Cronache del ghiaccio e del mare

Piante rare ed endemismi alpini, per quanto sopravviveranno ancora?

Saxifraga oppositifolia(CC BY-SA 2.0 xulescu_g)

Nata eporediese nel 1987, attualmente torinese, in futuro verosimilmente vagabonda. È biologa per formazione e comunicatrice per passione: progetta laboratori didattici e si occupa di educazione ambientale. Cammina per boschi, colline e laghi, fotografa piccole piante infestanti e scrive su un blog. Desidera visitare tutti gli ecosistemi del pianeta, a partire da quelli sotto casa.

  

Quando si parla di ambiente, e nello specifico di biodiversità, si tende a incappare in alcune approssimazioni. La prima è considerare la biodiversità come un’idea concettualmente distante, applicabile a ecosistemi tropicali o comunque estranei alla concezione europea di natura. È falso e rischioso, perché suggerisce che nulla, vicino a noi, sia degno di essere protetto. Un secondo errore è pensare in termini solamente animali. Siamo uomini, e d’istinto consideriamo più importante ciò che ci è più vicino: dunque, parlando di biodiversità, pensiamo al panda e non alle primule. È rischioso anche questo, perché induce a pensare che solo ciò che ci somiglia meriti rispetto e tutela.

La biodiversità è ovunque: anche nel giardino di casa (e nel nostro intestino, se per questo). E se quella animale è più appariscente, e suscita in noi maggiore empatia, quella vegetale possiede una ricchezza che la mente umana fatica a inquadrare in un pensiero solo. Biodiversità, in termini vegetali, significa guardarsi intorno e scoprire una complessità travolgente di forme, colori e strutture. Un intero universo che vive ai nostri piedi senza che ce ne rendiamo conto.

Nel giardino di casa

L’Italia, incastrata tra Africa ed Europa, si sviluppa da nord a sud su latitudini e climi piuttosto diversi. In verticale, copre i quasi cinquemila metri che separano le coste mediterranee dalle vette alpine: un ambiente così vario da ospitare settemilacinquecento specie vegetali. Per fare un confronto, il Canada, un Paese grosso trenta volte tanto e che consideriamo un santuario della natura selvaggia, ne ospita quattromila.

In Piemonte, che a occhio sembrerebbe una zona un po’ sfortunata – non ha nemmeno il mare – crescono tremilacinquecento specie di piante native, più che in qualsiasi altra regione italiana. Com’è possibile? Perché, escludendo il mare, c’è di tutto: una rete fittissima di fiumi, torrenti e laghi, una raggiera di valli orientate in ogni senso possibile, montagne anche altissime, zone pedemontane, altopiani, colline, pianure. E il Mediterraneo, in fondo, è dietro l’angolo, a influenzare il Cuneese con il suo respiro umido e tiepido. Non è un caso, quindi, se le Alpi sudoccidentali sono uno degli epicentri della biodiversità europea: ospitano un quarto di tutta la flora italiana, oltre alla maggior parte delle piante rare e degli endemismi dell’intero arco alpino. Proprio quelle endemiche, tra tutte le specie, sono quelle che raccontano meglio la storia naturale di un territorio: e spesso è una storia bellissima.

Valle Gesso, Lago Sottano della Sella. In questa valle è possibile trovare la Saxifraga (www.piemonteparchi.it).
Valle Gesso, Lago Sottano della Sella. In questa valle è possibile trovare la Saxifraga (www.piemonteparchi.it).

Endemismi: istruzioni per l'uso

Prima di tutto, alcune definizioni. Un endemismo è una specie esclusiva di una determinata area, che non è possibile trovare altrove. L’area può essere più o meno vasta: ci sono endemismi ad areale ampio, che nel nostro caso si possono trovare su tutto l’arco alpino, e altri ad areale ristretto – una valle, un unico versante o un’unica cresta.

Una seconda distinzione è legata all’età. Da una parte, ci sono i paleoendemismi: specie antiche e anticamente diffuse su areali che in seguito si sono ridotti, formando vere e proprie isole. Su queste isole, l’evoluzione ha fatto il resto, differenziando la specie da quella originaria per adattarla alla specificità del luogo. Dall’altra parte i neoendemismi, relativamente più recenti, che derivano perlopiù dall’incrocio di due diverse specie della stessa famiglia: l’ibrido si è poi differenziato dalle forme delle specie genitrici per isolamento geografico o ambientale.

Fine delle definizioni, è l’ora delle storie.

Lo studio degli endemismi alpini è una disciplina in cui la nomenclatura lambisce la poesia e la bellezza: e queste piante sopravvissute si chiamano relitti, come navi pirata di antiche flotte disperse che si sono incagliate nei luoghi più impensabili.

Montagne che vengono dal mare

La storia delle Alpi sudoccidentali è burrascosa. Sono nate col resto della catena, nello scontro tra la placca africana e quella europea: un cataclisma di collisioni, strusciamenti e affioramenti, un bel caos che ha generato una gran varietà di tipologie geologiche in aree ridotte. Zone quasi esclusivamente calcaree, non troppo diverse dalle Dolomiti, si ritrovano a un tiro di schioppo da grandi massicci alpini geologicamente simili al Monte Bianco. Nel mezzo, un intrecciarsi di zone metamorfiche e sedimentarie. Nel mondo vegetale esiste ancora una traccia diretta di queste ere lontane, quando le Alpi emersero dall’oceano della Tetide e divennero montagne: è la Gentiana lutea, i cui avi hanno abbandonato i loro simili sulle placide pianure costiere e si sono adattati a un territorio che, man mano che l’orogenesi alpina proseguiva, si sollevava a quote sempre maggiori. Una pianta costiera che ora vive a duemila metri di quota.

Gentiana lutea
Gentiana lutea

Lasciamo passare un sacco di tempo. Durante il Quaternario (ormai l’oceano è un lontano ricordo), l’arco alpino è stato coperto da un’enorme calotta di ghiaccio. Ma una glaciazione non è uniforme: le fasi fredde si alternano a periodi interglaciali più miti, durante i quali il ghiaccio si ritira. La flora, al ritmo maestoso di queste mutazioni, si espande e si ritrae, come una marea, conquistando le cime per poi perderle qualche millennio dopo. La maggior parte delle specie non regge l’urto, e si estingue. Ma le Alpi Marittime erano alla periferia di questa calotta: e se nei periodi interglaciali potevano letteralmente rifiorire, nelle fasi fredde riuscivano a preservare alcune piccole zone dall’assedio dei ghiacci. Oggi chiamiamo quelle zone rifugi, perché questo sono stati: hanno permesso a una manciata di specie del Terziario di sopravvivere incolumi, o quasi, alle violente ondate glaciali del Pleistocene. Lo studio degli endemismi alpini è una disciplina in cui la nomenclatura lambisce la poesia e la bellezza: e queste piante sopravvissute si chiamano relitti, come navi pirata di antiche flotte disperse che si sono incagliate nei luoghi più impensabili.

Migrazioni

Esistono molte mappe per descrivere un singolo territorio. L’unica che solitamente consideriamo, quella antropica, è fatta di confini politici, strade e centri abitati; al limite vi riportiamo quote, fiumi e montagne. Ma idealmente ne esistono molte altre: sono le mappe delle forme di vita che abitano il territorio insieme a noi. Tracciano ognuna dei confini diversi: se le sovrapponiamo tutte, quegli stessi confini si confondono e perdono senso. Ebbene, guardando la mappa della vita vegetale europea, il Piemonte e le Alpi Marittime costituiscono un reticolo complesso di confini in continua mutazione: un crocevia strategicamente fondamentale. Vi si incontrano forme di vita provenienti da latitudini differenti, si scontrano climi e microclimi opposti che generano ecosistemi diversificati: è un caos ricco e meraviglioso, dove ogni specie muta, si ibrida e si evolve per adattarsi a una realtà complessa e differente da una valle all’altra, da una cresta all’altra.

Le specie costiere risalgono in quota; quelle montane, originarie di altitudini e latitudini elevate, si abbassano. Adattandosi all’enorme varietà geologica del territorio, possono trovare minuscole nicchie ambientali e convivere a pochi passi di distanza: basta un’esposizione diversa o un diverso tipo di substrato. Dall’incontro di due mondi si genera un’area intermedia dove si trova un po’ di tutto: ci sono zone in cui accanto a un’essenza mediterranea come il timo si può trovare la Saxifraga oppositifoliae, che cresce nelle fenditure rocciose di alta quota e che si trova anche in Groenlandia. È come vedere un orso polare e un cammello vivere uno accanto all’altro. A tutto questo, visto che le piante viaggiano molto più di quel che pensiamo, si aggiungono specie che vengono dai Balcani, dai Pirenei, dagli Urali e dalle steppe del Nord. A volte, a determinare l’esito di una migrazione, a modificare un confine, è il caso: un endemismo tipico del cuneese, la Viola valderia, si può trovare anche in Corsica, centinaia di chilometri e un mare più in là. Probabilmente sono stati gli uccelli a disperdere i semi, ma è un evento così strano che non ne siamo sicuri. Paradossalmente, casi tanto fortuiti potrebbero essere stati la norma.

Viola valderia
Viola valderia

Riassumendo: c’è una terra dalla storia travagliata, stritolata tra due placche tettoniche e poi di nuovo, milioni di anni dopo, ai margini instabili di una grande glaciazione. C’è un intreccio fitto, complesso e mutevole di confini climatici, geologici, biologici, ecologici, altimetrici: un laboratorio dell’evoluzione e al tempo stesso una macchina del tempo. Molte delle storie che ha generato questa terra sono degne di essere ascoltate.

Storie di piante esemplari

Saldamente arroccata alle pareti del gruppo dell’Argentera, la Saxifraga florulenta appartiene alla categoria dei relitti glaciali. Tecnicamente si tratta di un endemismo ristretto, dal momento che si trova solo nelle fessure delle rocce silicee e cristalline d’alta quota, tra i duemila e i tremila metri circa, in un pugno di comuni italiani e francesi. È la classica pianta a rosetta: una radice lunghissima la ancora alle rocce in modo che il vento non se la porti via; le foglie (sempre per proteggersi dal vento) sono piccole e disposte in un cuscinetto ben aderente alla roccia. Cresce molto lentamente: ogni anno mette foglie nuove, che si dispongono in una caratteristica forma a spirale. Va avanti così, per decenni, senza mai fiorire. Ma è una pianta paziente: perché quando arrivano le condizioni giuste, una volta sola nella vita, al centro della rosetta cresce e sboccia una pannocchia di fiorellini rosa chiaro. Dopodiché, quando arriva il freddo, l’intera pianta sfiorisce e muore. Si racconta che i cacciatori dei secoli passati la raccogliessero per regalarla alla regina quando questa visitava le loro terre. Per raccoglierla dovevano sparare con il fucile, dal basso, perché raggiungerla non era faccenda da esseri umani.

Saxifraga florulenta
Saxifraga florulenta

La Primula allionii, invece, è una timida primula dai fiori rosa. Predilige le rocce calcaree umide, dove scorre sempre dell’acqua, ma non disdegna l’ingresso di grotte e caverne: ambienti comuni tra le rocce sedimentarie di questo genere. Vive solo in Piemonte e in val Roya, ma si adatta dalle zone collinari fino ai duemila metri: in ogni caso, le singole popolazioni si estendono su aree estremamente ridotte. Anche lei è un relitto, il fantasma di un mondo passato: è il ricordo di quando il clima era caldo e umido, e la Primula allionii viveva nelle foreste montane. Poi sono arrivate le glaciazioni del Quaternario, che hanno smembrato il suo areale, frammentandolo fino a farla estinguere in buona parte del territorio. È riuscita a sopravvivere in minuscoli rifugi in cui umidità e temperature si mantenevano simili a quelle originarie, resistendo mentre il mondo cambiava. In qualche modo, la sua esistenza mantiene in vita qualche brandello di quell’universo perduto, come piccole oasi risparmiate dallo scorrere del tempo.

Anche la Berardia lanuginosa è un relitto, perché sono spesso i naufraghi e i sopravvissuti a poter raccontare le storie migliori. L’aspetto è quello tipico del fiore alpino (una rosetta basale con un fiore giallo piuttosto vistoso e lunghe radici che la ancorano al substrato delle pietraie alpine), ma geneticamente non somiglia a nessun’altra pianta europea. Anche la sua storia è solo apparentemente simile a quella delle sue colleghe: nel Pleistocene ha trovato rifugio negli angoli protetti che resistevano al grande gelo, alla periferia dei ghiacciai, inconsapevole come ogni pianta, mentre si succedevano epoche ancora prive dei nomi che gli uomini avrebbero poi dato loro. Ma mentre lei se ne stava acquattata nella nicchia ostile cui si era adattata, la sua famiglia viaggiava lontano, in direzioni diverse. Una diaspora silenziosa, che ha portato le piante più simili alla Berardia, le sue cugine, verso sud, in Africa. Le loro discendenti vivono ora nel Sahara algerino. Non è poi così strano: deserto e vette alpine sono ambienti estremi, per certi versi affini, e pretendono adattamenti simili dalle piante che vi vogliano crescere.

Sono strani, i viaggi delle piante: ci insegnano che tutto si muove, migra e si adatta a climi e terre nuove, che le mappe umane descrivono solo una minima parte del territorio, e che a volte aree lontane come le nostre valli e il deserto africano appartengono in qualche modo alla medesima terra. Che i confini sono proiezioni umane che cercano di dare un senso a una complessità che ci sfugge, e che in realtà tutto scorre fluido, incontrollabile, inafferrabile.

Primula allionii
Primula allionii

Il destino dei sopravvissuti

La berardia, la sassifraga dell’Argentera e la primula di Allioni vengono da lontano. Hanno superato stravolgimenti che fatichiamo a concepire, si sono adattate al mutare del mondo. Potranno quindi resistere a tutto? La risposta, scontata, è no. Certo, nulla è stabile, tutto cambia ed è sempre stato così. Le mappe naturali si muovono in continuazione, e l’avanzare e lo spostarsi di infiniti confini, avanti e indietro in una danza complessa, è il respiro stesso della vita. Ma un conto è un mutamento che dipende dal caso, dal gioco costante e imprevedibile di mille variabili, un conto è un mutamento doloso. Nelle mappe umane, c’è differenza se una città viene abbandonata perché i suoi abitanti si spostano altrove oppure se viene rasa al suolo da un esercito invasore: perché nel secondo caso un’intera popolazione non esiste e non esisterà mai più, e il mondo ne risulterà impoverito.

Gli endemismi di cui si è parlato, e molti altri, vengono da ere lontane. Le hanno affrontate e sono ancora qui. Ora hanno di fronte l’Antropocene, che somiglia a un esercito invasore. Sono sopravvissute a stento alla raccolta selvaggia degli umani, prima che questa venisse regolamentata. Ma la minaccia vera è un’altra: e per l’emergenza climatica non ci sono regole efficaci che le possano difendere. Le temperature globali si alzano, soprattutto nelle aree più fredde come le Alpi, e le piante che hanno bisogno di climi rigidi si adattano spostandosi verso monte: è quello che hanno sempre fatto. I boschi di conifere guadagnano quota e la loro ombra uccide la piccola flora abituata alla luce degli spazi aperti. L’abbandono dei pascoli facilita il processo. Tutte le specie salgono verso le cime; le praterie alpine e le pietraie si riducono. È un assedio, e non c’è via di fuga: oltre le cime non si può andare, le nicchie ridotte e frammentate degli endemismi si sgretolano ulteriormente.

Viene da pensare che specie così adattive, così resistenti, possano reggere anche questo scossone. Ma la questione, come sempre, è più complessa. La loro storia è lunga e dolorosa, e ha lasciato cicatrici violente. Sono passate attraverso a quello che gli scienziati chiamano un collo di bottiglia: per resistere alle glaciazioni la loro popolazione si è ridotta, ridotta, ridotta, e i pochi esemplari che l’hanno scampata hanno portato con sé solo una piccola parte del patrimonio genetico della specie. Molti geni recessivi e latenti sono scomparsi. La ricchezza genetica permette un numero maggiore di mutazioni, dunque di cambiamenti e di adattamenti. E i relitti glaciali l’hanno persa: non è detto possano adattarsi ancora. Potrebbero farlo, forse, se ne avessero il tempo. I ritmi geologici sono impercettibili, molto più lenti dei nostri. Nel Quaternario si sono susseguite sette glaciazioni nell’arco di tre lunghissimi milioni di anni: le piante hanno avuto a disposizione innumerevoli tentativi, generazione dopo generazione, per selezionare geni più adattivi, diventare più resistenti e cavarsela.

Ora, semplicemente, di tempo non ce n’è. Il ritmo a cui cambia il clima non è quello del mondo, ma quello culturale e tecnologico dell’uomo, ed è troppo per qualsiasi altro organismo – che sia un animale o un piccolo fiore che abita le rocce. Biodiversità significa bellezza e ricchezza, significa guardarsi intorno e scoprire di far parte di una storia più grande, più complessa e grandiosa di noi. Se continueremo a imporre al mondo un ritmo non suo, guardandoci intorno scopriremo invece di essere sempre più soli.

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Bibliografia

  • Bartolucci F. e altri, An updated checklist of the vascular flora native to Italy, in Plant Biosystems, vol. 152, 2, 2018, pp. 179–303.

  • Casazza G. e altri, The plant endemism in the Maritime and Ligurian Alps, in Biogeographia The Journal of Integrative Biogeography, 31, 2016, pp. 73–88.

  • Casazza G. e altri, Ecological and historical factors affecting distribution pattern and richness of endemic plant species: the case of the Maritime and Ligurian Alps hotspot, in Diversity and Distributions, 14, 2008, pp. 47–58.

  • Martini E., L’originalità floristico-fitogeografica delle Alpi Liguri e Marittime: dati acquisiti e problemi irrisolti, Annuario Museo civico Rovereto, sezione scienze naturali, suppl. vol. 14, 2000, pp. 85–94.

  • Patsiou T. S. e altri, Topo-climatic microrefugia explain the persistence of a rare endemic plant in the Alps during the last 21 millennia, in Global Change Biology, 20, 2014, pp. 2286–2300.

  • Szövényi P. e altri, Effects of Pleistocene glaciations on the genetic structure of Saxifraga florulenta (Saxifragaceae), a rare endemic of the Maritime Alps, in TAXON 58, 2, maggio 2009, pp. 532–543.

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