Il vino, la demonologia e l’Inquisizione erano in prima fila per combattere la peste in Piemonte nel Cinquecento. Ovviamente il vino era sprecato, né un Compendium maleficarum né un tribunale dell’Inquisizione potevano, ovviamente, arrestare una pandemia. In Monferrato ci fu addirittura un processo agli untori di manzoniana memoria, uno dei più grandi.
Non è una finzione narrativa. Gli atti raccontano il processo svoltosi nel castello di San Giorgio Monferrato. Nel 1530 infatti, nel Monferrato governato dalla vedova di Guglielmo IX Paleologo, la marchesa Anna d’Alençon, furono processate quaranta persone e ben trenta furono impiccate. Uomini e donne. L’accusa li condannava come untori durante il precedente periodo di peste.
Nel 1525 la peste aveva mietuto le popolazioni del Marchesato. L’epidemia aveva investito il Piemonte già nel 1523 decimando la città di Saluzzo. La piaga, endemica nel Rinascimento, si diffuse in Italia e in Europa ai tempi delle prime crociate scoppiando a volte per motivi naturali dovuti a siccità, altre volte per cause belliche, quando le marmaglie trascinavano le picche e gli spadoni, dall’Inghilterra di re Riccardo Cuor di Leone alla Venezia del Doge, per tutto il continente, come si vede nell’iconico film Il settimo sigillo dove il regista Ingmar Bergman presenta appunto un’Europa in balia di peste e disperazione.
Nel film, in questa situazione, tornano dalle crociate in Terra Santa il nobile cavaliere Antonius Block, interpretato da Max von Sydow, e il suo scudiero Jöns, l’attore Gunnar Björnstrand. Al suo arrivo, la Morte, che ha scelto quel preciso momento per portarlo via, attende il nobile Block sulla spiaggia. Il cavaliere decide di sfidarla a scacchi per rimandare la sua dipartita. La Morte acconsente al rinvio. Indimenticabili sono le sequenze del macabro scontro a scacchi. L’immagine più famosa del film Il settimo sigillo, come racconta il regista Ingmar Bergman, è però un’altra, che fu improvvisata in pochi minuti. Al termine del film, la Morte con mantello nero, la falce e la clessidra, insieme al nobile cavaliere, lo scudiero, il fabbro e la moglie, Raval e Jonas Skat, l’ultimo, che ha la lira sotto il braccio, danzano all’orizzonte sulla collina.
Una delle crociate più fatali fu quella del 1270, quando la spedizione guidata da re Luigi IX di Francia, che faceva partire le sue navi da Aigues-Mortes, trovò un tragico epilogo. I crociati, dopo lo sbarco di Tunisi, furono decimati dalla peste e dalla dissenteria (dovuta alla mancanza di acqua potabile). Lo stesso re, San Luigi, morì.
Un’ultima eco di quella stagione di peste, per entrambe le motivazioni ricordate, combinate con le inesistenti salvaguardie igieniche, fu la peste che colpì il Marchesato del Monferrato nel 1525, nel lento tramonto del suo splendore, mentre l’Europa era sconvolta dalla guerra dei contadini in Germania, nata dalla rivolta popolare provocata dal millenarista Thomas Müntzer; rivolta poi dominata dal principe Filippo d’Assia.
Come spesso e ovunque accadeva, la terrificante moria, spettro e incubo d’ogni ceto cittadino, iniziò la sua subdola penetrazione nello Stato, un poco ovunque con focolai isolati, per dilagare ben presto dall’uno all’altro confine del Marchesato nonostante le benefiche e tempestive provvidenze del magnifico messer Antonio Necco, deputato alla Sanità per incarico della allora trentatreenne marchesa Anna di Alençon, ultima figlia di Renato di Valois, duca di Alençon, e della beata Margherita di Lorena-Vaudemont.
Gli ordini del commissario Necco, conservati negli archivi, ci mostrano la sollecitudine di questo gentiluomo inteso a farsi veramente in quattro per prevenire, attutire, salvaguardare le popolazioni del Marchesato colpite dal terribile flagello. A Casale Monferrato e in altre località si costruirono dei lazzaretti, nei quali i medici tentavano in qualche modo di salvare gli ammalati e di prevenire, ma con scarsi risultati, la diffusione del contagio. È a questo punto che, nella drammatica sequenza di episodi, degna di un’acquaforte fiamminga, fa la sua comparsa, vero e unico toccasana, il vino.
È facile immaginare l’inesistenza di norme igieniche atte a tutelare la salute delle popolazioni, così com’è pure ovvio scoprire l’assenza di particolari disinfettanti per purgare le case infette, lavare le mani dei medici, sciacquare i gonfi bubboni ulcerosi che, nell’epidemia del 1525-1530 in Monferrato, si formavano all’inguine e alle ascelle. Le ghiandole erano colpite dal batterio portando a morte il paziente dopo una penosissima agonia. Che cosa potevano mai fare i medici cinquecenteschi, e in genere di quei secoli, per disinfettare se stessi e gli oggetti che erano a contatto con i malati?
Quando la moria compariva, subito si procedeva ad aspergere i pavimenti della camera con “sostanze vinose”. Non propriamente il vino puro, ma la "pusca", il vinello di seconda e terza tiratura, con l’aceto, ottimo disinfettante per le mani che in quei periodi di contagio non si lavavano più in acque di pozzo o correnti, per pulite che fossero. L’aceto era usato dai medici soprattutto nelle visite ai lazzaretti per l’igiene personale, poi per disinfettare le case appestate, mescolato ad acqua, era spruzzato un po’ ovunque. Fasci di paglia inzuppati di vino "vecchio" erano accesi e lasciati consumare fino a esaurimento nelle case accuratamente chiuse. Tali suffumigi pare che ottenessero qualche benevolo risultato che però doveva ascriversi alla calce viva che era stemperata sulle pareti degli alloggi infetti.
Essendo il vino ritenuto l’unico toccasana per il “lavaggio” interno del corpo umano così da prevenire il contagio, va da sé che la richiesta del prezioso liquido diveniva, in quelle circostanze, assillante. I prezzi del vino salivano. Nel 1525 un "bottallo" (circa 30 litri) di buon vino nero (il bianco era ritenuto troppo debole per tali difese) era venduto anche a 50 scudi d’oro del sole, pari a 40 euro attuali. Ma nella frenetica, parossistica ricerca di una salvezza, spesso problematica, non vi erano soltanto i ceti della nobiltà, del clero, della popolazione minuta. Una banda d’individui che non si sa se ritenere folle o allucinata, sicura dell’immunità prodotta dal vino, provocava la diffusione del contagio.
Non si tratta di ubbie o di storie giunte a noi dalle narrazioni dei cronisti, a volte insincere. Presso l’Archivio di Stato di Torino (sotto la voce "Monferrato, materie economiche ed altre") esiste infatti, l’originale del processo svolto a Casale e nel castello di San Giorgio Monferrato, presieduto dal commissario Necco, contro uomini e donne che andavano a ungere le porte dei palazzi e a spargere l’unguento negli assembramenti, a svolgere insomma azione rivoluzionaria nel propagare una malattia che avrebbe ucciso gran parte della popolazione lasciandoli unici padroni d’ingenti beni. "Già altri studiosi di queste vicende", come annota lo storico Aldo di Ricaldone, "quali Falletti di Villafalletto e Valerani, avevano in monografie, ormai introvabili, rivelato tale forma mentis".
Il Tribunale si riunì nel Castello di San Giorgio il 17 giugno 1530. A leggere le disposizioni, non estorte con la tortura, pare di rivivere un incubo. Gli untori frequentavano i lazzaretti dove incidevano i bubboni dei cadaveri per raccogliere il marciume in una "scodisella". A tale scolaticcio aggiungevano polveri diverse fino a costituire una miscela pulverulenta che spargevano or qua or là nei loro folli viaggi assassini. Ma come potevano costoro rimanere immuni dal terribile morbo?
La domanda posta dai giudici ottenne una risposta unanime: ciascun untore recava con sé una “zucca” ripiena di vino forte nel quale aveva infuso il "ramerino", ossia il rosmarino e l’aglio. Quando iniziavano le operazioni chirurgiche (o poco prima) sui cadaveri degli appestati, dissero gli inquisiti, bevevano abbondantemente di questo vino speziato, sciacquandosi anche le mani. Non sappiamo se il vino, pur avendo un buon tasso alcolico, potesse proteggere a tal punto quei disgraziati che furono quasi tutti impiccati sulla piazza del castello a Casale Monferrato, dopo un minuzioso processo, durato un mese, presieduto dal commissario Necco.
Questo non fu l’ultimo caso di processo contro gli untori. Forse le dottrine alchemiche avrebbero potuto arginare la peste? Chissà, resta il fatto che un fitto intrico di domini feudali si estendeva nel Nord Italia e la presenza di tanti "gentiluomini" attestava un controllo particolarmente duro del territorio.
Si potrebbe supporre, a mio modesto parere, che la ricerca di un capro espiatorio nel caso della peste servisse a eliminare facilmente i nemici politici o chi poteva intralciare il governo assolutistico dei signorotti su una determinata zona. Nei secoli a cavallo tra Medioevo e Rinascimento, il Marchesato di Saluzzo e quello monferrino erano contesi dalle principali forze monarchiche in Europa. Ancora all’inizio del Cinquecento, se il mondo di allora si stava aprendo a grandi orizzonti, con l’Impero di Carlo V e le idee del suo cancelliere, Mercurino Arborio di Gattinara, il Nord Italia viveva grandi conflitti, tra Impero, Francia e le sue città, come Milano. A ricordarcelo è Ludovico della Chiesa nella sua Historia. Per lo storico la peste in Piemonte si diffuse dapprima nel Marchesato di Saluzzo nel 1523.
Leggiamo:
Regnò in questi Paesi un’influenza pestilenziale, qual afflisse, e sterminò molte persone per causa della quale i Saluzzesi fecero uno statuto, che non si seminasse più riso nel territorio di loro Città.
La coltivazione del riso, infatti, fino all’Ottocento, era collegata alla possibilità dello sviluppo della malaria. La risaia costituiva per le zanzare l’habitat ideale per la loro riproduzione e diffusione. Giovanni Lanza, a fine Ottocento, ad esempio, proibì che le risaie del vercellese si avvicinassero ai comuni confinanti col fiume Po. Interessante è però notare, accanto a queste note di buon senso legate alla nascita di un pensiero scientifico, la credenza che la peste potesse essere trasmessa da untori (con il sospetto che essa fosse un modo per combattere un nemico, trovando il capro espiatorio).
Illustrazioni tratte dal libro “Compendium maleficarum”.
Prima che Francesco Maria Guaccio compilasse il suo celeberrimo Compendium maleficarum, ex quo nefandissima in genus humanum opera venefica, ac ad illa vitamda remedia conspicitur. In hac autem secunda aditione ab eodem authore pulcherrimis doctrinis potentissimus ad solvendum omne opus diabolicum; nec non modus crandi febricitantes, ad Dei gliriam, & Hominum solatium (stampato per la prima volta a Milano nel 1608), la caccia alle streghe era all’ordine del giorno. Il libro di Guaccio è un trattato di demonologia e magia, suddiviso in tre volumi, all’interno del quale si possono trovare riferimenti alle massime di esperti in materia, come l’inquisitore Nicolas Rémy.
La credenza di una peste provocata intenzionalmente (pestis manufacta) si trova fin dal Trecento, in riferimento all’accusa alle comunità ebraiche di diffondere la pestilenza. Nel Cinquecento, il medico pavese Gerolamo Cardano riportò come nel Marchesato di Saluzzo - nel 1536 - un gruppo di quaranta persone cercò di diffondere la pestilenza tramite un unguento da applicare agli stipiti delle porte e tramite polvere da spargere sui vestiti delle vittime. Cardano scrisse di analoghi casi a Ginevra e a Milano. Il capoluogo lombardo, prima della peste di manzoniana memoria, non fu l’unica città dove si diffusero imputazioni contro untori, ma fu quella in cui si ebbe il maggior numero di accuse. Altrove, invece, fu liquidata giustamente come semplice credenza popolare.
A Torino, capitale del Ducato di Savoia, si hanno testimonianze di processi contro gli untori ancora per la peste del 1599 e per quella del 1630, riportate da Giovanni Francesco Fiochetto nel volume Della peste et pestifero contagio di Torino, & C. Fiochetto era il medico personale dei Duchi, in particolare del principe Emanuele Filiberto, ma anche il capo della sanità del Piemonte. Coetaneo di Galileo Galilei, con cui spartì l’anno di nascita e di morte: 1564-1642, Fiochetto durante il periodo di peste lottò per l’igiene, unico modo per limitare il contagio. Le mani dovevano essere disinfettate con aceto. I cadaveri dovevano essere bruciati. I malati, anche i più poveri, dovevano essere curati dai medici. Le monete dovevano essere disinfettate.
In Della peste et pestifero contagio di Torino di Fiochetto, gli untori erano accusati, anche in questo caso, di diffusione volontaria della pestilenza con il contatto di un unguento sulle porte. Si legge:
Conspirarono a gran danno del popolo dieciotto o vinti venefici savoiardi, piemontesi, napolitaní, ed altri tra uomini e donne, che in diversi modi, questi ungendo le porte, quelli, cioè qualche Barbieri cavando sangue, applicando ventose, e facendo altre opere co’ loro instromenti venenati d’infezione pestifera. Altri, principalmente le donne, vendendo l’acquavita con bicchieri infetti. Altri, come il capitano Giovanni Marchetto napolitano, al quale si dava gran credito pe la servitù fatta a S.A. in guerra, uccidendo gli ammalati con empiastri appestati, i quali rimetteva à domestici, con iscusa di non potere ritornare d’uno, o due giorni, acciò applicassero eglino i medicamenti, con quali si infettava tutta la fameglia.
Per premiare la generosità del "Primo Medico", la città di Torino pubblicò il testo di Fiochetto a proprie spese, per diffonderlo in tutto il Ducato di Savoia. Verrà ristampato solo nel 1720, dall’editore torinese Pier Giuseppe Zappata, quando una nuova epidemia decimerà Marsiglia.
Se lo studio della Storia spesso è un ripetersi delle stesse scene, essa, almeno come materia degna di attenzione filosofica a un uomo intelligente, imprime delle verità generali nella mente con una vivida rappresentazione di caratteri e incidenti particolari. Certo, gli uomini di tutte le epoche si rassomigliano. La peste raccontata da Defoe, Manzoni o da Camus è atemporale. La morte che spaventa l’uomo moderno avrebbe fatto sorridere il nobile Antonius Block, giunto pregno di Storia sulla spiaggia del suo Paese dopo la Crociata. Le pene che atrocemente abbattono l’uomo nella sua esistenza ricordano un passaggio di una lettera di Gustave Flaubert:
Intéressez-vous aux générations mortes, c’est le moyen d’être indulgent pour les vivantes et de moins souffrir [Interessatevi alle generazioni morte: è l’unico modo per essere indulgenti coi vivi e per soffrire meno].
Perché leggere gli eventi del passato è un modo elegante per leggere l’avvenire, senza sperare né disperare del presente.