Una sagoma inconfondibile si alza dalle placide pianure risicole lungo il fiume Sesia a cavallo delle province di Novara e Vercelli: si tratta dell’abbazia benedettina dedicata ai santi Nazario e Celso. L’antica fondazione rappresenta uno straordinario e raro esempio di abbazia fortificata in pianura che, nel corso dei secoli, ha plasmato intorno a sé il piccolo centro di San Nazzaro Sesia.
Mentre la topografia, e anche un poco l’identità, dei paesi circostanti sono state lentamente trasformate dalla costruzione di centri commerciali, reti autostradali e ferroviarie, depositi logistici, circonvallazioni e perfino un parco divertimento acquatico, a San Nazzaro il tempo pare essersi fermato. È come se l’abbazia, che si trova esattamente al centro dell’abitato di cui ha precorso la nascita, con il suo materno abbraccio secolare avesse voluto proteggere il paese dalle insidie della civiltà dell’acciaio e del cemento. L’abbazia è infatti tutt’uno con il paese e i suoi abitanti, tanto che San Nazzaro Sesia è anche chiamato più semplicemente Badìa (dal latino tardo abbatīa e sinonimo di abbazia), mentre con il termine badiòt, nella parlata locale, si indicano i sannazzaresi.
La prima pietra del complesso monastico si ritiene sia stata posata intorno al 1040 e riguarda l’attuale torre campanaria. Si tratta di una struttura a sezione quadrata, alta circa 35 metri ed eretta secondo criteri stilistici romanici. È interamente in ciottoli di fiume fino a metà altezza; da lì in poi ha parti in mattoni per attenuarne il peso. Come ricorda Samuel Beltrame, sannazzarese doc e attivo membro dell’associazione culturale Amici dell’Abbazia,
tra fine ‘800 e inizio ‘900 la torre ha subito un forte dissesto, al quale è stato posto rimedio negli anni ’20 del secolo scorso con alcune opere di consolidamento. Sono state inoltre chiuse alcune aperture per dare maggiore solidità. Il cedimento, però, è ancora visibile dal chiostro.
La costruzione, inoltre, ingloba uno dei reperti più antichi del complesso abbaziale.
Mi riferisco a un frammento di sarcofago in pietra, murato successivamente alla base del campanile, sul quale si può ancora leggere il nome del defunto: Cornelio Corneliano. In epoca romana tardoimperiale, il terreno su cui ora sorge l’abbazia era infatti un latifondo appartenente alla famiglia dei Corneli. Rispetto alla costruzione originaria, la torre è oggi provvista di copertura, che è ottocentesca, posta quando furono installate le campane — le prime, di ferro, sono di epoca napoleonica. Fino ad allora era aperta ed aveva funzione difensiva.
Per capire meglio la genesi dell’intero complesso è necessaria, con l’aiuto di Samuel, una breve digressione storica.
La fondazione dell’abbazia è convenzionalmente legata a un documento del 1040, chiamato “Donatio Riprandi”. Riprando è il 48° vescovo di Novara, membro dell’influente famiglia dei conti di Biandrate nonché fratello del vassallo imperiale Guido. All’epoca il territorio di San Nazzaro era proprietà dei signori di Biandrate e si trovava al confine tra le due potenze del periodo: da una parte l’Impero, con i suoi vassalli, e dall’altra i comuni italiani. Riprando, appena insediato e d’accordo col fratello, fece costruire una torre e un cenobio da concedere in gestione ai monaci benedettini. Ma in quella zona non c’era ancora alcun centro abitato, quindi è ovvio che si trattasse di un’opera prettamente militare — difensiva.
Per chi, come me, ha avuto la fortuna di visitare la sommità del campanile, dopo aver trattenuto il fiato davanti a un simile e inaspettato spettacolo, avrà certamente notato come siano perfettamente visibili, nonostante la distanza, le città di Novara, da un parte, e Vercelli, dall’altra, e più vicino il corso del fiume Sesia.
Nel Medioevo questa zona era passaggio obbligato per chi si spostava tra il vercellese e il novarese: poco distante, infatti, si incrociavano la via biandrina, che collegava il basso novarese con la Valsesia e Vercelli, e la strata lombarda, antesignana dell’attuale Torino — Milano. Il territorio di San Nazzaro inoltre corrispondeva a uno dei principali guadi del fiume Sesia, ora all’altezza della cascina Devesio. Insieme alle popolazioni naturalmente transitavano anche gli eserciti, e per questo motivo la torre rappresentava un punto di osservazione strategicamente importante.
Genesi e datazione, tuttavia, non mettono d’accordo tutti gli studiosi. Per esempio, Antonio Aina, autore della prima importante monografia sull’abbazia, ritiene poco convincente la decisione di Riprando di fondare, con beni propri, un monastero esentandolo da ogni ingerenza familiare e, soprattutto, rendendolo
indipendente dalla giurisdizione vescovile sua e dei suoi successori, creando in tal modo nel territorio della sua diocesi un’isola indipendente […] in cui la sua autorità episcopale fosse nulla.
È inoltre pressoché assodato che l’attuale complesso sia stato fondato su un preesistente e più antico monastero benedettino. Ne fanno menzione i vescovi novaresi Aupaldo e Pietro III, i quali, intorno al X secolo, lamentavano il decadimento del monastero, forse per le incursioni degli Ungari e dei Saraceni, o più semplicemente a causa dei “nemici della Chiesa”.
Ciononostante la vita abbaziale riprese e proseguì fino a raggiungere il proprio zenit intorno alla metà del 1400. In quel periodo fu l’abate Antonio Barbavara, di famiglia lombarda e cresciuto nel fertile ambiente milanese, a prendersi cura del complesso. Furono introdotte nuove colture e bonificati molti terreni circostanti. L’abbazia in breve tempo divenne il complesso con il più alto reddito di tutto il Piemonte — riuscendo a raccogliere decime in tutto il novarese, nel vercellese, in parte del pavese e in tutta la Valsesia, e per un breve periodo fu anche posta alle dirette dipendenze del pontefice. Grazie al Barbavara l’abbazia venne inoltre ricostruita, fortificata e fu ampliata la chiesa fino ad assumere l’aspetto odierno.
Il nartece, ossia le due ali porticate che paiono estensioni delle navate laterali della chiesa, e che tanto contribuiscono all’aspetto peculiare della struttura, ha origine proprio dal rinnovamento voluto da Antonio Barbavara. Il nartece era probabilmente utilizzato nei mesi invernali per le cerimonie dei monaci e conteneva al suo interno l’hospitalis, cioè la foresteria per i viandanti.
Nartece e rosone della chiesa - © Samuel Beltrame
La chiesa, edificata sulle fondamenta del precedente edificio romanico, è dunque più grande rispetto all’originale. Rappresenta un modello notevolissimo di architettura gotica lombarda: la facciata a capanna, preziosamente ornata da cornici, esibisce il tipico rosone decorativo centrale e un portale sormontato da un arco a sesto acuto.
Il portale in legno ha una decorazione simile a molte rinvenibili a Novara, nel vercellese e nella Lomellina. L’originale — puntualizza la mia guida, molto deteriorato e anche dato alle fiamme durante un assalto dei parrocchiani all’abbazia, fu sostituito e ora si trova a Palazzo Madama, a Torino.
L’edificio è a pianta rettangolare e termina con un’ampia e luminosa abside. È diviso in tre navate con volte a crociera scandite da sei pilastri. All’interno la chiesa non presenta decorazioni, fatta eccezione per due pregevoli affreschi — più un terzo, assai deteriorato e di qualità inferiore.
Il primo si trova sul fianco della navata laterale destra. Fu, come recita l’iscrizione, commissionato dalla popolazione del luogo e realizzato il 12 ottobre 1480. Al centro del dipinto, sotto una specie di palco, è raffigurato San Nazario a cavallo. A destra, per chi guarda, sono ritratti due personaggi in piedi: Santa Caterina d’Alessandria e San Rocco; altri due a sinistra, i cui volti però non risultano più visibili, anche se nel personaggio maschile è riconoscibile San Bovo.
Si tratta evidentemente di santi venerati dalla gente di quel periodo. L’autore — come mi informa Samuel, è riconosciuto essere Giovanni Antonio Merli, pittore del secondo Quattrocento e originario di Galliate. Si tratta di un’attribuzione riconosciuta soltanto da una decina d’anni.
Il secondo affresco, al termine della stessa navata, è invece più enigmatico e carico di elementi singolari. È innanzitutto, con ogni probabilità, antecedente al primo. Una data, 1464, è impressa sul dipinto, anche se è ancora tutta da verificare poiché potrebbe corrispondere a modifiche successive. L’affresco, inoltre, non è stato ancora attribuito ed è in fase di studio.
L’aspetto che colpisce di più è proprio la narrazione. Sono in pratica rappresentate le passioni, le sofferenze e contemporaneamente il loro superamento. Inoltre i personaggi principali sono raffigurati diversamente dall’iconografia tradizionale. San Sebastiano, a sinistra, è in genere rappresentato trafitto dalle frecce, mentre qui è abbigliato come un cavaliere, con una spada e due frecce in mano. Sant’Agata, a destra, è ritratta nel bel mezzo del martirio, praticamente nuda e sanguinante, con a fianco i suoi due aguzzini con i pantaloni pericolosamente abbassati! Entrambi i santi hanno poi il capo rivolto verso la figura centrale della Madonna e non sembrano avere un aspetto particolarmente sofferente.
La Vergine al centro dell’affresco è seduta in trono e tiene in braccio il bimbo Gesù, il quale ha un cardellino appoggiato sulla mano. Intorno a loro vi sono angeli distribuiti su diversi piani e con diversi mansioni — oltre alle inquietanti parti anatomiche nella sezione superiore. Gli angeli in alto sembrano eseguire una musica soave, condotta con un flautino, una cetra e un tamburello; mentre nel piano inferiore un angelo percuote un tamburo con una bacchetta e contemporaneamente suona uno strumento a fiato; quello a destra imbraccia invece una ghironda, strumento del periodo usato come basso continuo. Ci sono poi gli angeli intorno alla Madonna e al bambino che cantano in polifonia: lo si nota dalle diverse espressioni della bocca e dagli spartiti differenti che recano in mano.
Con l’espansione dell’abbazia si rese necessario maggior spazio per la conservazione dei prodotti agricoli (la Regula Benedicti prescriveva anche il lavoro, e si trattava perlopiù di attività nei campi) e anche per la sistemazione dei monaci, nel frattempo cresciuti di numero.
Nel XV secolo fu così eretto, in due fasi successive, il chiostro, il quale certamente ospitava le celle dei monaci oltre a una cucina e a un refettorio comuni. In origine le pareti claustrali erano interamente affrescate su tre livelli. Oggi soltanto una minima parte dei dipinti è sopravvissuta al tempo e all’incuria. Ciò che è rimasto racconta la vita di San Benedetto da Norcia. Peculiarità di questi affreschi è la presenza di didascalie, non in latino, che sarebbe risultato incomprensibile ai più, ma nel volgare del periodo (siamo intorno al XV secolo), così da rendere i dipinti simili a fotoracconti dell’epoca.
L’autore del ciclo — anzi, in realtà ci sarebbe anche un altro ciclo, il quale, per il suo pessimo stato, non si sa se sia un’opera diversa dalla precedente o un secondo ciclo su Benedetto — è ignoto, e viene convenzionalmente indicato come il Maestro del Chiostro. Aina suggerisce che le opere siano il risultato di due differenti scuole di pittura, ma ultimamente si è propensi a pensare che a realizzarle sia stata una sola mano. Di certo, per illustrare l’esistenza e la personalità del fondatore dell’ordine benedettino, l’autore si ispirò al secondo libro dei Dialoghi di San Gregorio Magno, il primo monaco a diventare papa.
Affreschi esterni del chiostro raffiguranti la vita di San Benedetto da Norcia.
Come mi informa la mia guida, il Barbavara fu l’ultimo abate regolare, a cui seguì una lunga serie di commendatari, cioè di abati che in genere non risiedevano nel monastero e non si ingerivano nella disciplina della vita monastica pur esercitandovi potere giurisdizionale.
Nel 1573 fu poi ufficialmente istituita la parrocchia di San Nazzaro. La vita in abbazia aveva intanto imboccato un lento percorso di decadenza (molti locali, tranne la chiesa, furono adibiti a cascina), decadenza che si accentuò con il passaggio delle truppe napoleoniche. Nel 1801 il cenobio fu infatti soppresso e una parte del complesso venduta a privati — tra questi figurano i Sella, nota famiglia di banchieri piemontesi, e i fratelli francesi Isnard, fornitori di stoffe dell’Armata Italiana. Il declino ebbe fine soltanto negli anni ’60 del secolo scorso, allorché, grazie all’iniziativa di don Danilo Gallo, iniziarono i lavori di restauro, durati una decina d’anni. Nel corso dei lavori fu anche demolita una chiesetta adiacente all’attuale, costruita nel Settecento e dedicata a San Carlo con annessa Confraternita. Inoltre, nei pressi dell’altare maggiore della chiesa (sotto il quale giacciono le spoglie dell’abate Barbavara) sono stati rinvenuti i resti delle fondamenta dell’antica sagrestia, sulle pareti della quale è ancora visibile un residuo di affresco ritraente una fanciulla.
Da pochi anni è stato infine terminato il pavimento del chiostro e completate le stanze al piano superiore. I locali sono a disposizione di chiunque voglia viaggiare indietro nel tempo per assaporare l’atmosfera dell’antica abbazia benedettina.