; i cadaveri sono già stati spogliati di vestiti, oggetti personali, armi, e ammucchiati o bruciati. Fingiamo che non sia a Eylau, nel gennaio nevoso della regione — oggi russa — di Kaliningrad; ma invece sia a Marengo, poco meno di sette anni prima, un giorno fangoso di giugno, nella pianura che si estende a est di Alessandria e del Bormida. Proveremo a immaginare, in un esperimento di archeologia visionaria, quello che lui incredulo vede appena sbucato dalla fossa comune: cosa è restato della battaglia, gli oggetti e i corpi che la terra sta per inghiottire e forse conserverà nel futuro. Ma avvertiremo anche, se l’esperimento dovesse riuscire, l’incidenza che su di noi contemporanei hanno quei resti (reali o immaginati, trovati o ricostruiti) e il frammento di memoria storica che essi incorporano.

La Conflict Archaeology in Italia

Esiste una disciplina chiamata Battlefields Archaeology — archeologia dei campi di battaglia — sviluppata a partire dagli anni ’70 del XX secolo, oggi diffusa soprattutto negli Stati Uniti e inclusa nella più ampia Conflict Archaeology.

Studiosi mappano le posizioni dei manufatti rinvenuti su di un campo di battaglia (immagine tratta da battlefields.org).
Studiosi mappano le posizioni dei manufatti rinvenuti su di un campo di battaglia (immagine tratta da battlefields.org).

La Conflict Archaeology si pone l’obiettivo di leggere i conflitti, antichi e moderni, attraverso la lettura dei resti materiali legati alla macchina bellica; in Europa è nata in ambito anglosassone, francese e belga, sulla scia di ricerche amatoriali e, in parte, proprio per regolamentarle. In Italia la Conflict Archaeology, di cui non esiste ancora un insegnamento universitario, ha preso piede in anni più recenti e soprattutto in relazione alla linea del fronte italo-austriaco della Prima guerra mondiale, che passava nelle attuali Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia. La legge n. 78/2001 per la tutela del patrimonio storico e archeologico della Grande Guerra ha equiparato i resti di quel conflitto alle evidenze archeologiche più antiche, ponendo così le basi per questa archeologia del moderno.

Un attimo dopo la battaglia

Sui luoghi della battaglia di Marengo sinora non sono state effettuate indagini archeologiche. Pertanto, in questa sede, ci si prende la libertà di usare la finzione; di leggere quell’evento attraverso una visione archeologica. Se una definizione di archeologia può essere lo studio di quello che resta, che ritroviamo o possiamo ritrovare, fare archeologia di una battaglia campale potrebbe voler dire partire dalla fine, da quello che è restato un attimo dopo la conclusione della battaglia stessa; dall’istante dopo l’ultimo sparo, l’ultimo colpo di baionetta, l’ultimo morto. Proviamo allora a ricomporre l’immagine del campo di battaglia dopo che tutti i vivi hanno raccolto le armi, portato via il grosso dei cadaveri e se ne sono andati.

Mappa delle disposizioni delle truppe durante la battaglia di Marengo.
Mappa delle disposizioni delle truppe durante la battaglia di Marengo.

La battaglia avvenne di sabato, il 14 giugno 1800. Si affrontarono circa 45.000 uomini: da una parte l’esercito francese di Bonaparte; dall’altra quello austriaco del generale Michael Von Melas. Sullo svolgimento dello scontro molto si è scritto e mitizzato: Napoleone l’aveva quasi perso in mattinata e lo vinse nel pomeriggio, soprattutto grazie all’intuizione e al valore del generale Louis Desaix, l’eroe della giornata, che secondo la leggenda sarebbe accorso coi rinforzi nel pomeriggio, dopo aver sentito alcuni colpi di cannone da lontano (si trovava allora nei pressi di Rivalta Scrivia, con l’ordine di raggiungere Novi); e che morì quello stesso giorno, trafitto da un colpo di moschetto al cuore.

Museo Civico di Alessandria: cimeli o reperti?

Reperti esposti al Marengo Museum.
Reperti esposti al Marengo Museum.

Negli anni ’40 dell’800 Giovanni Antonio Delavo, farmacista e cultore di storia napoleonica, acquistò una parte dei terreni dove si era svolta la battaglia e fece costruire una villa, ristrutturando un fabbricato esistente, per celebrare, nel cinquantesimo anniversario dello scontro, la vittoria dei francesi. Villa Delavo divenne così il primo museo napoleonico al mondo. Nel corso del XX secolo la Villa è stata più volte saccheggiata e nel nuovo allestimento inaugurato nel 2009 (Marengo Museum) quasi tutti i reperti esposti non sono originali, ma riproduzioni. Gli unici reperti dell’epoca sono delle palle da cannone e da fucile ritrovati nella zona e alcuni moschetti, di cui non si specifica la provenienza.

Facciata di Villa Delavo, sede del Marengo Museum.
Facciata di Villa Delavo, sede del Marengo Museum.

Anche nel Museo Civico di Alessandria, a palazzo Cuttica, la sala Napoleonica attualmente non espone oggetti relativi alla battaglia ma alcuni cimeli di età giacobina e napoleonica correlati alla città (sigilli, medaglie commemorative), un tamburo di fanteria italiana e un caschetto di fanteria francese di epoca giacobina, un paio di calze bianche in seta con monogramma di Napoleone I; nel pannello esplicativo della sala si citano due baionette ritrovate a Marengo, al momento però non esposte. Nell’allestimento del Museo Civico, piuttosto datato, gli oggetti di epoca napoleonica e giacobina non sono presentati come reperti archeologici: non soltanto perché non derivano da scavi o ricognizioni, e perché negli anni in cui furono posti nelle vetrine non era neppure ancora pensabile di poter fare archeologia di un evento tanto recente; ma anche perché non hanno alcun intento didascalico, e infatti giustamente sono definiti “cimeli”.

Un cimelio, riporta l’Enciclopedia Treccani, è un

oggetto antico e prezioso che si conserva con molta cura; si dice spec. di cose che acquistano pregio perché sono appartenute a qualche personaggio illustre o perché ricordano un’epoca o un avvenimento importante.
Sala Napoleonica al Museo Civico di Alessandria.
Sala Napoleonica al Museo Civico di Alessandria.

Del cimelio non importa conoscere esattamente la funzione né tantomeno come è arrivato in quel museo; importa piuttosto il collegamento con un personaggio o un fatto della Storia: è necessario, quindi, che si tratti di un originale, di un oggetto di provata autenticità storica, che serba la memoria temporale e il “contatto” reale con quell’epoca (in questo senso il cimelio è simile alle reliquie sacre).

La storia con la “s” minuscola

Allestimento al Marengo Museum realizzato dall’Atelier du Chat Botté.
Allestimento al Marengo Museum realizzato dall’Atelier du Chat Botté.

L’allestimento recente del Marengo Museum, invece, riserva molto spazio agli aspetti di vita quotidiana dei soldati, alla storia con la “s” minuscola; perché la descrizione sia il più accurata e completa possibile, ci si è serviti di ricostruzioni eseguite con grande rigore (la maggior parte dei pezzi è stata realizzata dall’Atelier du Chat Botté): non reperti archeologici, dunque, e neppure cimeli, ma oggetti di fattura contemporanea, che sono rappresentazione filologica dell’apparato materiale dell’epoca, ma non essendo originali non recano memoria, non sono “presenza”. In questo modo però è possibile, senza richiedere alcuno sforzo di immaginazione al visitatore, rendere visibile la cultura materiale di quel particolare giorno in modo molto più chiaro di quello che si potrebbe fare se si avessero a disposizione soltanto dei reperti archeologici.

Uniformi, zaini, pipe e molto altro

Così possiamo vedere i soldati della battaglia di Marengo vestiti e attrezzati di tutto punto; indossano camicie e culotte in cotone, cappotti e indumenti più pesanti in lana di pecora, scarpe e stivali in cuoio; sulle spalle portano uno zaino in pelle di vacca, con tutto l’occorrente, e il cui peso medio è stato calcolato di 30 kg (è da tener presente che le uniformi dell’epoca non avevano tasche). Un pannello del museo espone il Regolamento francese dell’8 Floréal an VIII (28 aprile 1800) che prevedeva che ciascun zaino fosse dotato, tra le altre cose, di: pettine, forbici, ditale, tre aghi, cavatappi, un panno per pulire l’arma, un paio di calze, tre camicie, due paia di scarpe, calze di lana e di cotone, spazzole per abiti e da scarpe. Ognuno avrà aggiunto i viveri e spesso anche le immancabili pipe in terracotta o in altro materiale, dotate di un lungo bocchino in legno (le pipe in radica più corte si diffusero da metà XIX secolo); un acciarino, una pietra focaia e un’esca, di solito un fungo d’albero o del cotone, per accendere il fuoco (i fiammiferi non erano ancora stati inventati) e, nel caso della pietra focaia, anche per incendiare la carica nelle armi da fuoco portatili.

Una delle sale del Marengo Museum.
Una delle sale del Marengo Museum.

L’arma più comune in dotazione per la fanteria, che costituiva il grosso dell’esercito di Napoleone, era il moschetto, che — senza baionetta — pesava sui 4,5 kg; caricarlo con le palle di piombo era un processo lungo e articolato; il tiro era impreciso, con una portata di 100 m e rendeva di fatto impossibile mirare; il rinculo della fiammata era molto pericoloso e il rumore assordante. L’artiglieria era potente ed efficace dai 1000 metri, ma poco mobile, essendo trainata da cavalli o buoi; i cannoni sparavano palle di ferro piene, fatte rimbalzare sul terreno.

Immaginare un paesaggio archeologico

Di tutti questi oggetti, quali potrebbero essere rimasti sul campo di battaglia e poi andati sepolti? Le usanze di guerra prevedevano che i morti venissero spogliati dei vestiti, delle scarpe, delle armi e degli oggetti personali di valore. Quando le urgenze militari imponevano di abbandonare in fretta il campo, poteva non esserci il tempo: a Wagram, nel 1809, almeno una parte dei soldati furono seppelliti con le divise, come è risultato evidente dalla posizione dei bottoni in metallo sugli scheletri ritrovati dagli archeologi.

La battaglia di Wagram in un dipinto di Juliusz Kossak.
La battaglia di Wagram in un dipinto di Juliusz Kossak.

Immaginiamo: la battaglia di Marengo è finita da diverse ore, il nostro colonnello è appena riemerso dalla fossa, forse vede qualche cadavere con addosso degli indumenti scartati perché non riutilizzabili. Invece gli archeologi di due secoli dopo — per quanto visionari, sanno bene che tessuti e cuoio generalmente non si conservano a lungo — possono sperare di ritrovare bottoni e fibbie in metallo o qualche oggetto sfuggito e dimenticato: un ditale, qualche ago, una pietra focaia, saranno pure rimasti impigliati nel fango (la battaglia si combatté dopo giorni di pioggia, su un terreno che rese difficili i movimenti della cavalleria e dell’artiglieria, e impedì il tiro al rimbalzo del cannone).

Uomini ridotti a numeri

Riguardo al numero dei soldati morti, le fonti divergono. Si stima che a Marengo i morti francesi siano stati tra 3.000 e 7.000, quelli austriaci tra 9.000 e 14.000. Si tratta di cifre piuttosto basse rispetto alle successive battaglie napoleoniche: nella distesa di neve e ghiaccio di Eylau, ad esempio, i morti furono complessivamente almeno 30.000, e a Borodino la cifra superò gli 80.000. Secondo i rapporti del generale Louis Alexandre Berthier, i morti francesi alle ore 21 del 14 giugno sarebbero stati 600, e arrivarono a 800 il 20 giugno; i numeri furono evidentemente ritoccati per ragioni propagandistiche, tant’è che lo stesso Berthier riporta 6.000 tra morti e feriti austriaci, quando il rapporto degli austriaci parla invece di 963 caduti e più di 5.500 feriti. Nel parco del Marengo Museum una cappella del milite ignoto, fatta costruire dal Delavo, conserverebbe i resti di circa 2.000 soldati morti nello scontro (i dati non sono verificabili, né la provenienza esatta dei resti).

Chi ripulisce i campi di battaglia?

È da tenere presente che il moschetto provocava generalmente ferite più gravi e profonde di quelle inferte dalle armi da taglio, con rischio di cancrene; i servizi medici erano approssimativi, l’igiene tra i soldati pressoché nulla, e molti decessi avvenivano per infezione nei giorni successivi alle battaglie. Sul campo, una volta che gli eserciti se n’erano andati, potevano accorrere gli abitanti delle località vicine, per vedere se c’era ancora qualcosa da recuperare, e i saccheggiatori di denti; con le pinze, estraevano dai cadaveri non solo i denti d’oro (rari e appartenenti solo agli ufficiali) ma anche quelli naturali, ricercati per la fabbricazione di dentiere.

Dentiere fabbricate con denti di Waterloo.
Dentiere fabbricate con denti di Waterloo.

Esisteva un nutrito commercio clandestino di denti; taluni se li facevano estrarre e li vendevano per guadagnare qualcosa, altri profanavano tombe per procurarseli: ma una battaglia campale era l’ideale per recuperare materiale senza troppa fatica. La battaglia di Waterloo, in particolare, rese disponibile una tale quantità di denti di uomini giovani da dover essere trasportata in barili sino in Inghilterra; là i denti vennero bolliti per sterilizzarli, selezionati, e — dopo eventuali ritocchi — inseriti su una montatura in avorio. Le “dentiere Waterloo” ebbero ampia diffusione in tutta Europa e anche negli Stati Uniti.

“Oh, signore, lasci solo che scoppi una bella battaglia e non ci sarà più penuria di denti. Li strapperò al volo, non appena cominceranno a cadere i soldati”.
Bransby Blake Cooper, “The Life of Sir Astley Cooper”

La sepoltura dei caduti

La gestione e il seppellimento dei morti sono un filone classico dell’archeologia e uno dei principali della Conflict Archaeology, con notevoli risvolti di natura etica soprattutto nel caso di conflitti recenti, dalla Prima guerra mondiale in avanti. Nelle guerre del XVIII e XIX secolo normalmente il vincitore destinava una quota del bottino, ricavato dalle spoliazioni dei cadaveri, per pagare la loro sepoltura, spesso in una fossa comune coperta con poche badilate di terra. In alternativa si procedeva all’incinerazione dei cadaveri, per prevenire epidemie. La scelta dipendeva da fattori contingenti: le necessità militari, il clima, la disponibilità di soldati e gente del luogo talvolta ingaggiata — è il caso di Waterloo — per ripulire il campo di battaglia; quando gli eserciti avevano urgenza di ripartire, era la natura a intervenire: avvoltoi, corvi, lupi, volpi. Il sergente Adrien Bourgogne raccontò che cinquantadue giorni dopo la battaglia di Borodino, alle porte di Mosca, il campo era ancora disseminato di rottami e pezzi di cadaveri; la pioggia torrenziale aveva dilavato il terreno, portando alla luce i corpi seppelliti in fretta.

“Contadini che bruciano cadaveri a Hougoumont (Waterloo)” di James Rouse (1816).
“Contadini che bruciano cadaveri a Hougoumont (Waterloo)” di James Rouse (1816).

Le fonti scritte ufficiali non riportano solitamente indicazioni in merito alle modalità di seppellimento adottate, un tema evidentemente poco propagandistico, e la battaglia di Marengo non fa eccezione. Il capitano Jean-Roche Coignet così scrisse dopo lo scontro:

Sfuggito ai predatori, questo scheletro di un soldato britannico morto a Waterloo è stato trovato e identificato dopo 200 anni.
Sfuggito ai predatori, questo scheletro di un soldato britannico morto a Waterloo è stato trovato e identificato dopo 200 anni.
Davanti a noi il campo di battaglia brulicava di soldati austriaci e francesi che raccoglievano i morti e li accatastavano, trascinandoli con la cinghia del moschetto. Uomini e cavalli giacevano alla rinfusa, nel medesimo cumulo, e venivano dati alle fiamme per preservarci da un’epidemia. Sui cadaveri sparsi invece solo un po’ di terra, giusto per coprirli.

A Waterloo diverse testimonianze parlano di pire di cadaveri che arsero per giorni, ma ancora dopo un anno erano visibili sul terreno delle ossa umane ed equine: raccolte e trasportate in Inghilterra, nel porto di Hull, furono inviate alle trituratrici a vapore dello Yorkshire, per essere macinate e poi spedite al principale mercato agricolo nazionale, quello di Doncaster, per essere vendute ai contadini come fertilizzante.

A Waterloo finora sono stati ritrovati, in effetti, pochissimi resti umani, a differenza di altri siti, come Wagram in Austria (luogo di una vittoria napoleonica nel luglio del 1809), dove sono in corso ricerche archeologiche dal 2017, o Vilnius in Lituania, nel 1812 teatro di scontri tra i russi e i francesi in ritirata; qui sono state ritrovate, nel 2001, parti di alcune fosse comuni, contenenti i resti di più di 3.000 individui, in gran parte di età compresa fra 20 e 30 anni, tra cui anche alcune donne, probabilmente personale di servizio: a partire dal 1805, le donne erano state riconosciute come parte dell’esercito, per il quale svolgevano varie funzioni (cuoche, infermiere, lavandaie, venditrici, prostitute, ecc).

“È ormai provato oltre ogni dubbio, attraverso esperimenti su larga scala, che un soldato morto è un articolo di commercio particolarmente prezioso; al contrario, è giusto far sapere come i bravi agricoltori dello Yorkshire, per il loro pane quotidiano, siano in larga misura in debito con le ossa dei loro stessi figli”.
The New Annual Register, or General Repository of History, Politics, Arts, Sciences and Literature for the Year 1822

Ferite immortali

Ognuno di noi può provare a guardare, con gli occhi del colonnello, quel che è restato nella pianura di Marengo il giorno dopo la battaglia: chi vedrà qualche oggetto, il resto di un uomo, le impronte dei carri che hanno portato via cosa si poteva recuperare; chi crederà di vedere ancora i soldati che combattono, che cadono, di sentire le urla, il rumore degli spari di moschetto; chi non riuscirà a scorgere proprio niente, se non quello che è Marengo oggi: Villa Delavo, il monumento funerario di Desaix, il platano di Napoleone.

Lapide commemorativa del generale Louis Desaix.
Lapide commemorativa del generale Louis Desaix.

Quello che è certo è che il nostro colonnello è un uomo nudo; il suo sguardo non ha nulla di commemorativo, di celebrativo. L’archeologia è una disciplina con grandi limiti (quel che resta e viene ritrovato è sempre pochissimo in rapporto a quello che è stato) ma dall’essenza cruda e minimalista; una caratteristica, questa, che forse le permette — nella ricostruzione storica di una battaglia campale — di non trascurare o mettere in secondo piano il fattore delle perdite umane. L’esperimento di archeologia visionaria potrebbe essere utile anche per farci dubitare di quello strano sentimento — inspiegabile a ben pensarci eppure tanto radicato nella nostra psiche — che ci spinge a essere quasi orgogliosi del fatto che sulla nostra terra si sia combattuta una battaglia importante.

Il modo in cui viene plasmata e presentata al pubblico (ad esempio in un museo) l’eredità materiale e immateriale di un evento di questa portata influenza, a distanza di secoli, il nostro modo di agire. Si chiede l’archeologo T. L. Sutherland a conclusione del suo manuale sulla Battlefileds Archaeology:

insegneremo alle generazioni più giovani che una battaglia è stata gloriosa e nobile o che fu sanguinosa, brutale, spregevole, mentalmente e fisicamente traumatica? […] Saremo in grado di dimostrare le conseguenze delle ferite immortali incise su così tanti memoriali di guerra?

Nel racconto di Balzac non c’è un lieto fine. Soltanto dopo diversi anni e peripezie il colonnello Chabert riesce a ritornare a Parigi, ma la sua vita di prima non esiste più: la moglie si è risposata, i suoi beni non gli appartengono più, il suo ruolo nella società è stato cancellato. Il colonnello sconta la colpa di essere ancora vivo quando tutti lo credevano morto e morirà, questa volta per davvero, nella solitudine di un ospizio.

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Bibliografia

Molti dei dati (in particolare, quelli sul numero dei morti a Marengo), sono ricavati dall’apparato didascalico del Marengo Museum di Spinetta Marengo.

  • AA.VV., Discovery of a mass grave of Napoleonic period in Lithuania (1812, Vilnius), in Compes Rendus Palevol, 3, 2004, pp. 219–227.
  • Balzac, Il colonnello Chabert, Firenze, Passigli Editore, 1994.
  • Cabiale V., Conflict Archaeology: quel che resta della Grande Guerra, in AA.VV., Conflitti, lavoro e migrazioni. Quattro “lezioni recitate”, Torino, Seb27, 2018, pp. 49–69.
  • Coignet J.-R., The Note-Books of Captain Coignet, Soldier of the Empire, New York, 1929.
  • Gannon M., Archaeologistis Dig Up Mass Grave of Soldiers Crushed by Napoleon’s Troops, in LiveScience, 8 giugno 2018.
  • Milanese M., Per un’archeologia dell’età contemporanea: guerra, violenza di guerra e stragi, in Archeologia Postmedievale, 14, 2010, pp. 103–108.
  • Nicolis F., Dalla caverna alla trincea. L’archeologia come metodo di conoscenza dei conflitti armati contemporanei, in La guerra che verrà non è la prima, Catalogo della Mostra (Mart, Rovereto 4 ottobre 2014 — 20 settembre 2015), Milano, 2014, pp. 118–127.
  • Selin S., How were Napoleonic battlefields cleaned up?, 2016 (trad. it. qui).
  • Sutherland, T. L., Holst, M. R., Battlefield Archaeology -The Archaeology of Ancient and Historical Conflict, Guidelines for the British Archaeological Job Resource (BAJR), 2015.
  • Vucković A., Waterloo Teeth: Wearing A Dead Man’s Grin, 2019.
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