Quando Torino venne liberata dall'occupazione nazista e dalla presenza fascista, fu Franco Antonicelli, in un messaggio radiofonico, la sera del 28 aprile 1945, ad annunciarlo ai piemontesi. L’amico Alessandro Galante Garrone, che insieme a lui aveva guidato l’insurrezione, prima dalla conceria Fiorio di via San Donato e poi dalla Prefettura, avrebbe ricordato
quel momento di autentica, profonda commozione nell'ascoltare finalmente da quella radio da cui per tanti anni avevamo sentito turpi, ignobili, voci, finalmente questa voce pulita, questa voce forte che parlava.
Antonicelli era presidente del CLN piemontese e toccò dunque a lui gestire le convulse giornate della Liberazione, culminate il 6 maggio 1945 con un comizio in una piazza Vittorio assiepata di soldati e partigiani. Nel discorso ufficiale sottolineò come il ventennio del regime fosse stato riscattato dai venti mesi della Resistenza:
Oggi Torino, capitale di questa terra ch’è stata tutta di partigiani, vi onora e vi applaude. È un gran giorno per voi, patrioti piemontesi, uno di quei giorni destinati a rimanere pieni di lume nella memoria pur abbuiata degli anni venturi.
Una celebre fotografia ritrae la provvisorietà e al contempo la solennità di quel raduno: Antonicelli è in piedi su un tavolino, sistemato a guisa di tribuna al centro della piazza, accanto al sindaco Giovanni Roveda e ai comandi militari.
Alla presidenza del CLN Antonicelli era approdato da alcune settimane, dopo una militanza antifascista che si era consolidata negli anni e gli aveva causato non poche difficoltà: arrestato una prima volta nel 1929 per aver sottoscritto una lettera di solidarietà a Benedetto Croce – che era entrato in polemica con Mussolini riguardo alla firma dei Patti Lateranensi – fu in seguito condannato al confino ad Agropoli, cittadina del Cilento, con l’accusa di aver fiancheggiato il movimento di Giustizia e Libertà. Venne infine imprigionato dai nazisti nel novembre del 1943 a Roma, nel carcere di Regina Coeli, nei cui corridoi vide per l’ultima volta Leone Ginzburg, già suo studente e poi giovane collega al liceo D’Azeglio. Proprio al D’Azeglio, Antonicelli aveva infatti insegnato a due riprese, in qualità di supplente, lettere italiane e latine, fino a quando non ne fu allontanato per i suoi contrasti con il regime. Tra gli studenti, vi era anche il giovanissimo Gianni Agnelli, che dopo il licenziamento lo volle come precettore privato nel suo percorso di studi per gli anni a venire.
La professione dell’insegnamento si accostò a quella, più continuativa, di editore. Negli anni Trenta Antonicelli curò per Frassinelli la collana “Biblioteca Europea” per la quale fece tradurre una straordinaria serie di romanzi, a conferma di un intuito e un gusto fuori dal comune. Tra i titoli: L’armata a cavallo di Isaak Babel, Moby Dick di Herman Melville, Dedalus di James Joyce, Il processo di Franz Kafka, Le avventure di Huck Finn di Mark Twain. Sempre sua fu l’idea di pubblicare per la prima volta in Italia, nella forma di album per ragazzi, le Avventure di Topolino di Walt Disney. Nel 1942 decise poi di fondare una propria casa editrice, di piccole dimensioni ma ampie prospettive, chiamata “Francesco De Silva”, dal nome di un tipografo rinascimentale piemontese, e caratterizzata da un catalogo insolito e variegato, tra cui spicca, nel 1947, Se questo è un uomo di Primo Levi, inizialmente rifiutato da Einaudi.
Tra cultura e politica, erudizione e militanza, studio e impegno civile, negli anni del Dopoguerra Antonicelli divenne un instancabile organizzatore culturale. Fin dal giugno del 1945 fu coinvolto, insieme a Norberto Bobbio, Felice Casorati, Massimo Mila, Cesare Pavese e parecchi altri, nella creazione dell’Unione culturale: un’associazione concepita come una continuazione in altra forma dell’attività resistenziale, a partire dalla constatazione che dopo venti anni di dittatura il popolo italiano sarebbe dovuto, letteralmente, risorgere e dall'auspicio che la cultura potesse costituire il mezzo propulsore della rinascita.
La Liberazione vera dell’Italia dal fascismo, da tutto il fascismo, è appena cominciata e non potrà essere, non dovrà essere così avventurosa, antisistematica com'è stata quella militare e politica,
affermava Antonicelli in una presentazione radiofonica degli scopi dell’Unione culturale, di cui assumeva la presidenza, nel novembre 1946.
“È una lotta" – proseguiva – "che non vuole impazienze, ma nella quale l’intransigenza è decisiva, perché in nessun punto si potrà venire a compromessi con l’avversario. È una lotta che vuole unità d’azione, solidarietà di sforzi. La nostra società culturale sveglierà quante più energie le sarà possibile, promuoverà quante iniziative potrà, sarà presente un po’ dappertutto”.
Sotto la guida di Antonicelli, gli “infernotti” di Palazzo Carignano, che erano divenuti la sede dell’Associazione, furono animati da una programmazione serrata, che propose una felice sintesi tra cultura popolare e cultura d’élite, divulgazione e avanguardia. Dal palco dell’Unione culturale intervennero Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei e Umberto Terracini; Umberto Saba, Salvatore Quasimodo e Italo Calvino; Felice Casorati, Tristan Tzara e Renato Guttuso; Raf Vallone, Vittorio Gassman e Dario Fo. Si organizzarono conferenze su tematiche umanistiche e scientifiche, proiezioni cinematografiche, spettacoli teatrali, concerti e cineforum, nell'intento di coniugare qualità della programmazione e fruibilità dell’offerta. Così, l’associazione divenne uno dei luoghi più vivaci della scena cittadina, che Antonicelli presiederà fino alla morte e ancora oggi porta il suo nome.
La presenza sulla scena culturale della città si concretizzò in altre ragguardevoli iniziative. Nel giugno 1947 venne fondato a Torino l’Istituto storico della Resistenza in Piemonte. Antonicelli ne divenne presidente, favorendo lo sviluppo di un ente che con straordinaria rapidità rese accessibili agli studiosi i materiali documentali e storiografici con cui elaborare, senza i vincoli e le tempistiche degli archivi ufficiali, la memoria della lotta partigiana. Nel 1961 nacque invece il Centro studi “Piero Gobetti”, di cui Antonicelli fu, sin dai primi mesi, animatore assiduo. La figura di Gobetti, d’altro canto, aveva con il tempo acquisito nel suo pensiero uno spazio sempre maggiore. I due non si erano molto frequentati negli anni della breve vita di Piero, ma la militanza di quel giovane martire antifascista era divenuta per Franco un modello ideale e morale. Norberto Bobbio, in un suo ricordo di Antonicelli – la loro amicizia, cominciata da ragazzi, durò tutta la vita – ha precisato che egli fu “gobettiano per alcuni tratti essenziali”, tra cui “la concezione etica della politica, da non abbandonare mai anche se destinata alla sconfitta”, la tendenza a “mettersi dalla parte di coloro che dovrebbero idealmente aver ragione ma di fatto hanno sempre torto” e “la libertà come supremo valore”.
Ed è stato peraltro Antonicelli, nel 1966, a comporre l’iscrizione della lapide collocata all’ingresso di “casa Gobetti”, in via Fabro 6 a Torino, ricordando che Piero “in patria aveva lasciato un esempio inesorabile d’integra libertà per l’indomani e per sempre”. Nello stesso anno, si fece coinvolgere da Paolo Gobetti, il figlio di Piero, nella fondazione dell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, istituito con il precipuo obiettivo di radunare e conservare le pellicole cinematografiche girate durante la lotta partigiana. Per Antonicelli il cinema, apprezzato sia come forma d’arte sia come strumento documentario, era d’altronde un interesse di lunga data: aveva diretto, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, un Cine Club ospitato dall’Unione culturale e al cinema aveva dedicato parecchi elzeviri su La Stampa e Il Radiocorriere – testate con cui intrattenne una lunga e prolifica collaborazione.
Insegnante, editore, organizzatore, giornalista, critico letterario, letterato, storico, poeta e drammaturgo. E poi ancora – i capitoli della sua biografia intellettuale sono davvero numerosi – autore televisivo per alcuni programmi di intrattenimento culturale della RAI, conduttore radiofonico e uomo politico: dopo l’esperienza del CLN e un paio di candidature senza seguito in piccole formazioni social-liberali nel Dopoguerra, Antonicelli venne eletto nel 1968 al Senato nelle fila della Sinistra indipendente, nel collegio di Alessandria e Tortona. Riconfermato nel 1972, avrebbe esercitato questo suo incarico fino alla morte, avvenuta due anni più tardi, battendosi costantemente per la tutela dei diritti civili e la difesa dei valori costituzionali.
Considerato lo spessore del personaggio, può sembrare strano che, a quasi mezzo secolo dalla scomparsa, il profilo di Antonicelli non sia stato oggetto di studi approfonditi e che ancora non disponiamo di una ricerca esaustiva sul suo contributo alla cultura, piemontese e nazionale, del Novecento. Ciò è verosimilmente dipeso da due fattori: da un lato, la difficoltà oggettiva di ricondurre a un ritratto d’insieme i tanti volti del suo estro multiforme; dall’altro la dispersione delle carte in numerosi fondi, tra Torino, Pavia e Livorno, che andrebbero riuniti almeno virtualmente per renderne più agevole la consultazione. Nell’attesa, è comunque possibile abbozzare un bilancio della sua eredità intellettuale. E l’elemento che emerge con una certa nettezza, per nulla scontato per un uomo del suo tempo, è una sorta di corrispondenza, di comune lunghezza d’onda, con il presente. Risalta, per essere più espliciti, una precarietà febbrile della sua esistenza, una provvisorietà costitutiva del suo incedere, che sembra anticipare l’odierna condizione di chi sceglie un mestiere culturale indipendente. Un tratto, questo, che rende la personalità di Antonicelli eccentrica rispetto a quelle dei suoi contemporanei e invece riconoscibilissima agli occhi di chi oggi lo osserva.
Antonicelli, per esempio, non ha mai ottenuto una cattedra universitaria, perché mai incanalò i propri interessi in uno specifico settore disciplinare; non ha scritto un’opera capitale, cui la sua memoria si sia legata, perché disseminò il suo talento in una bibliografia che supera le duemila voci, spaziando dai saggi letterari alle favole per bambini, dai testi teatrali alle raccolte di cantilene popolari, dagli scritti eruditi agli articoli di intrattenimento; non ha lasciato un gruppo di allievi o successori perché non concentrò il proprio carisma in un unico ambito di interessi o in una soltanto delle istituzioni culturali che guidò. Questa attitudine lo ha reso diverso rispetto ad altri torinesi illustri suoi contemporanei, dediti all'insegnamento accademico, curatori attenti della propria fortuna editoriale e maestri venerati dalle rispettive cerchie di allievi. E differente è di conseguenza stato, in certo senso, il destino della sua fama: Antonicelli non è stato dimenticato, ma nemmeno rientra nel pantheon della cultura torinese del Novecento. Nel cui ambito sembra invece meritare uno spazio, in virtù di almeno due tratti tra quelli accennati nella ricostruzione biografica qui abbozzata: l’impegno antifascista e la versatilità di organizzatore culturale.
Sull’impegno antifascista si è già detto e un primo atto concreto per salvaguardarne la memoria è stato compiuto lo scorso anno dalla Città di Torino: nel novembre 2019 è stata intitolata a Franco Antonicelli la piazzetta, all’angolo tra corso Valdocco e via del Carmine, su cui affaccia il Polo del ‘900, il centro culturale aperto nel 2016 di cui sono partner i quattro enti da lui fondati – Unione culturale, Istituto storico della Resistenza, Centro studi “Piero Gobetti” e Archivio nazionale cinematografico della Resistenza.
Sulla versatilità di organizzatore culturale bisognerà invece, e lungamente, dire in futuro: c’è ancora tanto da raccontare e ricordare, scoprire e riscoprire – e verosimilmente da imparare. Muovendo proprio dalla spiccata consonanza di Antonicelli con il nostro presente e dalla specifica statura della sua persona: un uomo curioso, di mente aperta e intelletto gioviale, che ha considerato la cultura come uno strumento democratico e inclusivo di progresso civile e maturazione morale.