Lia Varesio (©illustrazione di Ginger Berry Design).
Un mattino come tanti altri Lia, che è assistente sociale alla FIAT presso la Fondazione Agnelli, sta andando al lavoro. Ad un tratto si trova davanti una donna scarmigliata e scalza, che urla qualcosa di incomprensibile. La gente scappa terrorizzata. Lia si avvicina e le chiede perché stia gridando. “Grido al mondo la mia disperazione, ma nessuno si ferma” – risponde.
Era Esmeralda, uscita da poco dal manicomio, mangiava al Cottolengo e dormiva alla Stazione. Con la legge Basaglia del 1978 gli ospedali psichiatrici stavano chiudendo e molti pazienti erano già stati dimessi. Di Esmeralda non si prendeva cura nessuno. Era sola, disorientata e anche affamata. Lia telefona in azienda per chiedere un giorno di ferie e poi vanno insieme in un bar dove Esmeralda fa strage di cornetti e cappuccini. E racconta la sua storia.
Quest’incontro chiarisce a Lia quale sia la sua vera vocazione: dare voce e dignità agli ultimi degli ultimi, quelli che vivono per strada come barboni.
Certo questa profonda sensibilità per i problemi sociali più spinosi le deriva anche dalla famiglia, ricca di una fede viva, radicata nel quotidiano. Una famiglia straordinaria. Ciascuno, in modi diversi, si dedica al volontariato e inoltre sono tutti artisti, disegnano e dipingono tutti. Amano gli animali, i cani e i gatti e anche gli uccellini: escono dalla gabbia, fanno qualche volo di ispezione in giro, e poi vi ritornano. John, il fratello di Lia, è un bel ragazzo che fra l’altro fa anche il modello ad Anatomia. Lia nasce nel 1945 e, sin dai primi anni, rivela i segni di una brutta scoliosi che, oltre a pregiudicarne la crescita, negli anni sarà la causa di una patologia costrittiva, una grave forma di insufficienza respiratoria. Ma lei minimizzava sempre, non aveva tempo di preoccuparsi anche della sua malattia, aveva troppe cose da fare e troppe urgenze a cui badare, diceva.
Verso la fine degli anni Settanta Lia comincia a dedicarsi con continuità ai suoi barboni, ma già da tempo, appena libera dal lavoro, andava da sola nelle stazioni portando qualcosa di caldo ma soprattutto il calore umano di un sorriso, di un saluto, di un po’ di compagnia a certi viaggiatori che non partivano né arrivavano, ma se ne stavano lì, tra borsoni di plastica, nel tepore delle sale d’attesa oppure in certi angoli bui, riparati dalle correnti.
Non sono anni facili per Torino quelli tra la fine del 1970 e i primi degli Ottanta. Non era ancora terminata la lunga, insanguinata stagione del terrorismo, che già iniziava un declino industriale il quale avrebbe comportato cassa integrazione, licenziamenti, disoccupazione e scioperi ad oltranza. Una profonda crisi recessiva, diventata di conseguenza sociale, mette in ginocchio la prima città industriale d’Italia. È del settembre 1980 una delle vertenze più lunghe e travagliate che si ricordino: gli operai della FIAT entrano in sciopero per più di un mese contro il progetto dell’azienda di ricorrere alla cassa integrazione e al licenziamento per molte migliaia di lavoratori. La conclusione avviene dopo la cosiddetta “marcia dei quarantamila”, la protesta degli impiegati e dei quadri FIAT contro i picchettaggi che impediscono l’accesso ai luoghi di lavoro. Intanto le fabbriche, e non solo quelle dell’indotto FIAT, chiudono una dopo l’altra, la popolazione decresce, la povertà aumenta.
Lia che porta aiuto nelle stazioni di Torino.
E tuttavia in questo momento operano in Torino alcuni personaggi carismatici: il cardinale Michele Pellegrino, il pastore della scelta preferenziale dei poveri e della profetica lettera pastorale “Camminare Insieme”, il sindaco Diego Novelli, uomo illuminato che intuisce non solo le capacità di Lia, ma anche la passione che la anima e proprio a lei affida l'"Ufficio senza fissa dimora" che in precedenza nemmeno esisteva. E poi ci sono i “compagni di strada” di Lia. “La strada è un importante punto di partenza evangelico”, dice Don Luigi Ciotti, nato anch’egli nel 1945 come Lia e fondatore del Gruppo Abele. Entrambi hanno cominciato “sulla strada”. Intanto era già nato il Sermig di Ernesto Olivero, che negli anni Ottanta troverà sede nell'antico Arsenale Militare di Borgo Dora diventando l'"Arsenale della Pace", aperto a tutti quelli che fanno fatica a vivere.
Nel 1979 arrivano a Torino da Venezia padre Antonio e padre Adolfo, entrambi camilliani. Sono loro i primi “compagni di strada” di Lia, hanno la sua stessa visione radicale del Vangelo, si trovano nelle stazioni e portano panini, bevande calde, coperte ad una umanità dolente che tutte le notti bivacca in quei posti, ma soprattutto portano un senso di solidarietà che col tempo diventerà amicizia. I camilliani fonderanno poi la comunità Madian e Lia la Bartolomeo & C.
Perché Bartolomeo? Una notte del 1980, Lia con suo fratello John e un paio di amici come di consueto stanno facendo la “ronda” sulla loro Cinquecento: Porta Nuova, via Fiochetto, Porta Susa. Quella notte però non riescono a trovare Bartolomeo al suo solito posto nella stazione di via Fiochetto. Alla fine provano a cercarlo anche in centro, vicino al Duomo, in una casa diroccata dove a volte si rifugiava. Camminando al buio, Lia inciampa in un viluppo di cartoni e nylon. Lì sotto, assiderato dal freddo, c’è un uomo. Il progetto della Bartolomeo & C. nasce nel giorno stesso in cui Bartolomeo viene trovato morto.
"Questo ha fatto scattare in Lia la rabbia e la forza di dire basta. Non potevamo accettare che la gente morisse" dice Marco Gremo, cofondatore e presidente della Bartolomeo & C.
Questa “gente” è costituita da un’umanità estremamente varia: c’è chi è stato abbandonato dalla famiglia, chi è rimasto solo dopo la morte dei genitori, chi è etilista, chi tossicodipendente, chi si prostituisce, chi è ex-detenuto, chi è malato, chi è stato dimesso da un ospedale psichiatrico. A loro Lia si avvicina con la sollecitudine di un’amica che riesce a comprendere la storia della loro disperazione.
"Non possiamo lasciare che soffrano, non hanno più voce e dobbiamo gridare noi per loro, non lasciamoli nel loro stato. Dobbiamo amarli e amandoli si trasformano” – dice Lia.
La concretezza della sua azione si fonda sulla convinzione che veramente l’uomo possa trasformarsi quando si sente amato, perché vede la vita da una prospettiva diversa. Dialogo, affetto, fiducia prendono per mano chi ha toccato il fondo e lo aiutano a risalire la china, a ritrovare i valori che la durezza della vita ha travolto. Per credere a questa sorta di miracolo, bisogna avere una fede in Dio e nell'uomo che sposta le montagne. È questa fede che anima la tenacia instancabile di Lia, anche quando il suo progetto rischia di sembrare utopia. Lo dice con chiarezza, non è assistenza e tantomeno elemosina quello che intende fare: vuole lottare per i diritti degli ultimi fra gli ultimi, senza nome e senza identità, privi di tutto, quelli che la Chiesa nel suo immobilismo trascura e che le istituzioni nemmeno sanno che esistano. Li va a cercare nelle stazioni, sotto i ponti, sulle panchine, parla con loro, li conosce uno per uno, li considera amici. “I me barbun”, dice sempre. Non solo è “la voce degli altri”, per loro è anche mani e piedi e mente, soprattutto.
Dopo aver lasciato la FIAT, lavora in Comune nell’”Ufficio senza fissa dimora” e sa bene che l’unico modo per far ottenere ai suoi barboni i diritti che loro competono è quello di avviare le procedure opportune. Lia possiede una sicura abilità pratico-amministrativa, insieme al genio della concretezza. Accompagna i suoi amici in Comune, alcuni nemmeno sanno scrivere, a richiedere un documento di identità, un certificato, un sussidio, una pensione di invalidità, una casa. Perché è un loro diritto riconquistare la dignità di cittadini.
I rapporti con le istituzioni non sono propriamente idilliaci. Lia non conosce l’arte diplomatica, sbatte in faccia la verità, procede con una determinazione a volte anche aggressiva e, se necessario, urla e batte i pugni sul tavolo di qualche ufficio per pretendere ciò che ritiene giusto. Certo è dura mettere d’accordo i ritmi travolgenti di Lia con quelli di un’amministrazione pubblica. La sua cultura del fare si scontra con una burocrazia arrugginita che è obbligata a prendere atto di una intera fascia di emarginazione non istituzionalizzata. Gli assessori, convinti o meno, alla fine cedono per levarsela di torno. Una gran rompiscatole, Lia. C’era e c’è un patrimonio di edilizia pubblica in Torino, in parte mal gestita o degradata. Lia viene a sapere, attraverso i suoi numerosi contatti, di uno stabile piuttosto malandato in via Fiochetto, dietro Porta Palazzo, zona quindi centrale. Fa il diavolo a quattro per poter realizzare un suo progetto e quando le concedono alcuni ambienti, in poco tempo li ristruttura, li arreda e li rende agibili sotto forma di alloggi per i malati di cui non si occupa nessuno. Cosa che l’edilizia pubblica non avrebbe mai fatto. È Lia con il gruppo della Bartolomeo & C. a seguire i malati. Tra loro c’è un ragazzo colpito da AIDS. Chissà se aveva una madre… Lia gli fa lei da madre, gli sta vicino fino alla fine.
Anche con la Chiesa i rapporti sono piuttosto problematici. Infastidisce, disturba con la radicalità delle sue posizioni che sono un monito continuo anche per i religiosi. Non risparmia niente a nessuno e a loro non manca di ricordare quali siano le priorità del Vangelo.
“Ma i profeti come Lia è giusto che siano così, che rompano le palle, che facciano vedere la realtà com’è, senza maschere e senza ipocrisie” – dice il camilliano padre Antonio, uno dei suoi primi “compagni di strada”. E ricorda pure come ad una cena di Natale per 200 persone avessero invitato il sindaco Novelli e il Cardinale (padre Pellegrino non c’era più). Il Sindaco viene, ma il Cardinale non si fa vedere. Lia e i suoi amici volontari portano a conoscenza di tutti un problema sociale ignorato e trascurato da sempre e soprattutto dimostrano che sono possibili concrete soluzioni. Dare una casa a una persona significa ridarle dignità e speranza. Dare ascolto, amicizia, appoggio a coloro che fanno più fatica a vivere perché si ritrovano in una condizione di disagio estremo, significa strapparli al degrado della solitudine per aiutarli a recuperare valori e fiducia.
Lia ha una capacità particolare di entrare in sintonia con le persone, di intuire i loro problemi e percepirne le sofferenze. Cerca di instaurare subito attraverso il colloquio un rapporto di amicizia. Questo però può essere molto difficile quando si trova davanti ex-carcerati, tossicodipendenti, malati mentali, gente violenta. Lia discute, ragiona, calma l’interlocutore e nella sua concreta positività trova un’intesa. E se necessario sa anche strigliare e gridare; urla come e più dei barboni e parla la loro stessa lingua. Nel contempo è incredibile la delicatezza e la sollecitudine affettuosa con cui si rivolge alle persone malate o fragili. I suoi barboni la amano incondizionatamente, per loro è una figura carismatica di riferimento cui si sentono legati da confidenza e assoluta fiducia.
I momenti più belli sono le cene, le feste e le gite che vengono organizzate regolarmente, appuntamenti desiderati e progettati da tutti quanti. A Natale c’è la cena tradizionale, organizzata in un luogo sufficientemente ampio, anche in chiesa, spostando i banchi e disponendo i tavoli; a Pasqua c’è la gita al mare o a qualche santuario. Arrivano tutti ben messi, lavati e decorosi, qualcuno persino in camicia e cravatta. Sono momenti di autentica gioia condivisa e ciascuno ha la consapevolezza di fare davvero parte di un gruppo. E Lia, che di natura è allegra e vivace, è fra quelli che meglio animano la compagnia.
Lia sta bene quando i suoi amici stanno bene. Le uniche volte in cui si sente sconfitta sono quelle in cui viene a mancare qualcuno. Quasi si sente in colpa. Quando per esempio Anita fu trovata morta in una cantina, con la sola compagnia di un gatto, fu così colpita che ne scrisse ad un giornale. Anita veniva da Pola, frequentava a volte il vecchio dormitorio di via Ormea, lavava scale e androni, aveva le mani rosse e screpolate, soffriva di cuore e depressione. “La sua felicità era fatta di piccole cose” – racconta Lia. Come cucirsi sulle panchine del Valentino un abito con i ritagli di tulle avuti in regalo da qualche fioraia. Voleva essere elegante quando usciva col fidanzato. Bastava un gesto, una parola amica per farla commuovere.
“La morte di Anita è un peso in più che grava sulle nostre coscienze”, scrive Lia – “e deve portarci ad un impegno che non conosce tregua”.
Una storia dura, quella di Armando, morto di cirrosi epatica. Lo avevano chiuso in manicomio a nove anni, a motivo del suo carattere difficile, ma ne aveva le sue buone ragioni. Rimasto orfano di madre, il padre si era risposato con una vedova che aveva già un figlio e lui era stato messo da parte. Resta in manicomio praticamente tutta la vita, in balia di infermieri che ne abusano sessualmente, come evidentemente avveniva anche ad altri ragazzi, e di un medico, o meglio di un sadico aguzzino, il dottor Giorgio Coda, che a sua discrezione fa torturare i malati con l’elettroshock e con l’elettromassaggio lombo-pubico – un dolore veramente tremendo – prassi anche questa abituale e consolidata nei confronti dei pazienti. Della famiglia di Armando nessuno si era più fatto vivo. Entrata in vigore la legge 180, lo psichiatra Annibale Crosignani, primario alle Molinette e amico di Lia, lo fa dimettere dall’ospedale e gli trovano una sistemazione adeguata. Con la sua prodigiosa capacità di amare proprio i più deboli, farà da madre anche a lui che una madre non l’aveva mai avuta.
Dopo l’uscita appunto della legge Basaglia 180 c’era un grande abbandono di malati psichiatrici, di cui i servizi sociali non riuscivano a farsi carico. Per tutto quel che può se ne fa carico Lia con i suoi amici della Bartolomeo. Si fa voce di chi non ha voce, va dai servizi psichiatrici, chiede, insiste, accompagna il malato e arriva anche a lavarlo e ripulirlo. È la condizione che pongono i medici. Marcia dritta nella sua determinazione, forte dell’appoggio del dottor Crosignani, uno dei più convinti sostenitori della riforma psichiatrica. E stimola il servizio sanitario ad assumersi le proprie responsabilità, come per altro ha sempre fatto con le istituzioni civili e religiose.
Molti dei malati frequentano la Bartolomeo & C., anche perché la prima sede dell’Associazione, diciamo quella storica, si trova in un locale vicino al deposito bagagli proprio nella stazione di Porta Nuova. E ai barboni piace molto ritrovarsi alla stazione. Amano guardare i treni che arrivano e partono, la loro potenza in movimento e tutta quella gente che corre non si sa dove, amano guardare la vita degli altri forse perché alcuni di loro, da reclusi, non hanno mai visto nulla e nessuno. E poi la stazione è di tutti, di chi parte e di chi torna, è accogliente d'inverno nelle sue sale d’attesa tiepide e fresca d’estate sotto le sue volte altissime. E se è di tutti, è anche dei barboni.
La seconda sede della Bartolomeo & C. per diversi anni resta in via Sacchi e, come già in precedenza, ciascun volontario contribuisce di tasca propria a pagare l’affitto. No grazie, niente sovvenzioni da parte della politica o della Chiesa. Ne andrebbe della libertà d’azione e dell’indipendenza dell’Associazione. Così pensa Lia. E poi con l’aiuto anche modesto di tante persone di ogni ceto sociale, di alcuni lasciti testamentari e della Compagnia San Paolo, avviene un importante cambiamento: la Bartolomeo & C. compra la sede definitiva in via Camerana. Questo per l’Associazione significa diventare realmente autonoma.
Ma c’è un progetto ancora più ambizioso e che da tempo Lia sogna di realizzare. Dai suoi contatti con la gestione torinese del volontariato, viene a sapere di una chiesa sconsacrata dei lefebvriani, da tempo in disuso. Chiede di averla in comodato e con la sua concretezza operativa subito dà inizio alla ristrutturazione. Finalmente realizzerà per i suoi barboni il dormitorio a cui pensa da anni. Ma ad un certo punto vengono a mancare i soldi. Lia per sé non ha mai chiesto niente, ma se si tratta dei suoi barboni è capace di superare qualsiasi ostacolo. C’era una trasmissione alla RAI, Domenica In, con la presenza oltre che di Mara Venier anche di Don Mazzi. Lia con Marco Gremo, il co-fondatore della Bartolomeo & C. e Filippo, un amico “barbone”, partono per Roma. Il viaggio, grazie a Don Mazzi, è offerto dalla RAI. Lia non è intimidita dal fatto di apparire in televisione: insieme mostrano le piantine del futuro dormitorio e lanciano un appello. È fatta. Il dormitorio sarà chiamato “Il Bivacco”, nome in cui si coglie l’ironia sorridente tipica di Lia. Certo non è un accampamento o un camping: è un luogo dignitoso in cui gli ospiti ricevono un ricovero notturno, possono cenare e fare la colazione al mattino, possono lavarsi e cambiarsi e anche passare insieme la serata negli ambienti appositamente attrezzati. Il tutto gestito dai volontari. Ma certo la capienza è limitata, così come quella dei dormitori comunali. E invece la povertà è in aumento. Chi sono i nuovi poveri?
“Dagli anni Ottanta il panorama è molto cambiato”, scrive Lia, “I barboni tradizionali, i classici clochard, sono rimasti in pochi. Ci troviamo davanti a persone molto giovani, sempre più sballate, tossici aggressivi, gente priva di valori. […] I vecchi barboni vivono sempre peggio, sono spiazzati dai nuovi poveri che magari rubano loro il sacco a pelo e le scarpe. […] C’è gente davvero difficile, magari con più problematiche, che si buca, batte, beve”.
E poi c’è la questione dei malati sieropositivi e di quelli già approdati all’AIDS e poi le dipendenze oltre che dalla droga e dall'alcol, anche dal gioco e poi coloro che sono stati devastati dall'usura o che sono fuoriusciti dal carcere o dai manicomi ormai chiusi o che si prostituiscono o che hanno alle spalle famiglie disgregate, rovinate. Una umanità emarginata guardata con sospetto, o peggio, con assoluta indifferenza. E infine c’è una povertà sempre più diffusa, quella delle famiglie che perdono il lavoro e sono costrette a mangiare alle mense e a vestirsi nei centri dove distribuiscono i vestiti. Hanno una casa ma non hanno cibo. E Lia c’è, è sempre presente con la concretezza del suo servizio e la sua operosità instancabile, notte e giorno. E accanto a lei ci sono i suoi amici volontari, un gruppo motivato e organizzato che ancora oggi cammina secondo la filosofia appresa da Lia: ascolto, solidarietà, promozione umana.
Notte e giorno, Lia c’è sempre. Di notte, negli ultimi periodi, scende a lavorare col carrellino dell’ossigeno. E di giorno sale sul tram con la bombola dell’ossigeno e il cane.
All’inizio, dell’ossigeno non ne vuole sapere. Non vuole accettare la mascherina, pensa che potrebbe condizionarla negli spostamenti. Ha quaranta di ossigeno, quasi ai limiti della sopravvivenza e allo pneumologo Roberto Prota che l’ha in cura come medico e amico, ripete: “Sto bene, ho da fare, dottore”. Solo quando scopre che l’ossigenoterapia le dà forza, l’aiuta a lavorare con maggiore energia, accetta le cure. Lia guarda “oltre” la sua malattia, ne ha consapevolezza ma vi dà un’importanza relativa. “Non accettava il limite, doveva sempre organizzare, dirigere, salvaguardare qualcuno”, dice il dottor Prota. Ha bisogno lei di aiuto, ma pensa che gli altri abbiano anche più bisogno; trascende se stessa trasformando la propria sofferenza in capacità di comprensione delle sofferenze altrui ed in forza progettuale di riscatto che non ha conosciuto sosta. Una piccola creatura, una donna immensa. È mancata l’11 marzo 2008.
Torino è famosa per avere un’autentica tradizione di santi sociali. È commovente, è straordinario, poter dire che ne abbiamo avuta una fra noi.