A Torino, nella zona a sud del Po, sulla riva destra, poco distante dalla “Gran Madre” e dall’atelier del pittore Ezio Gribaudo, più precisamente al numero 57 di corso Giovanni Lanza, accanto alla strada, dietro una robusta cancellata, s’intravede la sagoma di Villa Scott, l’edificio più celebre del liberty. Il suo nome evoca avventure d’altri tempi e luoghi diversi dalla collina piemontese; casomai ricorda un maniero britannico, dimora dell’inventore del romanzo storico, Sir Walter Scott, o una tenuta del grande esploratore Robert Falcon Scott. Nulla di tutto questo. La villa prende il nome dall’italiano Alfonso Scott, il committente dell’edificio, amministratore delegato della RAPID, l’impresa automobilistica che anticipava di anni la FIAT.
Il suo costruttore, Pietro Fenoglio, era una vera e propria archistar dell’epoca. La fama di Villa Scott, tuttavia, è legata soprattutto al film Profondo Rosso di Dario Argento. La pellicola ha reso la villa celebre nel mondo, con il nome di Villa del bambino urlante, e non è un’esagerazione dire che è diventata una delle mete preferite di chi visita Torino. Giapponesi e americani la cercano disperatamente, per poi arrivarci a piedi, inforcando il sentiero che da Borgo Po porta al Monte dei Cappuccini, dove si ammira una superba vista della capitale sabauda. Lì, restaurate e tornate al loro antico splendore dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, meritano una visita la chiesa di Santa Maria al Monte e il convento dei Cappuccini. Notevoli poi sono altre dimore di Borgo Crimea.
Il richiamo di Villa Scott, però, è più forte. Lo stesso Dario Argento in una recente intervista, a proposito dei nuovi proprietari dell’edificio, ha dichiarato: “Questa villa è diventata per loro un incubo”! Non stentiamo a crederci. Ogni giorno file di turisti, semplici curiosi, interi pullman di fan scatenati di Dario Argento, flâneurs rumoreggianti, assediano Villa Scott, che, lo ricordiamo, è una proprietà privata. Qualcuno prova a farsi aprire suonando i vari campanelli del numero 57 di corso Giovanni Lanza, inutilmente.
Profondo Rosso è il capolavoro di Dario Argento, parte della sua fortuna consiste nella cornice scenografica. La bellezza di Villa Scott conquista lo spettatore. Il Maestro ci insegna che anche il bello può diventare pauroso. Nella finzione cinematografica la villa è la casa di Marta (interpretata da Clara Calamai), la madre di Carlo (Gabriele Lavia), dimora lasciata dalla famiglia. Il regista, proprio nella parte centrale del film, riprende la villa per più di dieci minuti, dall’esterno e dall’interno, rendendola memorabile.
Villa Scott, nel film, fu “truccata” per sembrare una casa abbandonata, un luogo di fantasmi, nello stile dei film di Mario Bava. Non a caso nella pellicola, Olga, la bambina dai capelli rossi (Nicoletta Elmi), che accompagna Marc, il protagonista (David Hemmings), a scoprire Villa Scott, lo saluta con un avvertimento: “Stia attento! Là ci sono i fantasmi!”. Le riprese del film iniziarono a Torino nell’autunno del 1974. Profondo Rosso uscì nel 1975 e fu un enorme successo. Bill Lustig, recentemente, ha riportato l’opera alla sua versione originale, creando una nuova copia del film! Nel tempo, proprio la lunga sequenza girata a Villa Scott divenne la più amata dal pubblico di fan di Dario Argento, dove il tema musicale eseguito dai Goblin, con un suono che aveva conquistato il regista romano, si guadagnò anche il rango di cult. La villa, nella finzione cinematografica, è un luogo oscuro, dove si nasconde il mistero di un assassinio.
David Hemmings, quasi la rediviva star del capolavoro Blow Up di Antonioni, con camicia nera sbottonata e pantaloni chiari, rimane solo nell’edificio. Lo spettatore s’immedesima in lui, nelle sue paure e turbamenti. I primi minuti sono girati all’esterno della villa, accompagnati da un tema musicale misterioso e lento. L’obiettivo del regista è attirato dalla grandiosità dell’edificio; si sofferma sulla balconata esterna e le alte torri con le finestre ovali. Poi sono filmati con cura gli interni e si possono ammirare le finestre colorate, le eleganti scale, i lunghi corridoi con le colonne e le vetrate sferiche.
A un certo punto entra nel film il tema principale e frenetico della colonna sonora e sono veri brividi per lo spettatore; David Hemmings, infatti, prima con le mani e dopo con un vetro rotto, toglie l’intonaco da un muro malandato e scrostato, scoprendo con stupore un atroce disegno: un bambino che tiene in mano un coltello insanguinato. Poi arriva il custode con la bambina dai capelli rossi e Marc esce, ormai nella notte, dalla villa, che ora — al buio — appare terrificante. Argento indugia su cose inquietanti e fastidiose e tutto ciò che è infantile fa paura.
Perché Dario Argento scelse proprio Villa Scott a Torino? È lo stesso regista a raccontare di un viaggio con lo sceneggiatore Bernardino Zapponi per Torino. Argento e Zapponi passarono per corso Giovanni Lanza con l’auto e ammirarono l’edificio. Argento lo trovò proprio bello e disse a Zapponi:
Quella villa è meravigliosa!
E aveva ragione, come tra poco vedremo. Sicuramente il Maestro aveva in mente il film mirabile di Mario Bava, La ragazza che sapeva troppo, del 1963, un giallo con grandi interpreti, Letícia Román, Valentina Cortese e John Saxon. Tra le sequenze esemplari di Bava, in bianco e nero, compare una casa in stile coppedè, dalla presenza grave e minacciosa, dove è “imprigionata”, la bella protagonista, Nora Davis (Letícia Román). Argento, in Profondo rosso, ha trovato quello spirito di “casa di fantasmi” in Villa Scott, rendendola indimenticabile e terribile.
Tuttavia, Argento ha trasformato per il grande pubblico quello che è un capolavoro del liberty, Villa Scott, in una sorta di edificio neogotico: la Villa del bambino urlante. Ancora oggi molti studiosi di cinema la ricordano così, non nel suo ambiente storico, ma come una sorta di reggia sinistra, spuntata da un racconto di Edgar Allan Poe, affascinati dalla pellicola, che è un thriller di passaggio tra la prima fase del regista alla maniera di Hitchcock a un’altra più esoterica e allucinata propria di capolavori come Suspiria e Inferno.
In Profondo rosso, l’importanza della cornice scenografica e l’iperbole degli oggetti è notevole e rafforzano la delirante dimensione gotica del regista, sostenuta dagli effetti speciali di Carlo Rambaldi. La storia di un detective improvvisato, che insegue un serial killer sovrumano, di cui ha visto il volto, senza però ricordarselo, è inserita nello scenario sconcertante di una Torino notturna, ispirata alle opere di Edward Hopper, come si percepisce nelle scene iniziali. Così Villa Scott diventa protagonista del film, ma, possiamo sostenere, appesantita con un trucco da Hammer Film Productions, che le fa perdere la sua vera storia, che, invece, vale la pena raccontare.
Il suo costruttore è Pietro Fenoglio, uno dei padri del liberty in architettura, che inaugurò lo stile floreale, disegnando e rendendo concrete linee arricciate, quasi musicali, disgiunte e morbide, impetuose e avviluppanti, che richiamano alla mente fiori, frutti, animali fantastici e conchiglie, per spronare le menti e la cultura spirituale dei suoi contemporanei verso una nuova concezione del bello, come se fosse una missione importante, un’opera di evangelizzazione modernista in nome del socialismo o “impero” della Bellezza, come argomentava Leonardo Bistolfi dal palco del Teatro Alfieri di Torino all’inizio del Novecento.
Pietro Fenoglio progettò più di cento edifici e ventotto stabilimenti, facendo di Torino la capitale indiscussa del liberty in Italia. Apro una parentesi e lo scrivo in aperta polemica: perché la sua città natale, grata, non gli ha ancora dedicato una via o meglio, una piazza?
Pietro Fenoglio, primo di sette figli, nacque a Torino il 3 maggio 1865, in una ricca famiglia di costruttori edili. All’età di ventuno anni, dopo aver frequentato la Regia Scuola di Applicazione per gli ingegneri di Torino (la facoltà di architettura sarebbe nata dopo), si laureò come ingegnere architetto. Il suo anno meraviglioso è il 1902, quando a Torino fu inaugurata l’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna (aprile — novembre 1902), che segna l’inizio del liberty in Italia.
Particolare delle finestre e scalinata di Villa Scott.
Il concetto di Liberty è tuttora oscuro al grande pubblico. Nome icastico e di forte presa, pochi sanno che tale termine è usato quasi unicamente in Italia, riuscendo a sopravvivere alle mode, assai più che le espressioni impegnative e peregrine diffuse negli altri Paesi europei (Jugendstil, ad esempio, in Germania e Svizzera, o Secession nelle terre della Duplice Monarchia degli Asburgo).
La vicenda di questa voce è una storia di idee, di presa di coscienza di uno stile, ossia la storia di una progressiva chiarificazione che segna passo per passo l’introduzione e la divulgazione nella Penisola dei moduli modernisti dell’Art Nouveau, che nata in Francia e in Belgio, fu una vera rivoluzione nel campo delle arti plastiche, della grafica, degli oggetti, in particolare mobili e arredamenti, fino all’architettura. In Italia, quindi, il termine Liberty fu usato come corrispettivo di Modern Style e Art Nouveau.
Oggi tuttavia ricorrono profondi divari tra il movimento Liberty com’era inteso dai contemporanei e come lo s’intende, a proposito dell’architettura, nei nostri giorni, in cui si moltiplicano le iniziative sull’Art Nouveau, con intere settimane dedicate alla visita di ville e quartieri realizzati da famosi architetti dell’epoca, tra i più noti Gino Coppedè e Pietro Fenoglio. Tra i due, però, ci sono notevoli differenze. Di stile Liberty nell’architettura possiamo discutere soltanto di Fenoglio, escludendo Coppedè.
L’Art Nouveau, tuttavia, nacque come una rivoluzione artistica e artigianale che investì il gusto decorativo, con manifesti e dipinti, sculture, mobili e ceramiche, tra fine Ottocento e inizio Novecento. Due decenni, in particolare. La sensibilizzazione del gusto si apprezza meglio nella grafica soprattutto perché l’Art Nouveau era nato come impegno a trasporre nella plastica il segno grafico; e la grafica era per gli artisti creatori il mezzo più adatto per diffondere le loro idee estetiche.
L’Arte nuova fu denominata Liberty, ma il suo erede più affine fu il futurismo, che in Italia ebbe massima fortuna, essendo teorizzato da artisti in maggior misura rivoluzionari rispetto a quella generazione, figlia del Risorgimento, che aveva cercato, senza riuscirci, una rottura con le accademie. L’Italia era uno Stato giovane e l’iter del Liberty in Italia fu brevissimo, perché appoggiato per lo più da artisti dalla visione cosmopolita, più europea che italiana. I nomi sono quelli di Leonardo Bistolfi e Giorgio Kienerk. Mentre l’Europa varava con l’Art Nouveau il progetto di un affratellamento universale, questi pochi intellettuali, spiriti aperti al nuovo, aderirono con slancio all’invito che implicava l’instaurarsi di una comunità di cultura e carattere sopranazionale. Ebbero contro, però, una schiera di zelanti ricercatori di una figuratività che esprimesse il concetto di nazione.
Un personaggio come Bistolfi, socialista come i suoi più cari amici, Giuseppe Pellizza da Volpedo e Angelo Morbelli, con simpatie per il tolstoismo di quegli anni, sognava il Liberty come un movimento politico, che distingueva nella storia dell’uomo il passaggio dalla barbarie a un’epoca di fraternità universale, un “idillio primaverile”, in un momento storico in cui il nazionalismo era meno petulante in Italia e il sogno di una comunione degli Stati nel nome della Bellezza pareva più vicino e possibile.
Fenoglio, nel 1902, era dello stesso avviso di Bistolfi, che aveva firmato il manifesto dell’Esposizione di Torino. Programma e manifesto che, diversamente dalle incombenti avanguardie storiche foriere di rottura, rifletteva un progetto, tanto generalizzato quanto “morbido”, a chiudere, tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, con il passato, a uniformarsi ai nuovi processi di produzione industriale, a ricreare l’habitat urbano, l’oggetto quotidiano pure, d’arredo, d’uso o d’ornamento che fosse, a progettare cioè un sistema stilistico globale.
Nell’Art Nouveau ogni elemento diventava complementare dell’altro fino a produrre un insieme armonico e unitario vivibile. Il Liberty nasceva sotto il segno del “giovane” e del “libero”, senza cui il “nuovo”, che è annunciato appunto da una “secessione”, non avrebbe mai potuto crescere e realizzarsi. Quello che comunque meglio caratterizza questa nouvelle vague internazionale — e fonda un’assoluta novità nella storia del pensiero estetico — è il suo profilo “basso”, adatto alla società più ampia possibile, che non a caso trova il suo naturale campo d’azione in architettura e nelle cosiddette arti applicate.
Se dunque intendiamo il Liberty come tutto quanto partecipa in Italia delle idee, delle formule e dei sussulti di quell’età denominata Belle Époque, possiamo tracciare della vicenda un percorso che vada grosso modo dal 1890 alla Prima guerra mondiale. Nel Regno d’Italia maturò nel periodo che immediatamente succedette alla disfatta di Adua e cedette le ultime armi all’atto della conquista della Libia, durante la guerra italo-turca del 1911.
Quali edifici si eressero in Italia nel nuovo stile Liberty? Nel parlare corrente questo termine qualifica il grosso dei villini urbani dei grandi centri e delle dimore della Liguria sorte all’inizio del Novecento, mentre si tratta, in un gran numero di casi, di edifici alla gotica, ancora ben situabili nell’ambito dell’eclettismo, come il villino Giulio Lampredi a Firenze, opera dell’architetto Giovanni Michelazzi. Sono edifici che possono stare al Liberty come il gusto preraffaellita sta all’Art Nouveau. Per questo motivo possiamo parlare di vero stile Liberty per alcuni progetti realizzati da Pietro Fenoglio e non per quelli del coevo Gino Coppedè.
Lo stile Liberty è quindi una grande rarità in Italia. Pochi luoghi possono vantare veri capolavori di questa scuola. Torino soprattutto. Poi Milano e città minori o piccoli paesi in Piemonte e Lombardia, come Casale Monferrato, Cuneo, Vigevano, Voghera, Novara, Brescia, Varese, Cella Monte e il borgo di Moleto nel Monferrato. Rari i casi nell’Emilia Romagna, come Ferrara, Modena e Parma, ma con qualche cedimento di gusto. Nel Nord Est della Penisola, con Trieste in maniera speciale, si sono sviluppati motivi modernisti, desunti da matrici tedesche giacché storicamente in ambito tedesco. Anche a Verona e a Padova s’incontrano gustosi esempi della scuola Liberty. Per questo motivo gli scrupolosi restauri conservativi (il recupero delle ceramiche, la sistemazione delle inferriate di ferro battuto, la sostituzione e sistemazione dei serramenti in legno degli edifici) operati a Torino e in altre città, come Parma (Palazzo delle Poste, inaugurato nel 1909, ora ristrutturato restituendone nella modernità delle infrastrutture tecnologiche le originarie atmosfere), sono da benedire.
A Torino, però, si ebbero nel Liberty le realizzazioni più coerenti, grazie al lavoro di architetti di talento e cultura, oltre a Fenoglio, Gottardo Gussoni, Raimondo D’Aronco e Lorenzo Parrocchia. I progetti di Fenoglio, che collabora alla mostra torinese nel 1902, come membro del comitato esecutivo, sono quelli di un architetto nella sua piena maturità. Aveva trentasette anni e in quello stesso anno, oltre a realizzare Villa Scott, firma anche Casa La Fleur, in via Principi d’Acaja al numero 11, costruita per sé, ma mai abitata da lui e dai suoi familiari (Fenoglio non ebbe figli) e che prese inizialmente il nome dal suo acquirente.
Villa Scott fu realizzata da Fenoglio in collaborazione con Gottardo Gussoni e sfoggia la totale adesione verso l’eleganza e la bizzarria delle forme armoniosamente espresse nei padiglioni progettati da D’Aronco per l’esposizione torinese. Lo “stile floreale”, in Villa Scott, è espresso nell’impiego del vetro colorato, del ferro battuto alle finestre, nell’impiego di materiali nuovi, come il litocemento e in particolare nei mazzetti di rose in boccio che concludono il contorno dolcemente curvilineo dell’edificio. Nel palazzo non manca il bovindo, quel particolare tipo di finestratura, in cui gli infissi e le imposte vetrate non sono adeguate al muro ma risultano seguire un percorso ad arco orizzontale aggettante dalla muratura.
La vita di Fenoglio segue incredibilmente le sorti del Liberty. Un anno dopo l’Esposizione di Torino del 1911 (mostra che segna il passaggio, in pratica la restaurazione, dal Liberty all’Eclettismo di fine Ottocento), Fenoglio, all’età di quarantasei anni, rivoluziona la sua vita, abbandonando la carriera di architetto (consapevole della fine di quella stagione artistica) e dedicandosi alla finanza, entrando nella Banca Commerciale come esperto di investimenti industriali, divenendo nel 1920 il vicepresidente. Incarico che mantenne fino alla morte, avvenuta il 22 agosto 1927, a sessantadue anni, nella sua casa di Corio Canavese.
Villa Scott di Fenoglio, recentemente restaurata, resta quindi un esempio meraviglioso del Liberty, con la bellezza della torre bow-window. Dario Argento, tuttavia, aveva ragione nel trovare in quella grandiosa bellezza, quasi un sogno effimero, falso, qualcosa di pauroso: perché la Belle Époque finì nel 1914, il 28 giugno, quando gli spari di Gavrilo Princip uccisero l’Arciduca Franz Ferdinand e sua moglie Sophie. Il duplice assassinio di Sarajevo fu il pretesto occasionale della Grande Guerra. Le cause reali del conflitto furono la rigidità del sistema europeo, in cui le paure, le definizioni anacronistiche d’interessi nazionali e la duttilità delle opinioni pubbliche si coniugarono in una miscela esplosiva. Nel luglio 1914, le precipitose mobilitazioni degli eserciti scatenarono la guerra. La diabolica inettitudine dei governi europei, denunciata molto tempo prima dal profeta inascoltato Tolstoj (in Italia, i pacifisti come Bistolfi e Moneta rinnegarono nel frattempo il loro antico tolstoismo), distrusse un intero mondo, che aveva sognato anche un’arte nuova: terminò un’epoca in cui si coagulavano l’esotismo e il vitalismo di una società che sul piano dell’arte si godeva fra i due secoli i frutti dell’espansionismo coloniale.
Alcune scene del film “Profondo rosso”.
Ultimo aneddoto su Villa Scott. Nel 1974, quando Dario Argento girò il film, l’edificio era un collegio femminile in concessione alle Sorelle della Redenzione, che ospitavano, come ricordò il regista in un’intervista, delle “ragazze difficili”, vittime di prostituzione e droga. Si chiamava allora Villa Fatima e la produzione pagò un periodo di villeggiatura a Rimini, per due mesi, alle suore e alle ragazze, lasciando piena libertà alla troupe di Argento.