L’Università di Torino, nei primi decenni del dopoguerra, era una fucina culturale di livello internazionale. Soprattutto nelle materie umanistiche e specialmente nel dipartimento di italianistica, guidato da Giovanni Getto, si faceva strada una scuola di intellettuali che si sono sparsi per il mondo a insegnare lingua e cultura italiana — e molto spesso sono tornati a Torino carichi di nuove esperienze, storie, culture.
Renzo Pavese, astigiano, è un rappresentante illustre di questa scuola di intellettuali. Docente di Lingua e Letteratura italiana all’Università di Uppsala durante gli anni Sessanta, è tornato in Italia un quindicennio più tardi, dove ha proseguito la carriera di italianista all’Università per Stranieri di Perugia, e all’Università di Torino, dove ha insegnato Letterature Scandinave. Pavese è un prezioso testimone della vita culturale torinese, italiana e svedese dal dopoguerra a oggi, e di quella scuola accademica tutta piemontese che ha fatto dell’italianistica una materia di interesse non solo nazionale, capace di parlare ad altre genti e ad altre culture. Lo incontra Giuliano D’Amico, suo ex allievo e ora docente di letterature nordiche all’Università di Oslo, che ha scoperto la Scandinavia e la sua cultura proprio grazie a lui.
Cominciamo parlando della sua infanzia e giovinezza…
Sono nato a Montemarzo d’Asti, in frazione Ghirlandina, nel 1935. La mia era una famiglia contadina, mio padre aveva una cascina e delle vigne, produceva 250 brente di vino all’anno.
A quattro anni guardavo le galline e i conigli, a sette lavoravo in campagna. Durante la guerra, mio padre mi mandava lungo la strada a vendere il latte — un mestiere un po’ pericoloso, viste le numerose colonne di soldati tedeschi che passavano da lì. Dopo l’asilo e le scuole elementari, che ho frequentato a Montemarzo, un giorno ho fatto otto chilometri a piedi per iscrivermi alle scuole medie, ad Asti. Mio padre avrebbe voluto che proseguissi studiando ragioneria, ma io ho preferito il Liceo Classico “Vittorio Alfieri” di Asti. La cosa ha fatto molto arrabbiare mio padre!
E dopo il liceo si è trasferito a Torino per studiare all’Università?
Non ho cominciato subito a studiare. A Torino sono arrivato a diciott’anni e ho cominciato a lavorare al Margara, in via delle Rosine, che all’epoca era sia convitto che scuola. Mi mantenevo seguendo i bambini più piccoli e insegnando un po’. All’Università mi sono iscritto qualche anno dopo. Era un’eccezione nella mia famiglia e nel mio ambiente — che io sappia, a Montemarzo, solo un’altra persona della mia generazione ha frequentato l’Università.
Cosa ci può dire dell’ambiente culturale dell’Università di Torino in quegli anni?
Ho cominciato a studiare alla Facoltà di Lettere verso la fine degli anni Cinquanta. Mi sono specializzato in letteratura italiana e ho avuto la fortuna di studiare e laurearmi con Giovanni Getto, che all’epoca era una vera autorità nel campo dell’italianistica, non solo a Torino. I miei compagni di corso si chiamavano Edoardo Sanguineti, Giorgio Bàrberi Squarotti, Guido Davico Bonino, Marziano Guglielminetti, Claudio Magris (anche se quest’ultimo si è laureato in letteratura tedesca). Era un mondo molto diverso dall’università di oggi. Alla discussione della mia tesi — su Francesco Redi, medico e letterato seicentesco — un signore del pubblico si è alzato per intervenire. Era Italo Calvino.
Che cosa le ha insegnato Giovanni Getto?
Un sistema di critica letteraria. L’attenzione alle parole utilizzate dall’autore, soprattutto a quelle che si ripetono di più. Non solo dal punto di vista linguistico, ma semantico; capire con quali sfumature di significato l’autore riutilizza una parola e perché. Un metodo filologico che mi è stato molto utile anche successivamente, quando ho cominciato a insegnare italiano in Svezia, e poi anche al mio ritorno, sia nei licei di Torino che all’Università per Stranieri di Perugia.
Getto aveva inoltre, se non sbaglio, una serie di contatti all’estero che hanno permesso a lei, come ad altri suoi allievi, di fare carriera universitaria altrove…
Sì, soprattutto in Francia era molto conosciuto. Ma anche in altri paesi: io sarei dovuto andare in Romania, ma ho rifiutato. Sono finito in Svezia, in fondo, per caso: un giorno Getto mi ha telefonato — io abitavo in via dei Mille, non avevo telefoni, ha dovuto chiamare la trattoria sotto casa — per dirmi che c’era un’opportunità di insegnamento all’Università di Uppsala. Ho subito accettato.
Cosa sapeva della Svezia prima di partire?
Più o meno niente. Forse avevo letto qualche resoconto di viaggio di scrittori italiani, ma non ne sono sicuro. Il Nord, comunque, mi aveva sempre affascinato, infatti io sarei rimasto volentieri lassù. Nel frattempo avevo conosciuto mia moglie, Maria Pia Muscarello, proprio fuori dall’ufficio di Getto, che all’epoca era a Palazzo Madama. Sono partito per la Svezia nell’ottobre del 1963, sono tornato a gennaio 1964 per sposarmi, e poi siamo tornati entrambi a Uppsala. Lei ha interrotto gli studi, ma si è laureata in letteratura in Svezia e poi, dopo il nostro ritorno, anche in Italia.
Quanto tempo siete rimasti in Svezia?
Siamo rimasti in pianta stabile fino al 1972, poi saltuariamente fino al 1978, quando abbiamo chiuso definitivamente con la Svezia e siamo tornati a Torino. All’epoca non si viaggiava in aereo, ma in treno o in macchina. Erano viaggi lunghi, con almeno due tappe, attraverso la Germania e la Svizzera. Tornavamo in Italia in estate, mentre i nostri parenti sono venuti al massimo una volta o due. Viaggiare non era semplice ed economico come ora.
Cosa ricorda del suo primo incontro con la Svezia?
Ho dei bellissimi ricordi del nostro arrivo in Svezia. I colleghi, sia svedesi che italiani, ci hanno subito accolto con calore, trovandoci anche un alloggio, dove siamo rimasti alcuni anni — lì sono nati i nostri due figli, Monica e Fredrik. La Svezia era forse anche migliore di come me la immaginavo. C’erano una serie di comodità, a livello di infrastrutture, servizi e assistenza che in Italia ci sognavamo. Non ci siamo mai sentiti spaesati, abbiamo sempre avuto molti amici svedesi che erano estremamente interessati a noi e alla cultura italiana. All’inizio parlavamo francese e un po’ d’italiano con loro, poi abbiamo imparato lo svedese abbastanza rapidamente e ci siamo integrati.
Cosa interessava agli svedesi della cultura italiana?
C’era una grande passione per le città d’arte. Firenze, Roma, Venezia — anche se di Torino e del Piemonte sapevano poco o niente. Solo negli ultimi anni, dopo le Olimpiadi, si è diffuso un certo interesse per le nostre zone. Molti dei miei studenti, comunque, erano interessati alla lingua e alla letteratura. Curiosamente — o forse no — ho riscontrato gli stessi interessi negli studenti stranieri che ho seguito dopo, all’Università per Stranieri di Perugia. Venivano da tutte le parti del mondo, non erano un gruppo culturalmente omogeneo come a Uppsala, ma la passione per la cultura italiana pareva essere la stessa in tutti i paesi.
Ecco, parliamo del suo ritorno in Italia. In un certo senso, l’esperienza svedese ha fatto di lei un ambasciatore culturale del Nordeuropa…
Fin dal mio arrivo in Svezia mi sono interessato alla cultura locale, ai canti, alle tradizioni, e ovviamente alla letteratura. Anche questa è un’eredità di Getto: formare una generazione di italianisti che, inseriti all’estero in un nuovo ambiente accademico, sono tornati in Italia come specialisti di una nuova materia. All’epoca non era così semplice specializzarsi, ad esempio, in letteratura romena o svedese. Inoltre, la mia esperienza svedese ha avuto una grande influenza sui miei studi successivi. Tra le altre cose, ho scritto una storia delle letterature nordiche (Attività letteraria scandinava, Roma, Bulzoni 1988); insieme a mia moglie, tutte le voci di letterature nordiche dell’enciclopedia UTET, e numerosi studi sugli scambi culturali e letterari tra Italia e Scandinavia. Tutte queste esperienze ho cercato di trasmetterle ai miei studenti di scandinavistica all’Università di Torino.
Cosa è cambiato in Svezia da allora ad oggi?
Io non la trovo particolarmente cambiata. Il sistema del welfare mi pare che sia ammirevole ancora oggi. Mia moglie vede più differenze, soprattutto nei profondi cambiamenti sociali e la forte immigrazione che l’ha caratterizzata negli ultimi anni. Gli anni che abbiamo passato in Svezia erano comunque l’epoca d’oro della socialdemocrazia svedese, con un livello di benessere mai eguagliato in seguito. Abbiamo, come ho già detto, moltissimi bei ricordi che fanno parte della storia della nostra famiglia.