Quello che spicca, a incontrare di persona Maurizio Manzieri, è l’entusiasmo. Che sia a una sua mostra, munito di tablet tramite cui esibire le sue opere più recenti, oppure nel pieno di un workshop in cui esplora tecniche e segreti dell’illustrazione digitale, difficile negare come le iperboli e il senso di meraviglia, nel suo caso, siano totalmente genuine. Maurizio ama quello che fa, ed è tremendamente bravo a farlo.
Napoletano di nascita ma torinese di fatto, classe 1961, come artista digitale è attivo sul mercato internazionale, con un occhio di riguardo per l’editoria USA di science-fiction e fantasy, da oltre trent'anni. Il suo inconfondibile stile, fatto di un fotorealismo che trascende nell’immaginifico, oltre alle copertine dei libri è ideale anche per arricchire la locandina di convention ed eventi legati al fantastico. Il più recente, ancora nei cartelloni a Torino, è il manifesto di “Loving the Alien”, il festival del MuFant (Museo del Fantastico e della Fantascienza); forse il migliore, per suggestione e ricchezza grafica, l’Alice steampunk realizzata per la kermesse svizzera Fantasy Basel.
Ma è del 2021 la notizia più importante di tutte, picco di una lunga carriera valorizzata all’estero e forse non sufficientemente messa in risalto in patria: Maurizio Manzieri è candidato, come miglior illustratore, al Premio Hugo, l’Oscar della fantascienza (la premiazione si terrà il 18 dicembre).
La faccio risalire al volume Le meraviglie del possibile, una delle prime apparizioni in Italia di racconti Asimov, Bradbury e tutti i più grandi, ma anche a un’antologia delle medie, ricordo il racconto Strada buia di Arthur C. Clarke. Fu mio padre a propormi di leggere Verne, Salgari e H.G. Wells. Ricordo inoltre lo stupore nel ritrovare alla Standa, intorno ai 15 anni, un’edizione di Cronache marziane illustrata da Karel Thole. L’ho letto più volte. Dopodiché mi abbonai alla rivista di Isaac Asimov, in lingua inglese.
A Napoli vivevo nel quartiere Bagnoli, non lontano dalla base militare NATO. Sapevo che all’interno c’erano edicole e ne chiedevo notizie agli amici che le frequentavano. Un giorno ideai un piano perfetto per entrare. Era possibile, per chi era accompagnato da un marinaio di bordo, fare visita alla portaerei Eisenhower. Così insieme alla mia fidanzatina dell’epoca, futura moglie, cominciammo a frequentare i dintorni della base. Ci invitarono all’interno e subito chiedemmo della libreria.
No, perché avevo questo desiderio impellente di comprendere quelle storie e quegli universi. Intorno ai 18 anni tutto quello che leggevo era in inglese. In seguito lo studiai come lingua straniera all’Università Orientale di Napoli, insieme a giapponese, cinese e coreano. Me la cavavo bene con gli esami, avevo una media molto alta, ma in parte capivo che non era la mia via. Frequentai per un anno sia giurisprudenza, che astrofisica. Certo la mia famiglia avrebbe preferito che intraprendessi la carriera legale. Ma la passione per l’arte e per l’immaginazione continuava a essere fortissima. Disegnavo già da giovanissimo: la scoperta del fantastico e, insieme alle letture, di alcuni illustratori è stata la scintilla definitiva.
Per niente! All’inizio avrei voluto essere sia scrittore che illustratore. Ma ricordavo a me stesso di non essere Leonardo Da Vinci. Così scelsi, pur avendo qualche manoscritto sulle spalle, di concentrarmi sull’arte. Ma nulla è mai semplice né scontato, tutte le conoscenze ed esperienze trovano una sintesi in ciò che esprimi. Serve disegnare tutti i giorni per anni, e certo avere una buona predisposizione. Alla fine saranno poche, semplici linee a colpire. Così come di una vita intera non emergono che pochi momenti significativi.
Da ragazzo, in visita a una cugina a Novara, decisi di fare tappa alla sede dell’Editrice Nord. Non avevo preso appuntamento, ma avevo studiato l’indirizzo di destinazione e tutto il percorso. Lungo il tragitto mi ripassai il discorso che mi ero preparato. Mi aprì una dipendente, a cui chiesi la nuova copia del Cosmo Informatore. Nel frattempo cercavo una scusa per fermarmi, per me era una sorta di tempio della fantascienza. Quando finalmente dal suo ufficio uscì Gianfranco Viviani, l’editore, venne a stringermi la mano. Ricordo questi poster giganteschi, da copertine meravigliose, e che gli chiesi se avrei potuto comprarne una. Rientrai a casa tutto contento per il semplice fatto di essere entrato in redazione. Anni dopo mi capitò di collaborare con Viviani, diventammo anche amici, ma non gli dissi mai di questa mia sortita giovanile. In compenso, realizzai la copertina per un’edizione Nord di Marion Zimmer Bradley.
Tanti, in realtà. Durante un festival del fumetto di Lucca a cui andai con un amico, tramite treno notturno, riuscii a conoscere di persona Moebius. Al Comicon di Napoli incontrai Hermann e Luis Royo. In un’occasione che non ricordo, trascorsi ben due pomeriggi a discutere di arte con Karel Thole. Ma l’incontro più strano fu a Roma, al tavolino di un bar, con Hugo Pratt. Mi chiese se l’avevo riconosciuto per la foto sul giornale di quel giorno, ma sapevo bene chi fosse. Mi disegnò un Corto Maltese sulla copertina della copia di Zothique di Clark Ashton Smith che stavo leggendo.
Quali sono state le tue prime pubblicazioni professionali?
Verso la metà degli anni Novanta Interzone, rivista britannica, acquistò una mia illustrazione per la copertina. Fu anche il numero che vinse il premio Hugo, quello di settembre 1995. Come artista digitale, nel 1997 partecipai al DigiPainting su invito del Comune di Roma. Ma la vera, inattesa sorpresa la ricevetti da oltre confine. Seguivo Spectrum, annuario di illustrazione internazionale. Scrissi ai curatori, chiedendo informazioni, e mi suggerirono di partecipare. Poi mi mandarono a casa, regalandomelo, un enorme pacco di numeri precedenti della rivista. Continuai a proporre i miei lavori finché, nel 1998, accettarono una mia illustrazione. Significava spiccare tra migliaia di artisti. Progetto analogo, su cui appaio tutti gli anni, si chiama Infected by Arts.
Seguivo, come allievo, l’artista Marco Patrito, conosciuto qualche anno prima durante una Italcon a Courmayeur. Per portargli un articolo per una fanzine che dirigeva, feci visita al suo studio, trovandolo rivoluzionato in pochi giorni. Anziché tele e pennelli, c’era un computer e vari strumenti. Vedendomi interessato, mi invitò più volte a provare i software. Fu come mettere piede in un nuovo mondo. Con estremo rischio imprenditoriale, comprai un personal computer per aprire lo studio. La mia prima macchina fu un Quadra 800 della Apple, con 16 Mb di RAM e Photoshop versione 2.5, oltre alla tavoletta grafica. Con quella realizzai anche l’immagine che sarebbe diventata la cover di Interzone. Il digitale è stato anche un’opportunità, perché avere un computer in casa era molto più facile rispetto all’utilizzare tele e pennelli. Continuai a fare pratica con regolarità, anche quando la famiglia e il lavoro come manager in altri ambiti occupavano parte preponderante del mio tempo. Solo quando le condizioni lo hanno reso possibile, ho infine scelto di diventare illustratore a tempo pieno. Non sono decisioni che vanno prese alla leggera.
Fondamentalmente cerco di concentrarmi sulla mia visione, con un approccio più bidimensionale che tridimensionale, idealmente vicino alla tavola pittorica. Immagino già sul foglio virtuale bianco quello che intendo dipingere. Magari scatto fotografie come referenze. I software ormai hanno strumenti che servono a simulare gli equivalenti analogici, ma con molti vantaggi. Per esempio puoi dipingere lo sfondo per intero, in modo che se poi l’editore ti chiede di spostare un personaggio, lo puoi fare. In analogico dovresti rifare l’immagine da zero, oppure ricreare lo sfondo. Punto a un livello di finitura che sia il più vicino possibile all’immagine nella mia mente. Il computer, in questo, è solo uno strumento. Per quanto mi riguarda, sono istintivo: prima c’è il risultato che voglio ottenere, e poi i mezzi digitali per raggiungerlo. Alla fine il disegno a mano libera, con un singolo pennello, rimane centrale.
Per lui avevo realizzato nel 2004 la cover del SuperPocket di Salto nel buio, edizione italiana. Fu un’esperienza interessante. Due anni e mezzo dopo, fui contattato dal fan club di Clive Cussler. Avevano visto l’edizione italiana di Salto nel buio e chiedevano se esistesse una stampa dell’immagine, perché ne avrebbero volute comprare alcune. Decisi di produrne una piccola quantità. Arrivate in USA, una delle stampe finì proprio sulla scrivania dello scrittore. Se ne innamorò. Disse che la voleva come immagine per The Chase, il nuovo romanzo che stava scrivendo. Fui contattato con la richiesta di alcune modifiche. Purtroppo però, alla presentazione in redazione, il mio disegno fu bocciato. Ne chiesero una versione diversa, con la locomotiva che emergeva dall’acqua, che realizzai. Tutto accadde mentre Cussler, con il suo team, era via. Al ritorno, lo scrittore pretese che la prima versione fosse quella definitiva.
Con il senno di poi, sarei partito ancora prima con l’attività professionale. Ma quando sei ragazzo, non sei nato in una famiglia di artisti, sei autodidatta senza aver potuto fare una scuola artistica o un’accademia, non c’è Internet, e non hai a portata qualcuno che possa consigliarti i libri da leggere, oppure come usare un aerografo… è un percorso lunghissimo. Se potessi parlare al me stesso di allora, direi di andare avanti tranquillo. Ho venduto la prima illustrazione a 33 anni. Per ciascuno, la strada è diversa, e ti ritrovi a iniziare quando sei pronto. Ho fatto molte cose, e seguito le mie scelte, ma mi sono sempre trovato su un binario a me favorevole. Certo c’è l’ambizione di voler sempre di più, ma questo può anche farti vivere male.
Se mi avessero detto che, compiuti sessant'anni, sarei stato finalista al premio Hugo, mi sarei messo a ridere. Mai mi sarei immaginato qualcosa del genere. Per me è il massimo, significa che persone che non conosco, appassionati e professionisti, hanno apprezzato la mia opera; che ha saputo comunicare e che il messaggio è arrivato. Di per sé, questa è una soddisfazione impagabile, la più grande di tutte. Ho un seguito limitato sui social, perché ho sempre messo davanti i miei lavori. E loro hanno saputo parlare per me.