Tra i paesi stranieri con maggiore presenza piemontese, come scritto in un precedente articolo, ci sono il Brasile, gli Stati Uniti e l’Argentina. Per molti piemontesi, nell’Ottocento e ancora fino alla prima metà del Novecento, l’emigrazione in America rappresentò una fuga dalla povertà; per altri una possibilità di realizzazione professionale; per altri ancora la vita da emigrato si rivelò più dura che in Italia, tanto che diversi fecero ritorno in patria.
Pochi fortunati, invece, in America trovarono un vero e proprio Eldorado. Così fu per Carlo Bauducco, classe 1906, di Moncalieri. Nella cittadina piemontese la famiglia Bauducco possedeva una bottiglieria, dove, oltre a vino e caffè, erano serviti anche dolci prodotti artigianalmente. Nel 1948 a Carlo sembrava che l’Italia, sconvolta dalla guerra, non fosse in grado di offrire possibilità di sviluppo. Fu così che i Bauducco partirono per San Paolo, portandosi dietro la ricetta di famiglia per produrre il panettone. Il segreto stava nell’utilizzare gli ingredienti migliori, lasciare lievitare la pasta a fermentazione naturale e dedicare 52 ore per la produzione di ogni unità.
Nel 1952 fu inaugurata la prima pasticceria nel Brás, quartiere di San Paolo con ampia presenza di italiani. Negli anni Sessanta i Bauducco avviarono il primo impianto industriale a Guarulhos. Dagli stabilimenti uscirono non solo panettoni, ma anche biscotti, torte, pasticceria secca e cioccolatini. Nel 1973 Carlo Bauducco morì e le redini della società passarono al figlio Luigi. Nel 1978 la Bauducco iniziò a esportare i propri prodotti, panettone in testa, negli Stati Uniti. Negli anni ’90, i figli di Luigi affiancarono il padre alla guida della società e a questi successivamente si unì il nipote. Nel 2005 il primo centro di distribuzione statunitense sbarcò a Miami e, nel 2016, il primo impianto di produzione al di fuori del Brasile. Oggi Bauducco è il primo marchio di panettoni in Brasile, con oltre il 40% di quota di mercato e circa 5000 dipendenti, e la società è una delle maggiori produttrici di dolci nel continente americano.
Negli Stati Uniti l’emigrazione piemontese ha portato soprattutto la tradizione vinicola regionale. Diversi piemontesi trovarono terreno fertile nella californiana Wine Country, la più rinomata regione vinicola di tutta l’America, il cui paesaggio ricorda il Monferrato e le Langhe. Il prestigio vitivinicolo di questa regione si deve ad alcuni piemontesi.
Come Secondo Guasti, originario di Mombaruzzo, piccolo paese sulle colline astigiane, dal quale partì per raggiungere Los Angeles intorno al 1880. L’intrepido astigiano in breve tempo intuì le potenzialità della Cucamonga Valley, nel sud della California, e dopo aver acquistato terreni e impiantato numerose specie di viti, nel 1900 diede vita alla Italian Vineyard Company, che di lì a poco sarebbe diventata la più grande società vitivinicola americana prima del Proibizionismo. Poco distante dalla sua azienda, Secondo Guasti mise in piedi, pressoché dal nulla, anche la città di Guasti, nella contea di San Bernardino, una colonia vinicola allora casa di numerosi emigranti piemontesi e ora purtroppo in stato di abbandono.
Una fortuna persino maggiore toccò ai figli di Giuseppe Gallo, cuneese di Fossano, emigrato in California all’inizio del Novecento dopo aver svolto i lavori più disparati in Venezuela e a Philadelphia. In California prese in gestione una boarding house frequentata da immigrati italiani e iniziò a commerciare e a produrre vino. Tuttavia, la scarsa familiarità degli americani col vino e soprattutto le leggi sul proibizionismo resero gli affari molto difficoltosi. Nel 1933, con la fine del divieto della produzione e vendita degli alcolici, i figli di Giuseppe, Ernest e Julio Gallo, rilanciarono l’attività del padre e fondarono la maggiore azienda produttrice di vini negli Stati Uniti, la E&J Gallo Winery, attiva ancora oggi e inclusa da Forbes tra le 100 società private più ricche d’America.
Se alcuni emigrati piemontesi in America ce l’hanno fatta, ad altri invece è toccata una vita di sacrifici, mentre per altri ancora l’esperienza emigratoria si rivelò una vera e propria tragedia. Parecchi, poi, dovettero subire ingiustizie legate alla propria provenienza e ad altri simili pregiudizi.
Questo è quanto accadde al piemontese Bartolomeo Vanzetti e al pugliese Nicola Sacco. Nato nel 1888 a Villafalletto, nel cuneese, a vent’anni Vanzetti entra in contatto con ambienti socialisti. Dopo la morte della madre, parte per l’America in cerca di miglior sorte. Si stabilisce a Plymouth, nel Massachusetts, milita in gruppi anarchici e nel 1917, per sfuggire all’arruolamento, si trasferisce in Messico dove conosce Sacco. Tornati entrambi negli States, nel maggio 1920 i due vengono accusati di rapina e doppio omicidio, reati con i quali non c’entravano nulla. Dopo tre processi, nel 1921 “Nick e Bart” vengono condannati a morte. Decisive furono alcune testimonianze, tra le quali la più inverosimile quella di un ragazzo che identificò gli imputati poiché uno degli assassini correva “come uno straniero”. Il 23 agosto 1927 la sentenza fu eseguita nel penitenziario di Charleston: prima toccò a Sacco, quindi a Vanzetti finire sulla sedia elettrica. A novant’anni di distanza rimangono toccanti le ultime parole pronunciate proprio da Vanzetti prima dell’esecuzione:
La mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano… se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già.
Libri, canzoni, film, opere teatrali e serie televisive ricordano il loro sacrificio, insieme a due lapidi: la prima presso la casa natia di Vanzetti, a Villafalletto, la seconda sulla piazza del paese.
Un episodio differente ma altrettanto tragico si verificò pochi anni prima a Monongah, in West Virginia. Il 6 dicembre 1907 un’esplosione sventrò una miniera di carbone di proprietà della Consolidated Coal Mine of Baltimore. Quella mattina erano al lavoro quasi mille persone: l’incidente provocò 362 vittime ufficiali, delle quali 171 italiane, mentre cause e responsabilità non furono chiaramente accertate, né forse vi fu la volontà di farlo. Tra gli italiani, anche un piemontese: Vittore D’Andrea, nato nel 1869 a San Rocco di Premia, in Val d’Ossola. D’Andrea era emigrato negli USA nel 1903 in cerca di lavoro. L’anno successivo fu raggiunto dal fratello Giuseppe, sacerdote, che per un decennio seguì la comunità italiana di Monongah. L’opera del religioso fu instancabile: egli infatti operò con il Monongah Mines Relief Committee per assistere le vedove e i figli delle vittime, curò il riconoscimento dei corpi e redasse centinaia di pratiche per la riscossione degli indennizzi.
Chi in America non riuscì nemmeno ad arrivare furono i tredici piemontesi morti sul Titanic. Le vittime totali del naufragio furono più di 1.500, di cui 37 italiane. Di queste, appunto, ben tredici avevano origine piemontese, rappresentanti, inoltre, di tutte le province della regione. Il più giovane, cameriere come tutti, è Luigi Crovella, allora diciassettenne di Colombaro, frazione di San Sebastiano, in provincia di Torino. Viste le dure condizioni di vita del periodo, Luigi raggiunse giovanissimo la sorella Irene a Londra. Qui nel 1912 venne reclutato per servire nel ristorante À la carte a bordo del Titanic. Il suo corpo non fu più ritrovato. Torinesi erano anche Giacomo Sesia, ventiquattrenne di Cavagnolo e Giuseppe Bertoldo Fioravante, 23 anni, di Burolo.
Con il Titanic affondarono anche due fratelli, Alberto e Sebastiano Peracchio, nativi di Fubine Monferrato, un piccolo centro dell’alessandrino dal quale molti furono costretti a partire. Alessandrino era anche il ventiduenne Rinaldo Ricaldone, il quale trovò impiego per la prima volta su una nave proprio sul Titanic, il 10 aprile 1912.
L’unico astigiano a bordo del transatlantico era Vincenzo Gilardino, nato a Canelli nel 1881. Vincenzo si era trasferito in Inghilterra a fine Ottocento e, da diversi anni, lavorava a bordo di navi dirette in Australia e in Argentina. Tra un viaggio e l’altro, appena poteva, il giovane tornava al paese di origine. Il corpo dell’unico piemontese a essere stato ritrovato appartiene invece al cuneese Giovanni Battista Bernardi, detto Marcel, anche lui emigrato in Inghilterra in cerca di fortuna. I suoi resti furono recuperati un mese dopo il naufragio da una nave posacavi e successivamente trasferiti in un cimitero di Halifax, in Nuova Scozia. Cuneese era pure il più anziano dei tredici, Candido Scavino, quarantaduenne di Guarene. Ai primi del Novecento si era trasferito a Londra dove aveva sposato un’inglese e dove lavorava come cameriere.
Del borgomanerese Alfonso Perotti rimangono solo una foto e una cartolina spedite alla madre e ai fratelli da Southampton, il 6 aprile 1912. Prima di andare incontro al proprio destino, si dice che il giovane cameriere abbia lasciato il proprio posto sulla scialuppa a una donna. Insieme a Perotti c’era un altro novarese, il ventitreenne Angelo Rotta, anch’egli risiedente a Londra e impiegato sulla nave come cameriere. Giovanni Giuseppe Saccaggi aveva abbandonato Cannobio (a quel tempo in provincia di Novara) sempre per Londra, dove nel 1909 si era sposato e aveva avuto un figlio. Quando si imbarcò sul Titanic, sua moglie era incinta: la bambina, Beatrice Grace, nacque infatti sei mesi dopo la tragedia. Il venticinquenne Giovanni Salussolia, originario di Alice Castello, era invece l’unico vercellese presente sul transatlantico. Era già stato cameriere su altre navi e, ironia della sorte, quello sul Titanic doveva essere il suo ultimo viaggio.
L’Argentina è il paese americano nel quale risiedono il maggior numero di famiglie piemontesi. Infatti, tra il 1876 e il 1978 l’Argentina assorbì più del 50% dei flussi regionali in uscita. Tra questi migranti c’erano anche i nonni e il padre dell’attuale pontefice. Giovanni Bergoglio, il nonno di Jorge Mario, era nato nel 1884 a Bricco Marmorito, una frazione di Asti ai confini con il comune di Portacomaro. All’inizio del Novecento Giovanni si trasferì, insieme alla famiglia, a Torino, dove sposò Rosa Margherita Vassallo, nativa della provincia di Savona. Nel capoluogo nacque anche il padre del pontefice, Mario, ma nel 1918 la famiglia tornò ad Asti dove gestì un negozio di alimentari fino al 1929. Nel febbraio di quell’anno, il nonno, la nonna e il padre del futuro papa s’imbarcarono sul piroscafo Giulio Cesare con destinazione Buenos Aires. In Argentina Mario Bergoglio sposò Regina Maria Sivori, anche lei di origine italiana. Dalla loro unione, il 17 dicembre 1936, nacque Jorge Mario.
Alle molte associazioni attive in Argentina si deve soprattutto il merito di tener vivo il ricordo di chi, come i Bergoglio, lasciarono il Piemonte per la Pampa gringa. Le associazioni argentine dunque contribuiscono a tenere in vita le tradizioni regionali, in particolar modo quelle enogastronomiche e linguistiche. Tanto che il sito ethnologue.com elenca il piemontese tra le lingue parlate in Argentina — caso unico al mondo, anche se il suo status odierno è classificato come “dormiente”. Pressoché tutti i piemontesi, al momento del loro arrivo in Argentina, erano infatti dialettofoni, impiegavano cioè il dialetto come lingua principale, e il vernacolo piemontese rimase attivamente in uso nelle province di Córdoba e Santa Fé fino agli anni Cinquanta.
A tutela di tutti gli emigrati piemontesi (e anche degli immigrati in Piemonte), dal 1987 è in vigore una legge regionale, successivamente modificata da altre disposizioni, in materia di movimenti migratori. La legge prevede che la Regione Piemonte istituisca, all’inizio di ogni legislatura, una Consulta regionale dell’emigrazione e dell’immigrazione e un Fondo regionale, e inoltre attui “interventi di carattere organico […] in favore di emigrati, immigrati e loro Associazioni”. La Consulta, in particolare, ha il compito di “esprimere parere sui problemi d’inserimento nelle attività produttive e nella vita sociale dei cittadini immigrati e dei lavoratori che rientrano dall’estero”, “segnalare l’opportunità di proporre al Parlamento […] provvedimenti ed iniziative tendenti a tutelare i diritti degli emigrati e delle loro famiglie” e di “proporre la convocazione di conferenze regionali e la partecipazione a conferenze nazionali sui problemi dell’emigrazione e dell’immigrazione”. Si tratta di una legge molto articolata, sensibile a ogni problematica del fenomeno migratorio e, per quel periodo, decisamente all’avanguardia. Alcune delle sue disposizioni, per la verità, avrebbero necessità di essere adeguate alle nuove dinamiche migratorie e alla mutata situazione economica complessiva del nostro paese. Specialmente per insufficienza di fondi, infatti, spetta soprattutto all’iniziativa delle oltre 200 associazioni disseminate un po’ ovunque nel mondo stare vicino ai piemontesi lontani dal Piemonte e ricordare a tutti le proprie radici.
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