Duecento anni fa, dal 6 al 10 marzo 1821, i moti rivoluzionari in Piemonte gettavano i semi dell'insurrezione contro il sofferto dominio austriaco; la conseguente repressione costrinse un'intera generazione a intraprendere una vita da esuli. Si trattò di esili forzati, come quelli di molti protagonisti dei moti, ma anche volontari, come quelli "liberi" dei viaggiatori alla Carlo Vidua, smaniosi di esplorare il mondo.
Nel raccontare i moti del 1821 in Piemonte occorre ricordare il momento storico in cui essi si svilupparono. Alla fine dell’avventura napoleonica, il Congresso di Vienna creò degli Stati fra i quali erano assenti legami di tipo federale. L’unico Stato governato da una dinastia italiana era il Regno di Sardegna. Nel 1820, il “milanese” Silvio Pellico, per conto della Carboneria, fece un viaggio nel mese di giugno a Torino.
All’interno della famiglia reale piemontese c’era un giovane principe, Carlo Alberto, che apparteneva al ramo cadetto dei Carignano ed era cugino del re. Era anche l’erede presunto al trono perché né Vittorio Emanuele I né il fratello Carlo Felice avevano eredi maschi e la successione al trono era regolata dalla legge salica, che escludeva le femmine. Era nato il 2 ottobre 1798 nel Palazzo Carignano di Torino (ora sede del Museo Nazionale del Risorgimento italiano) da Maria Cristina Albertina di Sassonia Curlandia e da Carlo Emanuele. Quest’ultimo apparteneva al ramo collaterale di Casa Savoia il cui capostipite era stato Tommaso Francesco, fratello di Vittorio Amedeo I e primo principe di Carignano. Entrambi i genitori dimostravano un atteggiamento anticonformista, rispetto a quello del Re Carlo Emanuele IV fratello maggiore di Vittorio Emanuele, che li credeva di simpatie giacobine.
All’approssimarsi della guerra del 1799 tra i francesi e gli austrorussi, i principi di Carignano con Carlo Alberto ancora in fasce si erano trasferiti a Parigi, dove poco dopo moriva il padre. La madre si risposò con Giuseppe Massimiliano Thibaut de Montléart. Dopo la Restaurazione, il Re Vittorio Emanuele I lo volle a corte, come erede presuntivo al trono, e, nel 1816, a diciotto anni, Carlo Alberto era stato emancipato e aveva avuto come scudiero Giacinto di Collegno, di cinque anni più vecchio, già ufficiale napoleonico insignito della Legion d’Onore. Il 30 settembre 1817, il principe aveva sposato nella Chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze la principessa Maria Teresa Francesca d’Asburgo Lorena, figlia di Ferdinando III granduca di Toscana, arciduchessa della famiglia imperiale austriaca. Il 14 marzo 1820 nasceva il primo figlio, l’erede, il futuro Re Vittorio Emanuele II.
Collegno introdusse presso l’entourage del Principe Carlo Alberto alcuni giovani della nobiltà piemontese animati dagli ideali nazionali e patriottici, fra i quali: Luigi Provana, Luigi Ornato, Santorre di Santa Rosa, Roberto d’Azeglio, Cesare Balbo, Guglielmo Gribaldi Moffa di Lisio, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano e Alberto Nota, che fu assunto come segretario. Quando Silvio Pellico giunse a Torino, nel giugno 1820, cercò di attrarre personaggi vicini al principe nella setta.
Nel clima della Restaurazione, la polizia asburgica era ovunque e, allarmata per lo scoppio costituzionale a Napoli (il 2 luglio, dopo quello di Spagna del 1 gennaio), scoprì la trama della Carboneria. Piero Maroncelli, che aveva iniziato Pellico, fu arrestato. Il 13 ottobre 1820 fu catturato lo stesso Pellico a Milano, in Casa Porro. All’inizio del 1821, mentre intraprende la spedizione militare per abbattere i liberal-costituzionali nel Regno delle Due Sicilie, l’Impero d’Austria intensificò la repressione della Carboneria. Chiuso con la richiesta di pesanti condanne il processo a carico dei carbonari con centro a Fratta Polesine, l’inquirente Antonio Salvotti chiese d’interrogare Maroncelli e Pellico, che non fecero parola sul Principe Carlo Alberto.
Nel 1821, a Torino, l’erede al trono, che sicuramente era interessato a prendere la spada per una guerra contro l’Austria, era attratto dalla cospirazione costituzionalista, che si legava alla causa italiana. L’Impero degli Asburgo, però, era in quel momento l’alleato principale del Re Vittorio Emanuele I. Il livello di connivenza tra il napoleonico principe di Carignano e i cospiratori aveva raggiunto il suo apice all’inizio del 1821. C’era la Carboneria, ma ad altre sigle appartenevano i cospiratori: massoni (come il Principe della Cisterna e Roberto d’Azeglio), federati e adelfi.
Nella capitale del Regno di Sardegna, dopo gli incidenti del 12 gennaio 1821, la tensione tra le forze reazionarie da una parte e quelle liberali (con tendenze tradizionalistiche di una parte dell’aristocrazia) e innovatrici della maggioranza degli intellettuali era salita alle stelle. Il caos era partito da una semplice bravata di quattro studenti dell’Ateneo (Albino Rossi, Carlo Maoletti, Luigi Chiocchetti e Angelo Biandrini), l’11 gennaio 1821, durante il carnevale. Gli studenti erano entrati al Teatro d’Angennes (ora Gianduia, in via Principe Amedeo), dove recitava Carlotta Marchionni, indossando il bonnet rouge, l’allora in voga cappello in lana rossa con fiocco nero. I due colori erano anche quelli della Carboneria e i carabinieri reali, colta l’allusione politica, arrestarono all’uscita dal teatro Albino Rossi e Luigi Chiocchetti fu preso a casa sua.
L’indomani, diffusasi la notizia dell’arresto, l’università insorse. Intervenne l’esercito con sciabole e baionette per ordine del governatore della capitale, il conte Thaon di Revel, che fece abbattere le porte dell’Ateneo dai granatieri. Alla fine della giornata si contarono una trentina di feriti gravi tra gli studenti e furono effettuati oltre sessanta arresti. Gli incidenti potevano finire in tragedia senza l’intervento del conte Cesare Balbo, figlio del ministro Prospero, che si pose come scudo tra l’esercito e gli studenti. All’inizio di marzo cominciarono poi a farsi insistenti le voci dell’imminente intervento austriaco a Napoli, e i liberali decisero perciò di passare all’azione. La monarchia piemontese doveva mettersi alla testa dell’esercito e irrompere sulla Lombardia per cogliere alle spalle gli austriaci impegnati nel Sud, con l’obiettivo finale di creare un Regno costituzionale dell’Alta Italia.
Nelle sofferte pagine Della rivoluzione piemontese nel 1821 Santa Rosa dichiarò che il Principe Carlo Alberto s’era impegnato a promulgare la costituzione spagnola, ma in seguito “capo spergiuro”, aveva abbandonato i suoi sodali costretti a trasformare in rivoluzione quella che avevano sognato come pacifico cambio istituzionale. Da parte sabauda, l’interessato Carlo Alberto respinse l’accusa di aver compromesso i ribelli, rivendicando con accento solenne nella sua semplicità l’onore del suo Piemonte dopo la rivoluzione dei militari. Così si evince, da una lettera del Principe di Carignano, da "Firenze, 11 mai 1822", a sua madre:
Notre révolution est loin de me faire mésestimer mon pays… Sous tous les rapports, je m’estime infinement heureux d’être Piémontais.
Santa Rosa, alla rivoluzione piemontese, vi pensava da quando aveva iniziato a scrivere Doveri e speranze d’Italia, poi mutato in Delle speranze degli Italiani: un testo edito nel 1920 a cura di Adolfo Colombo e ripubblicato in anastatica, circa quindici anni fa, con prefazione di Piero Bonati per il 60° della loggia “Santarosa” n. 1 di Alessandria (Grande Oriente d’Italia). In sintesi, in quelle pagine Santa Rosa riconobbe il debito dell’Italia verso l’Imperatore Napoleone e affermò che i militari debbono servire il sovrano sino a quando egli è in sintonia con i suoi popoli. Il Principe Carlo Alberto alla vigilia dei moti piemontesi era attento ai fermenti dei patrioti lombardi, che aspettavano un esercito costituzionale piemontese pronto ad attraversare il Ticino. Non è un caso che il primo a celebrare il nuovo corso piemontese fu Alessandro Manzoni, con Marzo 1821.
Alle ore 20, del 6 marzo 1821, Santorre di Santa Rosa, Giacinto Provana di Collegno, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, Guglielmo Moffa di Lisio e Roberto d’Azeglio incontrarono Carlo Alberto, che durante i mesi della cospirazione aveva assicurato il suo appoggio. Così fece anche quella sera, dichiarandosi favorevole all’azione militare. Si trattava infatti di far sollevare l’esercito, circondare il castello di Moncalieri, dove risiedeva Re Vittorio Emanuele I, e costringere il vecchio sovrano a deliberare sia la costituzione che l’entrata in guerra contro l’Austria. Il ruolo di Carlo Alberto sarebbe stato, formalmente, quello di mediatore fra i congiurati e il sovrano.
Quella che doveva diventare una rivoluzione piemontese si trasformò nel giro di qualche settimana in una tragedia per molti, soprattutto militari e aristocratici che avevano appoggiato e poi sostenuto la cospirazione. Ci fu una generale impreparazione all’evento. Soprattutto mancò l’appoggio risoluto del principe, che già la mattina del giorno dopo, il 7 marzo, cambiò l’idea e ne informò i cospiratori. Per di più convocò il Ministro della Guerra, Alessandro Saluzzo di Monesiglio, dichiarando di aver scoperto un complotto rivoluzionario. Fu un tentativo di sganciarsi dalla cospirazione che, tuttavia, continuò a incoraggiare il giorno dopo, in occasione di un’altra visita di Santa Rosa e di San Marzano. Costoro però si insospettirono e diedero disposizioni per annullare l’insurrezione militare che doveva scoppiare il 10 marzo. Lo stesso giorno Carlo Alberto, completamente pentito, corse a Moncalieri da Re Vittorio Emanuele I svelandogli ogni cosa e chiedendogli perdono.
Pianta e particolari interni della Cittadella di Alessandria.
Ma era troppo tardi: nella notte la guarnigione di Alessandria, comandata da Guglielmo Ansaldi, che l’8 marzo si trovava a Torino alla riunione dei capi liberali in cui, di fronte alle esitazioni di Carlo Alberto, fu deciso d’iniziare subito la rivoluzione in Alessandria, si sollevò. Gli altri rivoluzionari, a questo punto, benché abbandonati dal Principe, decisero di agire. Il mattino del 10 marzo, ad Alessandria, riuniti nella cittadella i dragoni del re e la brigata Genova, Ansaldi proclamò la costituzione spagnola e il Regno d’Italia e fece inalberare per la prima volta il tricolore. Creata una giunta provvisoria di governo Ansaldi diventò presidente e l’11 marzo dichiarò lo stato di guerra con l’Austria e la mobilitazione dell’esercito “italiano”.
Negli stessi giorni fu occupata anche la Cittadella di Vercelli. Re Vittorio Emanuele I tradì i giovani cospiratori e abdicò, nominando come successore il fratello Carlo Felice. Con l’erede a Modena, Carlo Alberto fu nominato reggente e il giorno successivo, nella serata del 13 marzo 1821, concesse la costituzione. Tuttavia l’atto venne sconfessato da Carlo Felice, il quale obbligò il reggente a lasciare Torino per riunirsi a lui. Mancato l’appoggio del principe, i rivoluzionari vennero sconfitti, nonostante la formazione di un governo presieduto da Santa Rosa. La fuga del Principe Carlo Alberto rese inutile anche l’insurrezione di Genova e Santa Rosa si trovò a concludere, in una battaglia già perduta, i moti del 1821.
Il 27 marzo, Santa Rosa indirizzò all’esercito un Ordine del giorno dove risuonano parole amare:
Le nostre insegne sono quelle del Re; e se la provvidenza ha voluto mettere ad estrema prova il nostro coraggio coll’affliggerci della doppia sventura dell’abdicazione di un Re, caro al suo popolo, e dell’assenza del suo successore, il quale era tanta nostra speranza, ed ora si trova fra i nostri nemici, e costretto a parlare un linguaggio, che non potremo mai riconoscere dal suo cuore, noi sempre ci rammenteremo, e in ogni fortuna, che la nostra fedeltà ai Principi di Savoia deve agguagliare il nostro affetto alla Costituzione, dalla quale le nostre famiglie aspettano la loro sicurezza e la loro felicità.
Le truppe rivoluzionarie di Santa Rosa non furono appoggiate dai soldati realisti. A quest’ultimi si aggiunsero i nemici austriaci. La tragedia finì in beffa. La notte del 7 aprile 1821, i quattro mila soldati della rivoluzione piemontese, con sei cannoni, si accampavano in prossimità del torrente Agogna, poco lontano da Novara. L’8 aprile avvenne lo scontro con gli altrettanti soldati fedeli al Re appoggiati da ben quindicimila austriaci. Calava il sipario con una baruffa: una trentina fra morti e feriti da entrambe le parti e duecentocinquanta piemontesi fatti prigionieri dagli austriaci.
Iniziò la fuga dei compromessi, con avventure picaresche degne di nota, come quella di Charles Henri Pellegrini, figlio di Bernardo Bartolomeo Pellegrini, originario del Canton Ticino. Charles Henri, nato a Chambéry il 28 luglio 1800, era a Torino all’università quando scoppiarono i moti a San Salvario. Si unì ai rivoltosi e si diresse ad Alessandria, dove arrivarono anche studenti da Pavia. Gli studenti si unirono in un solo corpo, al quale diedero nome di “Battaglione di Minerva”. Repressi i moti, Pellegrini esulò in Francia, dove frequentò a Parigi l’École polytechnique, terminata nel 1825. Nel 1828, troviamo Charles Henri Pellegrini in Sud America. Morì a Buenos Aires il 12 ottobre 1875. Pittore alla moda, ritrasse le dame di Buenos Aires, eseguì dei bellissimi acquarelli sui luoghi caratteristici della capitale e nel 1853 fondò la Revista del Plata, ma è ricordato in particolare per il figlio Carlos Enrique José Pellegrini Bevans, che fu presidente dell’Argentina, dal 6 agosto 1890 al 12 ottobre 1892, il primo figlio di immigranti ad accedere a quel rango.
Altro studente protagonista a San Salvario fu Carlo Beolchi, di Arona. Falliti i moti, riuscì il 14 aprile a imbarcarsi a Genova, con molti altri esuli, sul brigantino Licurgo, diretto in Spagna. Nel 1824 esulò a Londra e ricorda il Manno, “acquistò ricchezze, e con esse soccorreva esuli e bisognosi”. Ritornò nel 1850 a Torino, dove morì il 6 giugno 1867.
Tra i capi dei moti del 1821, Carlo Emanuele Asinari di San Marzano, marchese di Caraglio, fu condannato a morte in contumacia, andò in esilio prima in Svizzera e poi a Londra, rimanendo comunque sempre in contatto con i movimenti rivoluzionari. Nel 1835, revocata la condanna, poté ritornare in Piemonte (anche se gli venne vietato di stabilirsi nella capitale). Negli ultimi mesi di vita gli fu permesso di tornare a Torino, dove morì il 22 ottobre 1841.
Guglielmo Ansaldi, che era nato a Cervere nel cuneese il 4 settembre 1776 da Andrea e Clara Marino, dopo una carriera nell’esercito sabaudo e l’esperienza di capo dei moti di Alessandria, raggiunse Genova, ultimo focolaio della rivoluzione. A Genova, tuttavia, non restò al comandante di Alessandria, come a molti altri patrioti, che imbarcarsi al fine di sottrarsi alla condanna a morte in contumacia. Da Genova, Ansaldi si recò in Spagna, dove combatté a fianco dei liberali. Nel 1830 passò in Francia, a Parigi, Lione e Grenoble, continuando a cospirare attivamente per la libertà italiana. Nel 1842 ricorse a Re Carlo Alberto e, ottenuto l’indulto, poté rientrare in patria. Nel 1848 fu reintegrato nel grado di tenente colonnello e il 16 maggio 1848 collocato a riposo col grado di colonnello. Morì a Savigliano, la città natale dell’amico Santa Rosa, il 19 gennaio 1851.
L’eroe dei moti piemontesi, Santorre di Santa Rosa, raggiunse pure lui Genova e da lì s’imbarcò per la Francia. Costretto all’esilio per sfuggire al capestro, si arruolò volontario e morì combattendo in Grecia contro i turchi nel 1825, un anno dopo l’avventura di Byron, che il 1° gennaio 1824 con una sua nave sfuggiva alla cattura della flotta turca, per morire malatissimo, per una infiammazione ai polmoni, alla vigilia del prestito inglese alla Grecia e alla sua prossima nomina a presidente della commissione per la destinazione dei fondi. Il poeta ribelle morì alle sei di sera del 19 aprile 1824. Era il Lunedì dell’Angelo. Nell’ora della sua morte si scatenò un uragano impressionante.
Celebrare i moti piemontesi del 1821, significa anche ricordare come il destino di tre eroi romantici si incrociò. Oltre a Santorre di Santa Rosa e a Lord Byron, ci fu un esule volontario dal Regno di Sardegna, il conte Carlo Vidua. Tutti e tre, duecento anni fa, tre grandi uomini, rivoluzionari, romantici e grandi ribelli, per un desiderio di libertà, di indipendenza, di affermazione, morirono lontano dal “carcere natìo”: l’Europa della Restaurazione. Tutti e tre, in modo diverso, parteciparono attivamente alla rivoluzione della Grecia negli anni Venti dell’Ottocento. Vidua anticipò Lord Byron e Santa Rosa: arrivò in Grecia nella primavera del 1821. Gli ultimi due, invece, arrivarono più tardi e vi morirono come due antichi guerrieri: Byron il 19 aprile 1824 a Missolungi, Santa Rosa l’8 maggio 1825 a Navarino.
Carlo Vidua, Conte di Conzano, nato a Casale Monferrato il 28 febbraio 1785, fu il più grande viaggiatore d’inizio Ottocento. Prima dei moti del 1821 era intimo degli intellettuali che facevano parte della cerchia del Principe Carlo Alberto, in particolare di Cesare Balbo, Roberto d’Azeglio e Santorre di Santa Rosa. Vidua era l’intellettuale più grande, e più anziano di qualche anno, tra i giovani alfieriani-foscoliani, riuniti in epoca napoleonica nella Società dei Concordi. Dopo la Restaurazione, essi vedevano nell’ascesa di Prospero Balbo il preludio di un regime costituzionale. Carlo Vidua, proprio per sfuggire all’opprimente ombra della Restaurazione, diventò non solo un esperto viaggiatore, ma un esploratore, e morì a quarantacinque anni, in Indonesia, il 25 dicembre 1830, a bordo della corvette Ternate del capitano Le Doux.
Carlo Vidua, Santorre di Santarosa e Lord Byron.
Una vita avventurosa, ricca di emozioni e di pericoli. Lo studioso dei viaggi di Vidua divide la narrazione in tre grandi tour. Il primo, dal 1818 al 1821, tra Francia, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Russia, Impero Ottomano, Egitto e Grecia. Il secondo, dal 1825 al 1826, tra Canada, Stati Uniti d’America e Messico. L’ultimo, dal 1827 al 1830, tra India, Cina, Manila, Filippine, Indonesia e Nuova Guinea. Il primo grande tour, comprende anche una quarantena che il viaggiatore dovette imporre a se stesso alla fine del 1821 e che abbiamo raccontato con molti particolari su Rivista Savej.
Dopo Cipro e Rodi, Vidua sbarcò ad Atene, mentre la città era in preda alla rivoluzione. Vidua, non si trova lì per caso, come potrebbero far pensare le lettere pubblicate (e censurate pesantemente nel Regno di Sardegna alla loro uscita) da Balbo nel 1834. Il suo interesse per la politica lo spinge in Grecia prima di Byron e dell’amico Santa Rosa (che quando arrivò ad Atene, nel gennaio 1825, ritrovando su una colonna del tempio di Teseo il nome di Vidua, vi scrisse accanto il proprio). Vidua è un ribelle e la sua vita è uno spettacolo senza precedenti. Byron, letto e conosciuto assai bene dagli amici piemontesi, si pone al centro delle sue narrazioni in veste di personaggio titanico (Manfred), in continua lotta contro le avversità del fato.
Santorre di Santa Rosa è ricordato da Vidua, nel suo ultimo viaggio, su un taccuino:
On the Piemontese Revolution by Count Santa Rosa. N. 37. Non ho potuto trattenermi dal voltolar di nuovo questa storia si ben scritta, e le cui macchie vengon da imperizia politica, e da calda fantasia, del però ben intenzionato, ottimo, infelice autore degno di lunga memoria.
In India, Vidua conobbe un esule piemontese dei moti del 1821, Antonio Riccardi di Lantosca. Nel 1821 era capitano dei cavalleggeri del re. Secondo il Manno, morì “nelle Indie” nel 1832. Una nota di polizia nel 1839 lo ritiene invece al servizio della Persia. Il capitano scrisse a Vidua delle lettere piene di riconoscenza per l’aiuto prestatogli in India:
solo vi bastò il nome mio, per ispirarvi quel puro e nobile sentimento, che degno è soltanto delle belle Anime Italiane.
Da Benares, nel luglio 1829, Antonio Riccardi di Lantosca informa Vidua di nuove lettere e lo ringrazia per i consigli.
Occorre comprendere le ragioni per le quali un singolare destino accomuni un’intera generazione di giovani intellettuali piemontesi: essi furono segnati dalla sorte dell’esilio, a volte volontario. Nel rapporto tra Carlo Vidua e Cesare Balbo, bisogna rilevare che Balbo, dopo i moti del 1821, fu punito da Re Carlo Felice, che non gli perdonò le idee liberali, così da indurlo alle dimissioni da ufficiale dell’esercito sabaudo e costringerlo in esilio fino al 1824, allorché ebbe il permesso di ritornare in Piemonte a condizione di starsene confinato nel castello di Camerano. Solo nel 1826 ebbe il permesso di rivedere Torino e di muoversi liberamente nel regno. Questo era il destino di un moderato in Piemonte!
Ambrosini F., Santorre di Santa Rosa. La passione e il sacrificio, Torino, Edizioni del Capricorno, 2007.
Coaloa R., Carlo Vidua, un romantico atipico, Città di Casale Monferrato, Assessorato per la Cultura, 2003.
Manno A., Informazioni sul Ventuno in Piemonte, Firenze, Tipografia della Gazzetta d’Italia, 1879.
Mola A. A., Silvio Pellico. Carbonaro, cristiano e profeta della nuova Europa, Milano, Bompiani, 2005.
Ottolenghi G. (a cura di), Reminiscenze della propria vita. Commentario del conte Ludovico Sauli d’Igliano, Roma-Milano, due volumi, Società Editrice Dante Alighieri, 1908.
Salata F., Carlo Alberto inedito. Il diario autografo del re. Lettere intime ed altri scritti inediti, Milano, Mondadori, 1931.
Santorre di Santa Rosa, Delle speranze degli italiani, Milano, Casa Editrice Risorgimento R. Caddeo & C., 1920.