Il viaggiatore, che alla metà del XVIII secolo avesse desiderato fermarsi qualche giorno a Torino, si sarebbe potuto recare in piazza Castello dal libraio Gian Domenico Rameletti. Presso il suo negozio avrebbe potuto acquistare un utile supporto alla visita: la Guida de’ forestieri per la real città di Torino.
Questa prima guida turistica della città fu scritta da Tommaso Craveri nel 1753, in occasione dei trecento anni dal miracolo del Corpus Domini (6 giugno 1453). Era una guida necessaria, poiché la fama della capitale del Regno di Sardegna si era estesa così tanto da richiamare “forestieri di varie parti, che tosto giunti ne ricercano la descrizione per poter appagare la propria curiosità”. Il testo illustra le “cose più notabili” tra vie, piazze, palazzi e chiese. Insomma, la guida del Craveri è un’antenata delle attuali Lonely Planet, che si vedono in mano ai turisti che si aggirano per il capoluogo piemontese. Ma il visitatore del XXI secolo è assai più fortunato di quello settecentesco, perché può ammirare molte meraviglie in più. Tra queste figurano senza dubbio i monumenti pubblici, che non esistevano nella Torino barocca.
Se si escludono le colonne e gli archi celebrativi di epoca romana, si può dire che l’usanza di punteggiare le città con sculture dedicate ai personaggi illustri sia tutta ottocentesca. Infatti, fu proprio nel XIX secolo che Torino diventò “la città più monumentata d’Italia” (Vittoria Sincero). Qual è stato il primo monumento pubblico ad apparire sotto il cielo di Torino?
Se si eccettuano le statue posizionate nei Giardini del Palazzo Reale, questo primato è attribuibile alla guglia Beccaria, in piazza Statuto (da non confondersi con il più imponente monumento al traforo del Frejus, sito nella stessa piazza). Eretta durante l’occupazione napoleonica e subito soprannominata piramide dai torinesi, fu inaugurata nel 1808. La guglia è costituita da un obelisco di granito sormontato da un astrolabio sferico in bronzo. L’opera ricorda la misurazione del Gradus Taurinensis, il meridiano che attraversa il Piemonte da Andrade a Mondovì, effettuata tra 1760 e 1774 dal fisico e matematico Giovanni Battista Beccaria. Quest’ultimo scelse come base per i suoi calcoli lo stradone che da Rivoli conduce a Torino e ne fissò gli estremi con due lastre di marmo.
Con il trascorrere del tempo, la vegetazione ricoprì queste pietre, facendo perdere la memoria dei luoghi in cui si svolse l’episodio. Le due lastre furono riportate alla luce grazie all'iniziativa del generale napoleonico Sanson, direttore dei depositi di guerra, e alle indicazioni scritte lasciate dallo stesso Beccaria. Si decise così di segnalare i due punti con due obelischi gemelli: quello di Rivoli fu inaugurato l’8 ottobre, quello di Torino il 7 dicembre. Tuttavia, l’obelisco torinese non si trova nella posizione originaria, in quanto fu spostato per i lavori di rifacimento di piazza Statuto eseguiti intorno al 1871. Stando così i fatti, avrebbe cambiato posizione anche il supposto ingresso agli Inferi, che qualcuno asserisce trovarsi proprio sotto la guglia Beccaria! Attualmente, di infernale c’è solo la posizione della guglia Beccaria, che si innalza in mezzo al traffico cittadino protetto soltanto da qualche siepe.
Il 20 giugno 1837 i torinesi assistettero all'inaugurazione di un secondo monumento pubblico: la colonna della Consolata. Sormontata dalla statua in marmo della Madonna con il Bambino, la colonna venne eretta di fianco dell’omonimo santuario, in seguito al voto fatto il 30 agosto 1835 dalla città afflitta dall'epidemia di colera asiatico. Intanto, dopo la salita al trono del re Carlo Alberto di Savoia-Carignano nel 1831, le piazze di Torino iniziarono pian piano a popolarsi di tanti cittadini di pietra legati alla dinastia sabauda e all’epopea risorgimentale. Il posizionamento dei primissimi cittadini immobili fu voluto dallo stesso sovrano. Esempi della sua politica culturale, le opere avevano anche l’obiettivo di celebrare e di legittimare l’avvento di un regno che era passato in mano al ramo cadetto della casata con la morte senza eredi del re Carlo Felice.
A destra colonna della Consolata posta di fianco all’omonimo santuario e a sinistra il “caval ‘d brons” in piazza San Carlo.
Nel 1838 apparì per primo il duca Emanuele Filiberto in groppa al suo cavallo, al centro di piazza San Carlo Borromeo. Prima di diventare per tutti il caval ‘d bruns (cavallo di bronzo), l’opera dello scultore Carlo Marochetti era chiamata grande monumento. Seguirono nel 1847 i Dioscuri in cima alla cancellata delimitante la Piazzetta Reale e nel 1853 il conte Amedeo VI davanti al Municipio. Il Conte Verde è stato raffigurato da Pelagio Palagi intento a combattere contro un nemico, mentre un altro giace riverso ai suoi piedi. La foga della battaglia è tale da aver indotto i serafici torinesi ad additare il gruppo scultoreo con la frase cui dui c’a rüsu (quei due che litigano). Invece, i cittadini più affezionati alla sobrietà degli spazi pubblici lo hanno identificato come calamaio a causa della sua forma complessa.
A destra, il Conte Verde lotta con il nemico in una statua posta in Piazza Palazzo di Città e a sinistra, i Dioscuri presidiano l’ingresso del Palazzo Reale di Torino.
Contestualmente al calamaio di piazza Palazzo di Città, si lavorava in piazza Savoia (un tempo detta piazza Paesana) alla realizzazione del re dei paracarri, soprannome impietoso appioppato all’austero obelisco Siccardi. Inaugurato nel 1853, fu voluto a furor di popolo per festeggiare le leggi contro i privilegi ecclesiastici elaborate dal ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Siccardi e promulgate nel 1850. L’obelisco reca incisi i nomi degli oltre ottocento Comuni che appoggiarono l’iniziativa per l’esecuzione del monumento promossa dai giornali liberali, primo fra tutti la Gazzetta del Popolo.
Se qualche torinese del futuro andrà mai a scavare sotto questo monumento, rinverrà un piccolo tesoro. Infatti, il 17 giugno 1852, in occasione della collocazione della prima pietra, fu posizionata nello scavo delle fondamenta anche una scatola di latta. Al suo interno, il torinese del 3020 potrà trovare una copia delle leggi, i numeri 141 e 142/1850 della Gazzetta del Popolo con l’iniziativa della raccolta fondi per la realizzazione dell’opera, il documento con l’elenco dei Comuni sottoscrittori, polvere da sparo e monete, sacchetti con riso, cereali vari e grissini, nonché una bella bottiglia di vino.
Torino ha avuto anche un monumento che è stato censurato per un piccolo periodo. Si tratta dell’Alfiere dell’Esercito Sardo, sito in piazza Castello. Questo fantasma di marmo si staglia con fierezza dando le spalle a Palazzo Madama, tenendo un grande tricolore in una mano e la spada nell'altra. L’opera venne realizzata dal celebre Vincenzo Vela su richiesta dei patrioti milanesi. Correva l’anno 1857 e Milano si trovava ancora sotto il dominio austriaco. Il dono di questa scultura alla città di Torino fu insieme un omaggio all'esercito sardo, simbolo della speranza di liberazione, e una coraggiosa sfida nei confronti dell’occupante, al quale “bastava un’apparenza di sospetto per venire a sevizie”. Il monumento fu inaugurato il 10 aprile 1859, poco prima dello scoppio della Seconda guerra d’indipendenza. Subito gli austriaci iniziarono a dichiarare provocatoria quella statua, affermando che presto l’avrebbero distrutta. “Per prudenza politica”, si decise allora di occultare l’iscrizione “I milanesi all’esercito sardo il dì 15 gennaio 1857” con una lastra di marmo nero, che fu scoperta soltanto l’8 giugno 1859, dopo la vittoriosa battaglia di Magenta. Nessun austriaco riuscì mai a scalfire questa statua.
Non fu censurato, ma visse una vera e propria odissea, il monumento al re della Restaurazione, Vittorio Emanuele I, che si trova di fronte alla chiesa della Gran Madre di Dio. Anch'esso voluto dal re Carlo Alberto, fu realizzato da Giuseppe Gaggini per essere posizionato nella piazza antistante al Palazzo Ducale di Genova. La scultura giunse nel capoluogo ligure nel 1849, ma il momento non era dei più adatti alla collocazione di un’opera celebrante un monarca assoluto. La città era attraversata dai moti insurrezionali e così la scultura finì in un magazzino, dove rimase per vent'anni. Nel 1869, il nipote dello scultore scriveva al sindaco di Torino per chiedere che fine avesse fatto quella statua a cui il nonno si era dedicato con tanto impegno e che si era volatilizzata. La proposta era quella di ritrovarla per esibirla a Torino, patria adottiva del genovese Gaggini. Così avvenne: il 10 settembre 1869 Vittorio Emanuele I rientrava a Torino, non a cavallo come avvenne il 14 maggio 1804 dopo il Congresso di Vienna, ma su un treno proveniente da Genova. Re Vittorio Emanuele II donò il monumento alla città, che lo posizionò nel cortile di Palazzo Carignano. Lì il povero Vittorio Emanuele I fu parcheggiato per altri sedici anni, prima di essere collocato dove lo vediamo ora. Era il 1885 e il monumento trovava finalmente pace, ma in sordina. Non si tenne alcuna cerimonia d’inaugurazione per lui perché, a causa delle grandi spese sostenute per l’Esposizione Generale Italiana del 1884, il Comune non aveva più fondi a disposizione per celebrare un’opera ritenuta ormai anacronistica.
Nel 1873 grandi festeggiamenti si tennero invece per l’inaugurazione del monumento dedicato al conte Camillo Benso di Cavour. Il gruppo scultoreo fu scoperto alle 14 dell’8 novembre 1873, al centro di piazza Carlo Emanuele II. Sotto una pioggia battente, i presenti si trovarono di fronte un Cavour irriconoscibile, avvolto in una toga simile ad un sudario funebre, privo dei consueti occhialini e redingote. Avvinghiata a lui, una procace figura femminile con il seno al vento: l’allegoria dell’Italia, “una donna troppo discinta, troppo matrona, in atto non troppo dignitoso, che inginocchiata ai piedi del grand'uomo, gli offre la corona civica”. Andò anche peggio alle sculture intorno al basamento. Furono considerate di difficile comprensione, tanto che lo scultore Giovanni Duprè fu indotto a scrivere una lettera aperta per spiegare meglio il concetto alla base dell’opera. Opera che, beninteso, ebbe da subito il suo soprannome: fermacarte.
L’inaugurazione del monumento al Tessitore andò ad adombrare quella del monumento ad un’altra colonna del Risorgimento, Massimo D’Azeglio. Sempre sotto la pioggia, la cerimonia si svolse a mezzogiorno del 9 novembre 1873. Posizionato esattamente davanti alla stazione di Porta Nuova, in piazza Carlo Felice, il conte Max fu presto definito ferroviere, per lo sguardo attento con cui osservava i ritardatari affrettarsi ai binari per non perdere il treno. Inoltre, quello di Massimo D’Azeglio è stato uno dei monumenti sfrattati dalla posizione originaria: nel 1935 fu spostato nei giardini della piazza e l’anno successivo fu trasferito al parco del Valentino. Stessa sorte capitò ai monumenti di Quintino Sella e Galileo Ferraris, per citare solo i più noti. Il primo, opera di Cesare Reduzzi inaugurata nel 1894, si trovava inizialmente al centro del cortile del castello del Valentino. Prima di ospitare la facoltà di architettura, questa residenza sabauda fu sede della Scuola di Applicazione per Ingegneri, che ebbe tra i suoi fondatori e docenti proprio Quintino Sella. Per volontà del podestà di Torino nel 1932 la scultura, "male addicendosi alla grandiosità delle costruzioni del Castello del Valentino", fu rimossa dal cortile e posizionata a poca distanza nell’aiuola antistante l’ingresso.
Un viaggio più lungo toccò a Galileo Ferraris, lo scopritore del campo magnetico rotante. Il suo monumento, eseguito da Luigi Contratti nel 1903, fu trasferito nel 1928 dalla centralissima piazza Castello ad un’aiuola del corso che porta il nome dello scienziato, alla convergenza con i corsi Montevecchio e Trieste. La causa dell’esilio? La scultura femminile raffigurante l’allegoria della scienza elettrotecnica, descritta da Enrico Thovez come “semplice modella in posa, troppo lontana dai bisogni espressivi di una figura allegorica”. Ma non fu tanto la povertà espressiva della statua il motivo dell’allontanamento da piazza Castello, quanto le sue nudità eccessivamente conturbanti. I benpensanti troppo turbati indussero l’autorità prefettizia a far sloggiare il monumento hot per spedirlo in un luogo più appartato. Oggi al posto occupato da Galileo Ferraris vediamo il monumento al duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, detto il cappotto per il pastrano indossato dal Duca Invitto.
I monumenti pubblici sono parte integrante della nostra quotidianità. Li troviamo sempre al loro posto, attenti e discreti, anno dopo anno, secolo dopo secolo. Passiamo più volte al giorno accanto ad essi e quasi non li vediamo, impegnati nei nostri pensieri e con il naso immerso nello schermo dello smartphone. E pensare che ciascuno di loro custodisce una storia complessa e tanti interessanti aneddoti. Forse Tommaso Craveri li avrebbe inseriti volentieri nella sua guida del 1753, se avesse avuto modo di ammirarli e di conoscerli.