Nell’aprile 1655 milizie sabaude e francesi attaccarono gli abitanti di fede valdese delle valli piemontesi. I massacri che seguirono, noti a partire dall’Ottocento come Pasque piemontesi, provocarono l’intervento dei paesi di fede protestante, primo fra tutti l’Inghilterra. Grazie alla collaborazione di Corrado Gavinelli, docente di architettura ed esperto di questioni valdesi, e alle preziose indicazioni bibliografiche di Albert de Lange, in questo (e in un successivo articolo) ci occuperemo delle persecuzioni valdesi e del conseguente intervento inglese.
Non riconoscono il papa, non credono al purgatorio né al celibato dei loro ministri; credono, invece, in un unico Dio, in Gesù Cristo e nello Spirito Santo, e per loro la Bibbia è la sola norma di fede e Gesù l’unico mediatore tra Dio e gli uomini. Questi, in estrema sintesi, sono i valdesi. Ma la loro storia è lunga e complessa.
Tutto ebbe inizio intorno al 1170, allorché Pierre Valdo, un agiato mercante di Lione, dopo una crisi spirituale si liberò di tutte le proprie ricchezze per vivere secondo i precetti di povertà evangelica. Da movimento interno e ortodosso, Valdo e i Poveri di Lione divennero ostili alla chiesa ufficiale quando il loro iniziatore cominciò a tradurre in provenzale alcuni passi della Bibbia e i discepoli iniziarono a rifiutare alcuni principi dottrinali. Nel 1177 i valdesi furono espulsi da Lione e scomunicati da papa Lucio III. Da quel momento fino alla Riforma, essi vissero in semi-clandestinità – talvolta tollerati, talvolta perseguitati. Nonostante le difficoltà, il loro credo fece proseliti e intere comunità si stabilirono in aree montane e rurali di Francia, Italia (negli attuali Piemonte, Lombardia e Calabria), Svizzera, Germania e Boemia.
All’inizio del Cinquecento le comunità valdesi più numerose erano quelle a cavallo delle Alpi Cozie. Nel ducato di Savoia i valdesi erano perlopiù concentrati nelle Valli Germanasca, Chisone e Pellice. Con la diffusione del credo protestante, nel 1532 i rappresentanti valdesi in Piemonte si incontrarono a Chanforan, nella Valle di Angrogna, per decidere se partecipare al movimento di protesta. Alla fine i barba (com’erano chiamati i predicatori valdesi) approvarono l’adesione. Di conseguenza, anche l’organizzazione mutò: da movimento itinerante, i valdesi si dotarono di una struttura ecclesiastica territoriale articolata in parrocchie, si precisò meglio la figura del pastore, vennero eretti i primi edifici di culto e fu incoraggiata una traduzione francese della Bibbia.
L’uscita allo scoperto dei valdesi provocò atteggiamenti ostili dei cattolici piemontesi e francesi. Al di qua delle Alpi la repressione si acuì dal 1560: prima tramite l’invio di predicatori gesuiti, quindi attraverso il ricorso alle armi. Essendo da poco ritornato sui propri territori dopo l’occupazione francese, Emanuele Filiberto di Savoia decise di liberarsi di ogni tipo di intrusione inviando una spedizione militare in Val Pellice. I riformati piemontesi si armarono come meglio poterono e riuscirono a respingere gli attacchi. Dopo pochi mesi, il duca preferì interrompere le azioni militari e concedere ai valdesi, con il trattato di Cavour del 1561, la libertà di culto all’interno delle valli.
Tuttavia, fin dagli anni immediatamente successivi alla tregua, la convivenza si dimostrò difficoltosa anche nelle aree tutelate dal trattato. La strategia di casa Savoia era chiara: circoscrivere i territori protetti dall’accordo e limitare il più possibile le prerogative valdesi. Le cose si complicarono intorno agli anni Trenta del Seicento con le invasioni francesi in occasione della seconda guerra del Monferrato. Le prime regioni interessate dalle occupazioni coincisero proprio con le valli valdesi, la cui popolazione si trovò tra l’incudine e il martello: se si fossero piegati ai francesi, i valdesi avrebbero subìto le ritorsioni delle truppe ducali; pericoli simili, se non peggiori, si sarebbero verificati nel caso opposto.
Con il trattato di Cherasco del 1631, che pose fine alla guerra del Monferrato, le valli piemontesi si trovarono in parte soggette ai francesi, in parte ai Savoia. Tutti i valdesi cercarono conferme dei privilegi in fatto di religione, chi presso il re di Francia, chi invece presso il duca sabaudo. Il nuovo duca Vittorio Amedeo I per qualche tempo tentennò, non sapendo se accontentare i sudditi riformati o cedere alle pressioni di corte, dove particolarmente la moglie, Maria Cristina di Borbone, era ostile alla presenza di minoranze religiose. In effetti, con Madama Reale vicinissima alle posizioni di comando l’ostilità nei confronti dei valdesi s’intensificò notevolmente: prima fu tentata la carta della conversione inviando nelle valli protestanti frati appartenenti alla congregazione De Propaganda Fide; poi, attraverso un editto del 1637 si cercò di limitare l’eresia alle Valli Perosa, San Martino e Pellice.
Proprio la lunga reggenza (dal 1637 al 1663) di Maria Cristina, sorella di Luigi XIII di Francia, fu segnata da una marcata soggezione alla politica transalpina e dall’acuirsi dei contrasti tra francesi e spagnoli sui territori italiani. La Spagna ambiva a estromettere i francesi dal Piemonte e a riportare il ducato sabaudo all’alleanza imperiale. Per perseguire tale obiettivo, gli spagnoli sostennero i cognati di Madama Cristina, Tommaso e Maurizio di Savoia, nella lotta per la reggenza. Il ducato, dal 1637 al 1642, si spaccò in due fazioni: una filofrancese, a favore della reggente; l’altra, filospagnola, a sostegno dei cognati. Dopo aver occupato con l’appoggio spagnolo quasi tutto il Piemonte, e aver costretto Madama Cristina alla fuga, i cognati, di fronte all’intervento francese, si dovettero arrendere e accontentare di ruoli secondari, lasciando le redini dello Stato nelle mani di Cristina Borbone. Dopo la crisi provocata dalla guerra civile si registrò un notevole incremento del potere sabaudo grazie a un forte sviluppo di esigenze accentratrici che, a imitazione della Francia, puntavano a rimuovere i particolarismi e ogni tipo di ostacolo che si contrapponeva al pieno esercizio delle prerogative sovrane.
Con la maggiore età di Carlo Emanuele II, figlio di Vittorio Amedeo I e Madama Reale, l’intolleranza nei confronti delle popolazioni riformate subì un giro di vite. In un primo tempo, il duca pareva volesse concedere i privilegi precedentemente accordati, ma in seguito li ritirò, emanando inoltre, nel febbraio 1650, un Ordine e un’Istruzione per la cui messa in atto delegò l’auditore della Camera dei conti, il giudice Andrea Gastaldo. Questi si trasferì nelle valli valdesi per eseguire le dieci disposizioni contenute nell’Istruzione. Esse comprendevano un’ulteriore limitazione dei “luoghi di tolleranza” nei quali ai riformati era consentito risiedere.
Intanto, a partire dal 1630, i valdesi si erano insediati anche nei paesi a maggioranza cattolica delle pianure e avevano fatto costruire un nuovo tempio a Luserna San Giovanni, al di fuori, cioè, dei limiti consentiti dal trattato del 1561. Allorché nel 1653 a Villar Pellice fu incendiato un convento di frati cappuccini eretto tre anni prima, l’intera comunità valdese fu ritenuta responsabile e una spedizione punitiva si diresse in quei luoghi. Gli scontri militari furono scongiurati dallo scoppio di un violento nubifragio e da un tempestivo accordo tra rappresentanti valdesi e ducali. Tuttavia, l’assassinio per mano valdese di un parroco cattolico diede il là alle violenze. Così, nel gennaio 1655 fu rinnovato l’Ordine ad Andrea Gastaldo, il quale questa volta lo applicò alla lettera: decretò che tutti i valdesi risiedenti in nove località al di fuori dei "luoghi immuni" avrebbero dovuto abiurare o abbandonare le loro case entro tre giorni e ritirarsi sui monti, pena la morte, dopo aver venduto i loro beni ai cattolici. Se fino al 1655 i contenziosi si erano risolti, in un modo o nell’altro (anche dietro pagamenti in denaro), a favore dei valdesi, questa volta le cose andarono diversamente.
Mentre rappresentanti valdesi inviavano ricorsi al Duca e si recavano personalmente a Torino per supplicarlo affinché sospendesse l’Ordine, contingenti sabaudi si preparavano all’attacco guidati dal marchese di Pianezza. I primi assedi, portati da circa settecento soldati di ordinanza e da milizie volontarie, ebbero luogo il 17 aprile 1655 all’ingresso della Val Pellice tra Luserna e San Giovanni. L’arrivo di Pianezza non sorprese gli abitanti: il borgo di San Giovanni si presentò del tutto disabitato agli occhi dei ducali, mentre circa cinquecento persone si misero a difesa di Torre Pellice agli ordini di Barthélemi Jahier. Dopo alcune schermaglie, le truppe piemontesi si impadronirono di Torre Pellice, dove decisero di stabilirsi.
Gli scontri veri e propri iniziarono dal 18 aprile. Gli uomini di Pianezza si diedero al saccheggio ma senza penetrare all’interno delle Valli a causa degli scarsi effettivi. Dopo qualche indecisione, il comandante sabaudo acconsentì a incontrare rappresentanti delle comunità valligiane, ai quali, però, concesse soltanto promesse evasive. Suo reale obiettivo era quello di tergiversare per potersi servire delle armate francesi che a breve avrebbero attraversato il Piemonte per assediare Pavia, allora in mano spagnola, a sostegno del duca di Modena, alleato della Francia e dei Savoia. Pianezza aveva in mente di approfittare della situazione per imporre alle comunità riformate di accogliere le milizie transalpine. In quel periodo, infatti, l’acquartieramento delle truppe avveniva a spese delle popolazioni locali, le quali, com’è ovvio, lo consideravano una necessità disdicevole. La trovata di Pianezza mise i valligiani di fronte a un bivio: se si fossero rifiutati, sarebbero stati trattati da ribelli e avrebbero subito una violenta occupazione; se avessero accettato, avrebbero rischiato saccheggi e razzie.
Illustrazioni dei massacri a danno dei valdesi contenute nel resoconto “History of Evangelical Churches of Piedmont" di Samuel Morland.
Alla fine optarono per il male minore e aprirono le porte ai soldati. Così, mentre schiere sabaude depredavano la bassa Val Pellice, sei reggimenti francesi, per un totale di circa cinquemila militari, confluirono in tutte le borgate della Valle. Queste truppe, tra il 22 e il 27 aprile si abbandonarono a devastazioni e massacri. In Val Pellice chi poté fuggì sui monti, molti rimasero bloccati nella neve e altrettanti furono passati alle armi dalle truppe del marchese Galeazzo Villa, mentre i pochi sopravvissuti abiurarono o cercarono riparo in territorio francese. In seguito, su ordine di Pianezza, Villa diresse le proprie armate in Val San Martino, mentre il marchese di San Damiano spezzò l’assedio in Val Perosa. Pare che la valle più duramente colpita fosse quella di Angrogna, dove si concentrò l’attacco del reggimento francese di Grancey. In tutto furono quindicimila i soldati a prendere parte alla mattanza: oltre ai piemontesi e ai francesi, si fecero notare alcuni reparti bavaresi e soprattutto un migliaio di mercenari irlandesi al servizio del governatore di Villanova d’Asti, Antonio Francesco Gentile.
Difficile stabilire con esattezza il numero dei caduti. Per Corrado Gavinelli,
stando alle uniche notifiche numeriche ufficiali riportate dai valdesi (che si basano sui dati archivistici del comune di Inverso Pinasca), le persone morte nelle stragi risalgono a 1.712 individui.
Tuttavia, prosegue Gavinelli,
è probabile che i decessi capitàti alle famiglie valdesi siano stati anche di più, considerando i fuggitivi e i dispersi che forse non sopravvissero. E poi mi sono sempre chiesto se in quelle scorrerie nei villaggi delle valli pinerolesi non siano state perpetrate anche uccisioni di altre persone del luogo, in quanto non credo che i soldati sabaudi sapessero distinguere, al momento, i protestanti dagli altri cristiani.
Dopo i primi attacchi, alcuni gruppi di valdesi risposero con rappresaglie e azioni di guerriglia nei confronti dell’esercito ducale. A guidare queste improvvisate ma agguerrite bande furono due persone: Barthélemi Jahier e Giosuè Gianavello – eroi per i valdesi, banditi per i Savoia. Particolarmente il secondo divenne una figura leggendaria della resistenza valdese – Jahier, dopo aver organizzato la resistenza in Val Chisone e contrattaccato le truppe di Pianezza, morì in un’imboscata nel giugno 1655, mentre Janavel rimase soltanto ferito e trovò la morte trentacinque anni più tardi. Come ha ricordato Gavinelli in un suo articolo,
da questa ribellione derivò anche la stesura delle Istruzioni, con le quali Gianavello prescriveva la migliore metodologia di operazioni montane per opporsi alle invasioni nemiche e incitare a un’efficace difesa territoriale.
Compilate in varie riprese, le Istruzioni “non erano unicamente uno strumento di indicazioni ai suoi valligiani per come resistere all’aggressione, bensì costituirono un esplicito programma di ripresa e riorganizzazione delle località vallive”.
Per quanto coraggiosa, la resistenza valdese non poté molto contro truppe meglio preparate e attrezzate. Ai valligiani piemontesi non rimase, pertanto, che inviare richieste d’aiuto ai governi delle nazioni protestanti. Il governo inglese guidato da Oliver Cromwell fu tra i più solleciti. Dell’intervento inglese e della decisiva azione diplomatica dell’inviato in Piemonte, Samuel Morland, ci occuperemo nel prossimo articolo.
👍 Un sincero ringraziamento al dr. Albert de Lange e a Corrado Gavinelli per l’aiuto.