C'era una volta il bosco

Viaggio nella natura selvaggia piemontese (vera e immaginata)

Umberto Ledda
Umberto Ledda

È nato nel 1982 in provincia di Cuneo, ma vive e lavora a Torino. Ha una laurea in lettere e un master in tecniche della narrazione. A lungo ha lavorato nell’editoria, come redattore e editor, ma a saggi e romanzi preferisce le storie dei funghi, dei boschi e delle stagioni, e le fiabe per spaventare i bambini cattivi.

  
Voleva dirle, anche: «Ma se ci sei tu, Verbena, qui c’è il meglio della città e il meglio della foresta finalmente ricongiunti», ma gli sembrava un po’ sfacciato e non lo disse. Verbena voleva dirgli: «Il tuo sorriso, Mirtillo, mi fa pensare che dove sei tu la foresta ha perduto la sua selvatichezza e la città non è più arida e spietata».
Italo Calvino, “La foresta-radice-labirinto”

Più di cinquant’anni fa, nei boschi di Garessio, nel cuneese, un giovane artista serrava un tronco altrettanto giovane nella stretta di una mano metallica: negli anni successivi, mentre l’artista diventava meno giovane e più famoso, l’albero ha proseguito la sua crescita senza morirne, ma deformandosi indissolubilmente intorno al metallo. Verosimilmente crescerà ancora (o cresceranno, perché a quel primo albero se ne sono aggiunti altri), inghiottendo la mano metallica, finché del passaggio dell’artista non sarà rimasto granché: una cicatrice, una deformità che lo renderà per sempre diverso dagli alberi che lo circondano. È una storia ambigua, crudele e simbolica: perché il rapporto che abbiamo con i boschi, e con la natura in generale, è più stretto di quanto crediamo. E, spesso, anche di quanto desideriamo.

Una terra di boschi

Il Piemonte è una striscia di pianura stretta tra colline e montagne: un anfiteatro di boschi che ha dato forma al carattere di chi vi abitava. E se da una parte, nel Piemonte montano e rurale, i castagneti hanno sfamato le valli per secoli, curati come membri della famiglia, dall’altra lo stesso capoluogo si è ritagliato, caso forse unico tra le grandi città europee, una via di fuga boschiva: la collina. Aperta su tre lati alla civiltà, Torino si appoggia a est sulle selve che cent’anni fa hanno ispirato a Salgari le giungle tropicali: sono boschi inestricabili, in cui agli alberi tipici delle foreste che un tempo ricoprivano l’intera Pianura Padana si affiancano le palme scappate dai giardini e subito rinselvatichite. Bastano pochi passi dalle piazze del centro, superando il cuscinetto verde delle ville, per abbandonare il mondo civile.

Parco naturale del Gran Bosco di Salbertrand (CC BY-SA 4.0 Milesi Federico).
Parco naturale del Gran Bosco di Salbertrand (CC BY-SA 4.0 Milesi Federico).

Ci sono foreste sterminate e antiche come il Gran Bosco di Salbertrand, acquattato in una conca ombrosa della Val Susa, al riparo dal caldo e dal vento che batte i versanti: sono i boschi freddi e austeri delle leggende e delle fiabe, ammantati di nebbie che li avvolgono risparmiando le zone circostanti. Ci sono boschi nuovi, nati pochi decenni fa dopo la grande fuga che ha spopolato le valli a favore del benessere delle pianure: sono ariosi e aperti, dominati dalla corteccia bianca delle betulle che per prime hanno ricolonizzato i vecchi pascoli. E ci sono boschi unici, nati dall’incontro del clima montano con quello marittimo: boschi mediterranei sotto le pareti delle alpi.

È una ricchezza in termini di biodiversità, certo. Ed è una ricchezza turistica. Ma non solo. È un patrimonio dell’immaginario, perché i boschi sono al centro di una delle poche opposizioni simboliche che si sono mantenute intatte nella nostra mente dai tempi premoderni, e che la modernità non ha dissipato.

Cosa ci aspettiamo da un bosco

Un bosco è natura. Che detto così sembra banale, ma lo è meno di quanto non sembri: perché natura è da sempre il contrario di civiltà, nel bene e nel male. Il bosco è per l’uomo europeo una sorta di magazzino simbolico dove si ammassa tutto ciò che non è civile. I latini temevano e diffidavano della natura, faticosamente messa in riga nella loro ordinata e razionale civilizzazione, al punto da sacralizzare le tre piante che trasformano le selve in campi e frutteti: la vite che dà il vino, l’ulivo che dà l’olio, il grano che dà il pane. Tre simboli che finirono in eredità al cattolicesimo e che ancora oggi sono un cardine dei sacramenti, a celebrare la vittoria della cultura sulla natura, dell’ordine civile sul caos selvatico. Nelle fiabe il bosco è il luogo degli incontri soprannaturali, dei lupi e delle masche e del diavolo, dei fantasmi. È in un bosco che il Dante della Commedia finisce quando perde la strada esistenziale, e sempre in un bosco andrà Thoreau per purificarsi da una modernità soffocante: primi segni di un cambiamento di rotta che dalla demonizzazione ha condotto alla moderna idealizzazione della natura.

Parco Nazionale della Val Grande (© Archivio Parco Nazionale Val Grande - Foto di Giancarlo Parazzoli).
Parco Nazionale della Val Grande (© Archivio Parco Nazionale Val Grande - Foto di Giancarlo Parazzoli).

Da una parte, le foreste sono una terra straniera, incognita, in cui si smarrisce la strada e ci si perde nel territorio barbarico dei lupi e delle ombre, dall’altra il sogno di purezza della wilderness, il luogo dell’introspezione in cui perdersi per poi ritrovarsi, dove cercare un’armonia naturale perduta nel logorio della vita moderna. Si pensi, tornando in Piemonte, al parco nazionale della Val Grande, nel Verbano, e alla mitologia che lo circonda: un luogo, per usare gli stessi termini della comunicazione ufficiale del parco, “selvaggio”, “isolato”, “sublime”, non “addomesticato”, fatto di silenzi e di notti più buie che altrove. La narrazione è quella del ritorno alla vita semplice, di cammini e di sentieri, di fughe dalla città e dai suoi rumori artificiali in cerca di una natura mai toccata dalle zampe umane. Peccato che tutto questo non esista, almeno non in questi termini.

Natura antropica

Per trovare la wilderness vera bisogna viaggiare parecchio, fino in Polonia: la foresta di Białowieża è l’ultimo lembo di foresta vergine rimasto in Europa, poche centinaia di chilometri quadrati dei boschi che prima dell’avvento dell’agricoltura coprivano l’intero continente. Tutto quello che rimane altrove è il risultato dell’interazione umana: natura di seconda o terza mano, che non avrebbe l’aspetto che ha senza il nostro passaggio. Un po’ come succedeva con l’albero stretto in una mano di ferro, che un giorno la ingloberà nel legno ma da cui resterà per sempre forgiato. La Val Grande appare un selvaggio posto da lupi non perché vergine, ma perché ormai abbandonata: e ancora è segnata dalle tracce dei terrazzamenti, delle strade, degli alpeggi. Le incisioni rupestri parlano di una frequentazione millenaria: ma perlopiù invisibile, e per questo semplice da ignorare.

È così ovunque. È facile, guardando un castagneto secolare, vedere la solenne magnificenza della natura, percepirne la pace e la saggezza: ma si tratta sostanzialmente di antichi frutteti di una pianta che in origine non era presente in Piemonte (da dove venga, di preciso, è ancora incerto) e che vi fu introdotta probabilmente in epoca classica. Se un castagno è natura, un castagneto è in gran parte cultura.

Bosco dell'Alevè, pino cembro dall'età stimata in 500 anni circa, riconosciuto come
Bosco dell'Alevè, pino cembro dall'età stimata in 500 anni circa, riconosciuto come "albero monumentale" (in foto ne viene evidenziata l'altezza rispetto a una persona, © Parco del Monviso - Foto di Claudia Metti).

In altri casi la questione è più sfumata, ma la sostanza non cambia. Si prenda il bosco dell’Alevè della val Varaita, una delle eccellenze boschive piemontesi: la più grande estensione di pino cembro dell’arco alpino. È un bosco antichissimo, risalente alle glaciazioni del Quaternario: era già noto e celebre in epoca romana; se ne fa accenno anche nell’Eneide. Apparentemente è natura incontaminata, e di certo un bosco del genere, arroccato in quota su versanti dritti come la mano, ha subito poco l’impatto della modernità. Ma non si tratta di una cembreta pura: fin oltre i duemila metri è mista al larice, e il larice vi è stato introdotto dall’uomo che lo ha piantato per ottenerne il legname. E per il legname, nel Settecento, l’uomo ha disboscato gran parte dell’Alevè: serviva per costruire fortificazioni nell’ennesimo conflitto con i francesi. Paradossalmente, se la foresta si è salvata, è ancora una volta a causa dell’uomo: la presenza di un bosco sano e forte, su pendii così ripidi, costituisce un eccellente paravalanghe naturale per proteggere gli insediamenti dell’alta valle. E così, ancora una volta, non solo l’aspetto di un bosco, ma anche la sua stessa esistenza, il fatto che sia sopravvissuto in un luogo invece che altrove, è questione culturale e non naturale.

Perfino la solenne antichità di un bosco come la Bandita di Palanfré, in val Vermenagna, è frutto del calcolo umano. L’opera della natura, qui, è violenta ed evidente: nel modellamento dei tronchi, piegati dal vento e dalla neve, nella selezione spietata degli alberi più giovani e fragili a favore di esemplari più solidi e vecchi ormai trecent’anni, nella peculiare mineralità degli odori. L’odore di una faggeta è inconfondibile: la chioma dei faggi è fitta, lascia passare poca acqua e poca luce, generando una lettiera spessa e morbida in cui la decomposizione procede più lentamente che altrove. È l’odore di un tempo diverso dal nostro, che insieme all’assenza di sottobosco contribuisce a suscitare la meraviglia un po’ inquietante di un mondo alieno, separato dalla storia e dalla vita quotidiana: eppure, anche in questo caso il bosco è un paravalanghe naturale, bandito al taglio nel 1741 con i Bandi Campestri. È natura selvaggia, certo: e sicuramente è la più selvaggia delle faggete piemontesi, generalmente governate a ceduo e quindi sistematicamente gestite dalla mano umana. Ma è comunque un ibrido, determinato e definito dall’uomo, una coesistenza di compromesso.

Bandita di Palanfrè.

Uomini e alberi

Il Piemonte ospita la metà dei boschi planiziali sopravvissuti all’agricoltura padana: e si tratta in ogni caso soltanto del dieci per cento dei suoi boschi. La pianura, che anticamente era un’unica, vasta foresta di querce, carpini e noccioli (e tigli, frassini, noci, aceri, e nelle zone umide e paludose salici, pioppi e ontani) è stata sistematicamente disboscata e bonificata fin dall’epoca della conquista romana. Di quei boschi rimangono poche isole, rettangoli arborei tra i campi, diventate prima riserve di caccia e poi parchi, come la Mandria e Stupinigi: trattati alla stregua di giardini molto grandi, sono boschi quasi artificiali, stipati di specie aliene dalla provenienza più disparata.

Sopravvissuto all’epoca classica perché si riteneva protetto dal dio Apollo, quello che oggi chiamiamo Bosco delle Sorti della Partecipanza di Trino Vercellese è andato invece incontro a un destino diverso, che lo rende più significativo: vi è avvenuto quanto accade con qualsiasi bosco ceduo, ma secondo dinamiche più lente e maggiormente controllate, che lo hanno preservato per secoli al netto della sua antropizzazione. Dal Trecento, il bosco è stato diviso in piccoli appezzamenti – le sorti, appunto –, a loro volta parcellizzati, in modo che il taglio annuale interessasse solo una minima parte della sorte stessa. La gestione non si fermava al taglio: il sottobosco è stato curato, l’erba tagliata, sono stati rimossi i ceppi degli alberi abbattuti. Considerato un relitto di tempi preistorici, il Bosco delle Sorti della Partecipanza è invece la testimonianza della convivenza lunga e raramente idilliaca tra gli esseri umani e l’ambiente da cui traevano e a cui contendevano le risorse. Per quanto sembrino vergini e selvaggi, questo è il destino dei boschi da quando l’uomo è diventato agricoltore: disboscamento, pulitura, abbandono, rimboschimento. E via così, in costante trasformazione. Se cerchiamo in loro un relitto di purezza, scampato alla modernità e alla bruttura degli umani, stiamo cercando qualcosa che non esiste.

Bosco delle Sorti della Partecipanza, con dettaglio sul narciso dei poeti (© Archivio delle Aree protette del Po piemontese - Foto di Paola Palazzolo).

Alberi (e quel che rimane degli uomini)

In Val Grande, le foreste si stanno riappropriando di quello che era loro. Gli alpeggi, le strade, i muretti a secco e i terrazzamenti lentamente vengono inghiottiti dalla vegetazione: ci vuole tempo, come con la mano metallica stretta intorno al tronco, ma a dargliene abbastanza le impronte del nostro passaggio saranno cancellate. Tutto sarà diverso da prima: perché l’equilibrio, una volta turbato, si riassesta adeguandosi a un contesto che nel frattempo è cambiato. Il vuoto di una zona disboscata e poi abbandonata sarà colmato dapprima dalle piante pioniere, capaci di adattarsi rapidamente a qualsiasi situazione ambientale, poi da specie più schizzinose, che pretendono condizioni precise. Lentamente, al ritmo flemmatico di queste successioni, si tornerà a un bosco nuovo. Non è affatto detto che i nuovi coloni siano le stesse specie presenti prima: le variabili in gioco sono troppe e non c’è nulla di statico.

Parco Naturale di Stupinigi (CC BY-SA 2.0 Lorenzo Andrioli)
Parco Naturale di Stupinigi (CC BY-SA 2.0 Lorenzo Andrioli)

È natura anche questa, ed è uno spettacolo tanto più grandioso quanto impercettibile sulla scala temporale della vita quotidiana. Natura, ma senza la purezza di cui il mito contemporaneo del ritorno alle origini vorrebbe ammantarla: perché questa purezza non esiste più, ed è inutile fingere che l’uomo non sia mai esistito. L’unica wilderness possibile oggi in Occidente è quella dei luoghi abbandonati, dove la natura sta lentamente riacquistando spazio, trovando un nuovo equilibrio con quanto è stato lasciato dall’uomo. È una wilderness residuale, di seconda generazione se non proprio di seconda mano: anche i boschi sono civilizzati, perché la civiltà degli umani li ha abitati.

Tra reale e immaginario

Eppure. Il bosco è un simbolo culturale potente e tenace: lo è da quando le foreste erano l’habitat umano, ed è rimasto l’ambientazione in cui vengono raccontati i fantasmi collettivi. E così come l’uomo contemporaneo e urbano preferisce immaginare una natura immacolata in cui lavare il proprio spirito fino a riscoprirsi innocente, senza badare troppo alla realtà, anche i suoi sogni e i suoi incubi non si fanno spaventare: nascosti nelle pieghe della mente, non hanno bisogno del bosco reale ma di quello immaginario, che è vergine e selvaggio. Nel bene e nel male.

A volte il lupo, tornato dall’estinzione, ulula da lontano: è l’assedio dell’ignoto, il terrore di tutto ciò che vive oltre i confini del nostro giardino. Camminando tra gli alberi al crepuscolo dopo il lavoro o un’escursione, tra le ombre si colgono movimenti che non sono quelli di un animale né di qualcosa di vivo: si ha la sensazione di non essere soli, e si accelera il passo senza darlo a vedere. In radure che non sempre si raggiungono percorrendo strade o sentieri, sembra a volte di intravedere le masche: si dice che i loro sabba siano selvaggi, primordiali, insopportabili a chiunque tema di perdere il controllo sulle proprie pulsioni. E si racconta che i primi di novembre i morti si radunino per camminare in processione, una fiammella accesa sul mignolo per trovare la strada, fino alle montagne, oltre la linea della vegetazione: chi li guarda, pare, percepisce le proprie mancanze e la propria finitezza.

Nelle valli, alcuni anziani sostengono che l’uomo selvatico frequenti ancora le foreste che gli hanno sempre fatto da casa, e che l’uomo ha abbandonato: è saggio e violento insieme, dicono, perché conosce cose che la civiltà ha dimenticato. Continuerà a insegnare all’uomo l’alchimia dell’arte casearia: il segreto per rendere immortale la materia deperibile, per non soffrire più la fame. Ma come sempre è accaduto, aggiungono, l’uomo civile si prenderà gioco di lui dopo avergli rubato i segreti. E l’uomo selvatico scomparirà, umiliato, per sempre.

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Bibliografia

  • Camanni S., Vacchiano M., Vaschetto P., Boetti G., Coata C., Boschi del Piemonte, Scarmagno, Priuli e Verlucca editori, 2006.

  • Camerano P., Giannetti F, Terzuolo P., Guiot E., La Carta Forestale del Piemonte – Aggiornamento 2016 IPLA S.p.A., Torino, Regione Piemonte, 2017.

  • Camerano P., Grieco C., Terzuolo P., I boschi planiziali, Torino, Regione Piemonte, Blu Edizioni, 2010.

  • Gottero F., Ebone A.,Terzuolo P., Camerano P., I boschi del Piemonte - conoscenze e indirizzi gestionali, Torino, Regione Piemonte, Blu Edizioni, 2007.

  • Küster H., Storia dei boschi. Dalle origini a oggi, traduzione di Carola Lodari, Torino, Bollati Boringhieri, 2019.

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