Quando si parla di nuove tecnologie, delle loro applicazioni pratiche e degli effetti che possono produrre sulla società è facile, per dirla come Umberto Eco, ricadere nella dicotomia che vede contrapposti i cosiddetti “apocalittici” e gli “integrati” cioè – in estrema sintesi – coloro che le rifiutano e ne evidenziano esclusivamente i rischi e chi, forse con esagerato ottimismo, le accetta o addirittura cavalca in modo acritico.
Tra i due estremi, Marco Mazzaglia è portatore di una visione terza, forse per questo più inclusiva e chiarificatrice. Torinese, 46 anni, Mazzaglia è un informatico, docente al Politecnico di Torino del corso di Game Design e Gamification nell’ambito del corso di laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione.
Al di là del ruolo accademico, Marco Mazzaglia è uno dei massimi esperti in Italia per quanto riguarda i videogiochi, la cultura videoludica e i meccanismi di gamification, cioè le tecniche di gioco che, sempre più spesso, vengono utilizzate in vari ambiti da aziende e istituzioni. Per l’agenzia torinese Synesthesia è Technical Director dell’Academy e Video Game Evangelist, una posizione creata su misura per definire le sue competenze di raccordo tra l’industria dei videogame, le aziende e il grande pubblico.
Ma qual è stato il percorso che ha portato Mazzaglia a ritagliarsi un ruolo così particolare?
Tutto è iniziato quando avevo poco meno di quattro anni. Nel paese di origine della mia famiglia, Limina, in Sicilia, c’era un bar con alcuni videogiochi cabinati. Durante le vacanze mio nonno mi portava a giocare a Ramtek M79 Ambush, un gioco del 1977 dove dovevo sparare con un bazooka, distruggere i carri armati evitando i barellieri coi feriti. A otto anni ho scritto con mio papà i primi giochi in basic su un Texas Instruments T994A, poi mio padre, quasi a tradimento, lo vendette per un Commodore 64 che era più diffuso. Da lì è iniziata la mia passione.
Invece, come a volte accade, è stato un piccolo miracolo a cambiare la rotta della sua carriera. Nel 2008 Mazzaglia manda un curriculum a Milestone, una delle realtà italiane più importanti nel settore del gaming. L’azienda rimane colpita, oltre che dalle sue competenze, dall’enorme passione per il gioco. Non a caso, proprio in quegli anni gli viene cucito addosso per la prima volta il ruolo di “Video Game Evangelist”.
In azienda mi occupavo principalmente delle infrastrutture dei sistemi. Fuori da lì, però, tenevo conferenze, workshop e convegni sui videogiochi e l’industria del gaming. Così un giorno il mio capo mi chiamò nel suo ufficio, mi mise davanti agli occhi un pacco di biglietti da visita nuovi e disse che da quel momento, tutte le volte che mi sarei interfacciato col pubblico sarei stato un Video Game Evangelist. In pratica il mio ruolo, che mantengo ancora oggi in Synesthesia, consiste nel raccontare processi ed opportunità del gaming e della sua industria ad aziende, studenti, istituzioni.
Sì, perché il gioco è sempre più una cosa seria, saldamente inserita nei processi di molte aziende, anche al di fuori del mondo videoludico. Il professor Mazzaglia ci spiega che il gioco è uno strumento potentemente immersivo, che permette di vivere esperienze interattive non passive, ben più coinvolgenti di un video o di un altro tipo di messaggio. Con un gioco, ad esempio, si possono insegnare le procedure di uscita da un edificio in caso di incendio. Attraverso giochi progettati ad hoc si possono toccare anche temi sociali, come il disagio mentale o l’inclusione: esistono giochi che permettono di sperimentare in modo molto realistico, in base agli studi scientifici più recenti, quale sia l’esperienza mentale di una persona affetta da schizofrenia. I processi di gamification che riproducono meccaniche di gioco nella vita reale sono ormai molto diffusi a livello aziendale, dalla gestione del personale alle procedure, fino al marketing.
Ciononostante, i videogiochi sono ancora oggetti misteriosi, soprattutto per una parte del mondo degli adulti, guardati con sospetto e considerati quasi esclusivamente come causa di problemi educativi o addirittura per spiegare eventi criminosi, se commessi da giovanissimi.
Non dobbiamo dimenticarci che i videogame sono strumenti. Vanno usati con un minimo di consapevolezza, da parte dei ragazzi e delle famiglie. Molti dei problemi nascono dal fatto che oggi, a differenza del passato, i genitori non conoscono affatto i giochi con cui si cimentano i loro figli, i meccanismi, le dinamiche interne. Quando ho iniziato io era esattamente l’opposto. I genitori erano l’oracolo della conoscenza tecnologica e trasferivano queste conoscenze ai figli nei modi e tempi opportuni. Oggi i ragazzi sanno usare molto bene gli strumenti tecnologici, ma sono totalmente impreparati alle dinamiche dei giochi e ai loro effetti. A casa, purtroppo, trovano genitori che non ne sanno nulla e il più delle volte non sono neanche interessati a conoscere questo mondo.
Questo gap di conoscenze si fa particolarmente evidente oggi: i ragazzi e anche i bambini sono sempre più immersi nella tecnologia e integrati in essa come e più di molti adulti. Questo non fa che aumentare lo scollamento generazionale lasciando i giovani senza punti di riferimento, come spiega ancora Marco Mazzaglia:
Se è vero che i ragazzi, parlando in linea generale, conoscono bene gli utilizzi pratici delle tecnologie, non sempre conoscono altrettanto bene la filosofia che sta alla base di un fenomeno tecnologico, il dietro le quinte, l’uso consapevole di un mezzo. Non lo conoscono perché nessuno glielo insegna. L’assenza di una figura che faccia da mediatrice tra i bambini e i ragazzi e la tecnologia è una delle cause alla base dell’utilizzo sbagliato che a volte si fa di questi mezzi, troppo spesso utilizzati dai genitori come “parcheggio”, tate digitali a cui affidare i figli. All’estremo opposto c’è chi opta per il divieto totale di accesso dei bambini e ragazzi verso la tecnologia, cosa che crea un alone di mistero che la rende appetibile come un frutto proibito ma allo stesso tempo non insegna a maneggiarla.
Secondo il “Video Game Evangelist”, sarebbe utile approcciarsi diversamente alle tecnologie e ai videogiochi in modo che i più giovani le possano scoprire gradualmente, attraverso un viaggio di conoscenza in compagnia degli adulti, meglio ancora se si tratta dei genitori. Servirebbe un percorso immersivo alla scoperta delle potenzialità che hanno da offrirci, che i figli dovrebbero fare mano nella mano con i genitori, almeno fino a quattordici, quindici anni di età. È necessario creare un clima di fiducia, spiegare ai bambini e ai ragazzi come si possono utilizzare gli strumenti tecnologici in modo equilibrato, sfruttandone i benefici senza venirne soggiogati, ma soprattutto utilizzarli insieme.
Nella stessa ottica genitori e figli dovrebbero navigare insieme su internet; un utilizzo autonomo dei mezzi dovrebbe poter avvenire solo in una seconda fase, oppure utilizzando strumenti come il parental control. Con un percorso di questo tipo i ragazzi imparerebbero a considerare quelli tecnologici come semplici mezzi, ricchi di opportunità ma da utilizzare con equilibrio. Questo modello dove i genitori hanno un ruolo essenziale nell’educazione tecnologica dei figli si aggancia a un riferimento autobiografico, perché è stato il padre di Marco, ingegnere elettronico, ad aprirgli le porte della tecnologia. Per questo abbiamo chiesto a Mazzaglia di ritornare a quegli anni pionieristici.
Mio papà è stato per me una sorta di oracolo. Fin da quando ero piccolo lo ricordo acquistare ogni tipo di strumento elettronico con i quali mi permetteva di “sporcarmi le mani” provando e sbagliando. Ma tutto questo avveniva in un mondo protetto, dove lui era quello che governava e dispensava nozioni in uno spazio, anche temporale, che non poteva essere superato. Ricordo ancora il fermo divieto di utilizzare il computer per più di due ore al giorno, se no si sarebbe irrimediabilmente rotto. La stessa fermezza la oppose all’acquisto dell’adattatore telematico (l’antesignano dei modem che, già all’epoca, permetteva di comunicare con altri computer e utenti, N.d.R.), da un lato perché temeva bollette telefoniche salatissime, dall’altro perché aveva capito che il mondo “là fuori” per me era ancora troppo pericoloso.
L’appuntamento con Internet, però, era solamente rimandato, perché proprio Mazzaglia, alcuni anni dopo (1996) sarebbe stato tra i fondatori de La Bussola, cooperativa nata in ambienti cattolici torinesi, tra i primi provider, cioè fornitori di connessione ad Internet, in Italia. Come ci spiega Mazzaglia, la disponibilità della connessione a internet è stata fondamentale nell’evoluzione dei videogiochi:
Internet è stata una specie di rivoluzione copernicana per il gaming, perché ha permesso l’evoluzione del gioco online, a partire dal capostipite del genere, Modem Wars di Dan Bunten (1988). Il miglioramento delle reti e il diffondersi delle connessioni hanno fatto il resto, portando ai fenomeni dei nostri giorni, come Fortnite o Apex Legends. Anche Twitch (la piattaforma video dedicata allo streaming dei videogiocatori) non esisterebbe senza internet, ma la dinamica che la sostiene, cioè fare il tifo per il giocatore più bravo, è la stessa che animava le sale giochi degli anni Ottanta.
Dal 1996 ai giorni nostri il salto tecnologico è stato impressionante, tanto che nel 2020 un’importante istituzione universitaria come il Politecnico di Torino ha attivato il corso di Game Design e Gamification all’interno del corso di laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi della Comunicazione. Il docente del corso, che ha una seconda edizione in partenza questa primavera, è proprio Marco Mazzaglia e ci racconta così quest’esperienza:
È stato stimolante e allo stesso tempo mi sono sentito messo alla prova, anche perché l’inizio del corso, a marzo 2020, ha coinciso con l’esplosione della pandemia e di conseguenza abbiamo dovuto erogare tutto in didattica a distanza. Il primo anno il corso ha avuto 57 studenti, mentre sono già 107 gli iscritti alla seconda edizione. La didattica a distanza cambia inevitabilmente le modalità di erogazione e fruizione, quindi bisogna essere molto attenti ad adattarsi di conseguenza. I ragazzi però erano tutti molto soddisfatti ed è stato bello vedere tante persone interessate a imparare come si fa un videogame. L’idea alla base del corso, infatti, è proprio quella: dare agli studenti gli strumenti per imparare a progettare un videogioco lungo tutto il percorso creativo e renderli in grado di produrre tre elementi fondamentali per poter proporre la propria idea sul mercato: un documento di presentazione completo, un trailer e un prototipo del gioco.
Tenere il corso universitario ha permesso al docente di confrontarsi con la DaD, la didattica a distanza, che in tempo di pandemia è diventato il principale strumento a disposizione di studenti e docenti per proseguire negli studi. La DaD è da più parti criticata perché restituisce un’esperienza molto diversa dalle lezioni tradizionali in classe. Anche in questo caso forse si deve passare attraverso un utilizzo più consapevole e soddisfacente dei mezzi a disposizione:
Innanzitutto c’è da chiarire un equivoco di fondo. La didattica a distanza non può essere semplicemente la trasposizione in videoconferenza di una classica lezione, scolastica o universitaria. Un simile approccio è destinato a fallire, ed è già successo in passato, penso ad esempio al tentativo di trasferire sul web i quotidiani di carta senza tener conto delle specificità del mezzo. Gli studenti devono poter avere un ruolo attivo, e possono produrre qualcosa sfruttando le risorse messe a disposizione dal docente, che deve diventare una sorta di mentore che prende per mano gli studenti e li spinge quasi fisicamente a muoversi all’interno dell’ambiente che ha creato per loro.
Da qui in poi c’è ampio spazio di crescita partendo da una domanda: quanto conosciamo davvero le opportunità che ci offre la tecnologia? È una domanda che rivolgo non solo a chi è digiuno di tecnologia, ma anche agli addetti ai lavori. Spesso tecnologie esistenti possono essere utilizzate in modo creativo per finalità diverse da quelle per cui sono state progettate. Ad esempio a volte per le mie lezioni a distanza utilizzo Discord, una piattaforma nata per il gaming online. Oppure c’è chi, come Enea Montoli, ha costruito giochi in grado di facilitare l’apprendimento attraverso la struttura e i meccanismi dei giochi di ruolo.
La didattica a distanza ha messo in luce anche il problema dell’alfabetizzazione digitale e del gap di opportunità che si crea tra chi è più avvezzo a utilizzare certi mezzi rispetto ad altri. Sono temi che travalicano il mondo della scuola e dell’educazione in generale, ma sono centrali per lo sviluppo della società:
Quello dell’alfabetizzazione digitale nel nostro paese è un problema importante sui cui c’è ancora molto lavoro da fare. Il livello è basso, perché è basso il livello di informatizzazione. Non è tanto un problema di familiarità con la tecnologia, quanto di comprensione dei contenuti mediati dalla tecnologia, condizione che prepara un terreno fertile a fenomeni problematici come quello delle fake news. Anche nelle aziende certi processi di trasformazione digitale fanno fatica a passare per un problema di comunicazione. È difficile far comprendere a dipendenti e collaboratori che si intende adottare una certa tecnologia per migliorare la qualità del lavoro e – in ultima analisi – quella di vita dei lavoratori. Di conseguenza da ciò nascono equivoci e fraintendimenti che generano malumori e rallentano il processo.
Difficile concludere una conversazione con Marco Mazzaglia senza tornare, almeno brevemente, nel mondo dei videogiochi. In particolare egli fa parte di una folta schiera di appassionati di giochi vintage, usciti tra gli anni Settanta e i Novanta. Così chiediamo cosa lo affascina di questi giochi apparentemente primitivi in un’epoca di altissima definizione e grandi accelerazioni tecnologiche.
C’è sicuramente un effetto madeleine. Giocare a certi giochi mi ricorda anni di felicità e spensieratezza. Poi, da videogiocatore appassionato e insider, non posso non rimanere affascinato da come giochi che ad oggi appaiono semplici all’epoca rappresentassero sfide complesse, risolte splendidamente dai programmatori di quegli anni nonostante le limitazioni tecnologiche di quei decenni. Pensiamo a Elite, un simulatore spaziale uscito nel 1984. In soli 39k di memoria (l’equivalente oggi di una minuscola porzione di una fotografia) “vivevano” 8 galassie, per un totale di 256 pianeti, ognuno con le sue caratteristiche e la sua storia. Infine, l’influenza di questi giochi è ancora potentissima. Basti pensare che la seconda stagione di Stranger Things, popolare serie tv di Netflix, è completamente ispirata a Dig Dug, un gioco prodotto da Namco nel 1982.
Ma se il passato è affascinante, il futuro non è da meno, così vale la pena provare a spolverare la sfera di cristallo e cercare di prevedere cosa riserveranno i prossimi anni al mondo dei videogame:
Certamente ci saranno videogiochi difficili da immaginare, basati su tecniche di design non ancora sviluppate. Però non credo che la partita si giocherà solo sull’aspetto tecnologico, ma anche sull’esperienza di gioco che verrà proposta all’utente tramite meccaniche e periferiche innovative e coinvolgenti. Esistono già esempi di questo genere: giochi come Journey, What Remains of Edith Finch, Papers please, Valiant Hearts, Life is Strange, sono casi eccezionali di come le meccaniche di gioco possono contribuire a rendere un’esperienza interattiva eternamente coinvolgente.
In tutto questo, anche il Piemonte e Torino in particolare hanno carte da giocare: Torino, con Bologna e Milano, è una delle tre città protagoniste della game industry in Italia. Se a Milano hanno sede realtà importanti come Milestone e Ubisoft, a Torino ci sono aziende che hanno saputo crescere velocemente e sono arrivate a competere sui mercati internazionali. Marco Mazzaglia cita ad esempio 34BigThings, studio con sede in zona Crocetta, tra i primi ad approdare sulla piattaforma Apple Arcade con il loro gioco Redout: Space Assault. Ma sul territorio ci sono anche altre realtà interessanti come Mixed Bag e Tiny Bull Studios.
Synesthesia (torinesissima agenzia digitale tra le più importanti realtà italiane, N.d.R.) invece è molto ben posizionata nel progettare giochi B2B, sempre più richiesti dalle aziende per promuovere i loro prodotti, ma destinati anche a scuole e istituzioni.
Il capoluogo piemontese si mantiene all’avanguardia nell’ambito videoludico nonostante la massiccia e rapida evoluzione di un settore che da decenni appassiona grandi e piccini.
👍 Si ringrazia il Professor Mazzaglia per la disponibilità.