Non è facile ritrovare reperti archeologici a testimonianza della presenza di oggetti e parti di abbigliamento in cuoio, data la scarsa resistenza nel tempo di tale materiale. Solitamente si ritrovano sia armi sia utensili in pietra fissati in qualche modo ad un manico, legati con una cinghia in cuoio, così come più recentemente sono stati ritrovati oggetti in bronzo fissati tramite fibbie ad un cinturone di cuoio; questo fa pensare che vi fossero “artigiani” che si dedicavano a questo tipo di lavoro.
È probabile che i cacciatori abbiano intuito la possibilità di rendere imputrescibile le pelli degli animali uccisi utilizzando sali minerali, soprattutto salnitro (nitrato di potassio) e sali d'alluminio che hanno elevate caratteristiche di conservanti. Solo in una fase successiva l'uomo ha utilizzato quella che conosciamo come concia vegetale con cortecce e foglie di quercia o castagno.
La possibilità di accedere a documenti storici permette di conoscere l'arte conciaria a partire dagli inizi del X secolo. In Francia, in quel periodo, si formarono numerose corporazioni e nel 1345 Filippo VI di Valois fu il primo a dare un'organizzazione agli addetti, emanando gli Statuti di Corporazione per i Tanneurs, Corroyeurs et Sueurs; in Germania intorno alla fine del 1300 nacque la Societas factorum albicorei, i conciatori di pelli all'allume specializzati nella produzione di cuoio bianco che si contrapponevano ai fabbricanti di rubicoreum, il cosiddetto cuoio rosso. In Inghilterra le associazioni di mestiere erano conosciute col termine di Guilds [Gilde] - tra queste particolare importanza assunse quella denominata Skinner's Company - che stabilirono delle regole molto precise sulla lavorazione e sulla necessità di salvaguardare le zone in cui i lavori erano svolti: i conciatori operavano soprattutto in vicinanza delle foreste e vi erano norme rigidissime per regolare lo scarico delle acque.
Nella parte di Spagna posta sotto il dominio arabo, già dall'VIII secolo si sviluppò l'arte della concia con la produzione di cuoi molto ricercati: marocchino, saffiano, gadamesino; dalla città di Cordova prese nome il cuoio cordovano, termine che si diffuse un po' ovunque tant'è che in Francia ancora oggi il calzolaio è chiamato cordonnier. La cacciata prima dei Mori e poi degli Ebrei fece sì che molti artigiani specializzati nella fabbricazione di cuoi con decorazioni in oro e argento si disperdessero in tutta l'Europa. Alcuni di loro arrivarono anche in Italia dove iniziarono a diffondere la loro arte e i loro prodotti molto ricercati.
In Italia le società a cui appartenevano gli artigiani erano denominate Università; tra queste vi era quella dei coriatori con statuti e prescrizioni legislative molto rigide. Venendo al Piemonte, non è difficile pensare che in epoche lontane numerose mandrie di bovini, caprini e ovini pascolassero nelle valli e pianure pedemontane. Possiamo dunque ipotizzare che, alle prime forme organizzate di raccolta del pellame di animali scuoiati si sia dato vita ad una produzione di prodotto conciato, in particolare nelle zone di Biella, Vercelli, Valle d'Aosta, Casale, Torino, Cherasco, Bra, Savigliano.
A Torino, gli Statuti delle Corporazioni erano raccolti nel Codice delle Catene, un testo in pergamena, scritto in basso latino, composto da 115 fogli rilegati con assi di legno ricoperti di cuoio impresso e fissato con anelli ad uno scanno nell'allora Casa del Comune (oggi si trova al Museo Civico). Con questi Statuti, nel 1360 Amedeo VI di Savoia, il Conte Verde, in cambio della fedeltà giuratagli da Torino, regolamentava le varie attività artigianali.
Norme severe e precise regolavano l'attività conciaria che si svolgeva soprattutto lungo corsi d'acqua ed in particolare nei due borghi che allora si situavano al di fuori della Città: uno al di là della Porta di Palazzo, l'altro fuori Porta di Po. In particolare era vietato lavare le pelli e gettare residui di lavorazione nelle doire, termine con cui erano individuati in quasi tutto il Piemonte i torrentelli che attraversavano le strade delle città (da qui il nome dei fiumi Dora Baltea e Riparia).
Anche il Monferrato aveva una forte presenza di artigiani conciatori e Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova e Monferrato, con la grida fatta emanare il 26 settembre 1575 stabilì che:
gli Affaitatori non debbano lasciar riscaldare le pelli insieme ma al più presto condurle all'affaitaria e metterle nell'acqua sotto pena d'un scudo per ogni pelle […] debbiano lasciare in affaito le groppe dieci mesi, otto li manzi e manzoni.
Seguendo le indicazioni contenute nella suddetta grida, si capisce quali fossero le operazioni che costituivano il processo di concia: dopo aver scorticato le pelli, lavate e messe in acqua per un giorno, dovevano essere lasciate nella calcina almeno 24 giorni e non più di un mese; successivamente, dopo averle nuovamente lavate, andavano rimesse in calce per una settimana. Terminato questo nuovo calcinaio, era necessario un altro lavaggio e quindi
siano ben purgate cavandoli bene e con tutta diligenza la calcina raspandole cinque volte con il coltellazzo al cavalletto. Dopo si hanno da levare fuori di detta acqua e metterli nelle tine al torbido per darli il colore e ivi si lasciano un mese e manco secondo la stagione dei tempi.
La procedura prevedeva in seguito la cosiddetta concia al sacco per cui ogni pelle veniva riempita di rusca (con questo termine, o ruscasso, si definiva la scorza macinata e sfruttata dopo la concia), acqua di tina e poi cucita; i “sacchi” andavano poi immersi nuovamente nelle tine e lasciati il tempo necessario a seconda del peso di ogni pelle:
quando detti Affaitatori vorranno mettere li corami nel detto affaito gli haveranno da mettere con la presenza del predetto Deputato il qual tenerà nota dell'anno mese e giorno e del numero delli corami che ivi si metteranno ne manco li potranno levar fuori di detto affaito senza licenza e intervento del detto Deputato il quale avvertirà che detti corami non si levino avanti il termine prefisso di sopra.
Una volta lasciata definitivamente la tina, le pelli messe in piano venivano cosparse di rusca, pessera e galle e così lasciate per 4 mesi. A questo punto finiva l'opera dell'affaitatore e iniziava quella del coriatore.
Carlo Emanuele I di Savoia, nel 1629, dette seguito a quanto stabilito dal Gonzaga con proprie Dichiarazioni con cui stabiliva "la politica sopra li corami per levar gli abusi che vi erano rispetto agli Affaitori, Coriatori Calzolari e Macellari" (si veda Stabilimenti sopra gli affaitori, Parte III, Libro X, Titolo III - conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze). In queste Dichiarazioni si trova, forse per la prima volta, la distinzione tra la mansione di Affaitore (o Affaitatore) da quella di Coriatore essendo i primi quelli addetti alle lavorazioni primarie dei pellami grezzi precedenti la concia, e cioè la calcinazione, depilazione e scarnatura, mentre alla seconda categoria appartenevano gli artigiani cui spettava il compito di produrre il cuoio vero e proprio.
Queste norme divennero ancor più rigorose dopo la peste del 1630 che colpì Torino e che ebbe conseguenze in taluni casi peggiori di quella citata dal Manzoni; per questa epidemia Carlo Emanuele I di Savoia, poco prima di morire, emanò il decreto che allontanava dalla città tutte le attività conciarie, anche se il protomedico Giovanni Francesco Fiochetto ricordava a tutti che in Francia i conciatori erano ritenuti quasi immuni alle epidemie in quanto “la concia è fatta con calce, allume, galla, scorza di quercia ed altre simili cose, tutte fetenti e contrarie al morbo” (Giovanni Francesco Fiochetto, Trattato della peste et pestifero contagio di Torino, Torino, 1631).
Un editto del 23 luglio 1630, prevedeva che le pelli dovessero stare in fosse chiuse per almeno 18 mesi; tali fosse (tampe o gallari) erano chiuse con chiavistelli le cui chiavi erano custodite dal clavario del Comune che, senza dare alcun preavviso, doveva eseguire ispezioni e verificare che la regola fosse rispettata. Ancor più attenta cura fu posta da Carlo Emanuele III nel seguire le attività economiche in Piemonte, tra cui quella conciaria a cui il sovrano teneva in modo particolare per contrastare le forti importazioni di cuoi esteri. Nell'editto del 6 giugno 1757 si stabilisce che
per vincere la concorrenza straniera anzitutto occorre che i conciatori paesani oprino a regola d'arte. Vengono per tanto riportate le regole per la concia dei corami da osservarsi in tutti gli Stati di S. M. di qua da monti e colli.
(Un'ampia disamina dell'Editto è contenuta in "Editti e Statuti piemontesi riguardanti l'arte dei conciapelli e dei coriari" in "Rivista di Storia Economica", VII, 3-4, Settembre-Dicembre 1942-XXI)
Sui cuoi doveva essere apposto il marchio del mastro coriatore per poter individuare facilmente chi avesse messo in commercio cuoi che non rispondevano alle norme. Ogni mastro coriatore doveva presentare ai Consoli un pezzo di cuoio con l’impressione del marchio stesso al fine della sua approvazione:
Presenterà la medesima (marca) con la prova dell'impressione già fattane in un pezzo di cuoio subito levato come sopra dalla concia, la quale impressione si conserverà appresso detto Consolato, acciocché sempre ne consti e per avervi ricorso, nelle ricorrenze. (ivi, p. 153).
Un forte contributo tecnico all'arte della concia viene da Jerôme de La Lande, uno scienziato di cui è difficile dare una definizione di appartenenza anche se i suoi studi principali avvengono nel settore dell'astronomia; nel 1764 La Lande è autore del primo trattato completo sulla lavorazione delle pelli conosciuto come Art du Tanneur che fa seguito all'Art du Chamoiseur e a cui faranno seguito altri quattro trattati dedicati alle varie arti legate alla lavorazione delle pelli. In queste sue pubblicazioni, La Lande sottolinea come sia necessario dare dei riferimenti tecnici ed operativi ad un arte che nei secoli non ha avuto molti progressi soprattutto per la grande diffidenza e gelosia evidenziate da chi opera nel settore.
Da sinistra: Concia e lavorazioni successive. Immagini tratte da La Lande J., “L’art du tanneur”, 1764.
L'opera inizia dicendo che,
conciare una pelle è toglierle la sua umidità e il grasso naturale, aumentare la resistenza delle fibre e rendere il tessuto più compatto. […] Si ignora nel modo più assoluto in quale tempo è iniziato l'uso di preparare così le Pelli, ma si è tentati di credere che questo uso sia molto antico.
Il trattato elenca minuziosamente le operazioni e introduce termini tecnici che ancora oggi sono utilizzati, come pelle in trippa e lavori di riviera.
Lavori di Riviera. Immagini tratte da La Lande J., “L’art du tanneur”, 1764.
Il trattato del La Lande dette una notevole spinta all'incremento delle attività produttive conciarie in tutto il territorio e spesso queste venivano svolte anche da chi non ne aveva le giuste capacità. Fu questa una delle ragioni che spinse Vittorio Amedeo III ad emanare il Regio Editto del 23 aprile 1784 per ribadire con precise disposizioni e regole chi potesse esercitare il mestiere di affaitore e l'arte di coriatore "a riguardo delle manifatture de' cuoi e delle pelli" stabilendo il comportamento da seguire, nelle varie fasi dei lavori, aumentando i controlli dei medesimi da parte del Consolato:
Li Consolati faranno procedere ad impensate visite per iscoprire non solo le menzionate frodi e contravvenzioni, ma anche per assicurare la perfetta concia delle pelli e de' cuoi […] ed ove se ne abbia comodo, potranno ordinare che non siano tolti li cuoi dalle tampe e gallari senza darne preventivo avviso per la visita. […] Li contravventori saranno puniti colla perdita dei corami e delle pelli […] inoltre verranno li frodatori castigati colla perdita di bestie e vetture sulle quali si troveranno i corami.
Da queste indicazioni, soprattutto dal tempo stabilito in 18 mesi di permanenza nelle fosse, si capisce quanto fosse lento il processo di concia; nelle tampe si inserivano dunque le pelli con i materiali concianti che erano allora quasi esclusivamente corteccia di quercia, detta rusca. Potevano anche essere usate quella di pino, chiamata pessera: "sarà però permessa la continuazione dell'uso praticato sin d’ora della pessera in supplemento della rusca in quel luoghi ove questa manca o scarseggia, perchè se ne impieghi quanta basta per supplire", la valonea nonché foglie di sommacco.
Quanto fosse importante la presenza di concerie nella città di Torino, lo testimonia il fatto che esistesse la contrada dei Coriatori - che andava dalla piazzetta BonelIi (oggi piazza Lagrange) alla contrada di San Filippo (via Maria Vittoria) - ed una Corporazione denominata Università dei Coriatori sotto la Protezione di Sant'Orso. Secondo gli studi fatti da Erberto Durio (discendente di Secondo Durio, fondatore dell'omonima conceria nel 1853) questa Università risaliva al 1600 come riportato nel documento contenente i “Capitoli e Privilegi concessi dalla gloriosa memoria di Carlo Emanuele III e confermati da Madama Reale Giovanna Battista all'Università dei Coriatori della presente Città di Torino”.
Nell'area corrispondente oggi a Borgo San Donato, si trovava la cosiddetta conceria del Martinetto; nel 1608 era stato concesso in enfiteusi perpetua a
Messer Giò Batta Merlino di Torino […] il luoco gierbo [prato incolto], et sitto in detta Città ove si dice al Martinetto ò sia alla Valdoch, di giornate tre e mezzo alla misura di Torino […] e la faccoltà e licenza di poter construrre o far construerre sopra li sitti et rippa d’essa Città che sono poco distante, et al quanto al de’ sopra del Mollino del Martinetto un artificcio et ingegno per poter camossar [scamosciare] le pelli con facoltà anche di prevalersi e servirsi per essa, et servitio di detto.
Sempre in quell'area si trovava la conceria Watzembourn: una Statistica della Popolazione della Città di Torino del 1801 censisce in località "brüsacör", o “Bruciacuore”, nella regione di Valdocco, la famiglia di Filippo Giacomo Watzembourn, originario di Luserna San Giovanni, oltre a 12 “lavoranti”, impiegati nella conceria di pelli di sua proprietà, che sorge nel medesimo luogo. Watzembourn, che aveva acquistato un edificio preesistente per trasformarlo in conceria, nel 1805 ottiene
la permissione di costrurre e tener un edificio in sito suo proprio, e d’apporre una ruota a davanojra [il termine mutuato dalla lavorazione tessile definisce uno strumento girevole munito di tavolette parallele all'asse], e fare le opere necessarie onde renderlo girante […] e ciò all’oggetto di far valere la sua fabbrica di coriatore ed affaitore di pelli […] e per dare movimento ad un bottale ed ad una pesta da rusca a taglietti. (Archivio Storico Città di Torino, Ragionerie, IV, 1817).
La pesta da rusca serviva a frantumare le galle e la corteccia per ricavare il tannino utilizzato nelle operazioni di concia. L’edificio venne poi affittato da Giovanni Martino Bianchini, un mastro cioccolataio di origine svizzera, che intorno al 1820 vi installa una macchina di sua invenzione per la produzione del cioccolato: nasce la fabbrica di cioccolata Landò. A Bianchini subentra, intorno al 1830, Paolo Caffarel. Cacao al posto del tannino, gianduiotti al posto del cuoio.
A breve distanza dalla Watzembourn, si trovava la conceria Martinolo, mentre nel 1838 viene presentato da parte del geometra Pietro Briai il disegno per un nuovo fabbricato da adibire a conceria per la concia di pelli di capra e montone (nell'attuale via Durandi 13). L'edificio, con un'elegante facciata in stile neoclassico, era imponente con i suoi tre piani ed avrebbe ospitato la conceria di Domenico Fiorio.
Conceria Calcagno, che si trovava dove attualmente è Porta Palazzo, e sua planimetria con schema della ruota davanojra.
I fratelli Calcagno Antonio e Vincenzo esercitavano in borgo Dora fin dal 1805, in un edificio posto lungo il canale della Fucina (derivazione del canale dei Molassi nei pressi del cimitero di San Pietro in Vincoli; alimentava la fucina da ferro municipale, il filatoio Pinardi e altre attività). Secondo una statistica del 1823, su 56 concerie dell'area torinese, la loro era la più grande ed aveva ben 36 addetti contro una media del settore di circa 4. Riuscivano a lavorare più di 6.000 pelli l'anno ed erano rinomati per la produzione di cuoio da suola. Alla scadenza del contratto d’affitto fecero richiesta di trasferire la conceria in un edificio di loro proprietà sulla sponda sinistra del canale dei Molassi, di fronte ai filatoi Pinardi e Galleani. L’amministrazione comunale acconsentì a questo dichiarandosi “sempre intenta a promuovere l’industriosità dei torinesi”. Si può dire che con la conceria Calcagno inizi la fase industriale della conceria che vedrà il proprio sviluppo di lì a poco con l'invenzione del bottale: l'inizio di una nuova fase e di una nuova storia.
👍 Si ringrazia Stefano Chiorino per averci fornito le riproduzioni della sua collezione privata di tavole di La Lande.