Il lungo crepuscolo di un’anima: Guido Gozzano

Vita e morte del poeta malinconico tra via Cibrario e Villa "Il Meleto"

Laureato in Giurisprudenza e scrittore per passione, è fondatore del blog Il Vaso di Terracotta, una raccolta di aneddoti storici su Torino e il Piemonte.

  

Duecento metri separano via Cibrario 65, a Torino, dalla Chiesa di Sant’Alfonso. Non è un civico a caso, trattandosi del palazzo dove, il 9 agosto del 1916, Guido Gozzano esalò l’ultimo respiro terreno in una calda giornata di mezza estate. Neppure la Chiesa è scelta senza motivo: qui si tennero i funerali del poeta, a pochi passi da casa prima di fare ritorno nel suo amato Canavese.

Sarà che ho sempre abitato in via Cibrario; sarà che presto mi sposerò proprio nella Chiesa di Sant’Alfonso; sarà che fin dall’adolescenza ho avuto una intima affinità verso la poetica crepuscolare, malinconica come il mio carattere. Non so dare una risposta, ma con Guido Gozzano ho sempre avuto una particolare corrispondenza caratteriale. Un’empatia sincera sviluppatasi nel corso degli anni: un amore viscerale per Torino, la silenziosa sicurezza delle piccole cose, la nostalgia per i tempi che furono.

Chiesa di Sant'Alfonso, Torino.
Chiesa di Sant'Alfonso, Torino.

Certamente non è ora mia intenzione indagarne i tratti della poetica – compito per cui esistono sicuramente critici più indicati di un letterato per passione – né parafrasare i suoi versi più conosciuti, rintracciabili da chiunque grazie a un buon manuale di letteratura. Ciò che in questa sede mi interessa è il Gozzano/uomo, la persona che – seppur vivendo una tribolata e troppo breve vita – ha saputo amare come pochi altri, soffrire e rifugiarsi tra le mura amiche dell’adorata campagna, per poi salutare questo mondo in quella via Cibrario che ben conosco, dove ad agosto il sole tramonta rosso sui tetti dei bassi caseggiati del borgo, con le Alpi lontane che sembrano a portata di mano.

La genesi di un giovane poeta

Nato a Torino il 19 dicembre del 1883 in una famiglia della medio-alta borghesia, Guido si dimostra sin dai primi anni di scuola uno studente insofferente. Pur vivendo a Torino, già da fanciullo i suoi momenti più felici sono quelli trascorsi nel Canavese, ad Agliè, dove i genitori sono proprietari di alcune ville. Tra queste, quella detta “Il Meleto”, che influenzerà non solo la produzione poetica ma la vita stessa del poeta. Dopo aver finalmente ottenuto il diploma di maturità, Guido si iscrive, data l’insistenza del padre, alla Facoltà torinese di Legge. Da subito appare chiaro come non sia decisamente la sua strada: troppo forte è l’attrazione verso le materie umanistiche in senso stretto, la connessione che già da giovane uomo manifesta per la letteratura e la poesia.

Gozzano con la madre e un'amica nella casa di Agliè, ca. 1910.
Gozzano con la madre e un'amica nella casa di Agliè, ca. 1910.

È così che Gozzano inizia a frequentare la “Società della Cultura”, un circolo itinerante cittadino che vede coinvolti esponenti della cultura torinese del tempo come Arturo Graf, Enrico Thovez, Giovanni Cena, Carola Prosperi, Mario Dogliotti. Le lezioni tenute dal professor Graf lo ispirano come non mai: gli scambi culturali con gli altri esponenti di quella “matta brigata” ci permettono di conoscere un Gozzano diverso rispetto a quello dell’immaginario comune. Non solo il giovane magro dalle sembianze aristocratiche, elegante e schivo, ma un ragazzo amante delle discussioni e della critica, goliardico e impertinente. È un ambiente ad ogni modo fertile per una mente come la sua, capace in quegli anni di assorbire conoscenze e influenze che lo segneranno negli anni a venire. Tuttavia, un demone si annida dentro il suo corpo. Già dal 1904, infatti, Guido convive con una diagnosi che, in quegli anni di inizio secolo, lascia poco spazio alle speranze: il "mal sottile", la tubercolosi polmonare. Una situazione che segnerà inconfondibilmente le sue parole, oltre che il fisico. Scriverà nel 1907, nel componimento Alle soglie:

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni, m'auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro. E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo? Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…

Il poeta sa che non avrà scampo. Il rimedio, quasi puerile, è quello di rifugiarsi nel passato (scriverà: “Sento d’essere nato troppo tardi”), nei luoghi dell’anima che lo rendono sereno e che lo fanno sentire al sicuro. Nonostante tutto, un’ombra interrogativa non lo abbandona mai:

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.

Il Canavese come rifugio: Villa Il Meleto

Agliè, comune ad una cinquantina di chilometri da Torino, noto principalmente per il suo Castello patrimonio dell’Unesco, è profondamente intrecciato con la vita del nostro poeta. Il nonno materno di Guido, il senatore Massimo Mautino, possedeva nella zona diverse proprietà, tra cui una villa chiamata “Il Meleto” per la presenza di numerosi alberi da frutto nel piccolo parco che la circondava. Al momento delle nozze della figlia Diodata con Fausto Gozzano (i genitori di Guido) la villa viene donata dal senatore ai novelli sposi, che si trasferiscono a Torino utilizzandola come abitazione nei mesi estivi. Tuttavia, Guido rimane assai legato al Meleto, forse uno dei pochi luoghi dove si sia mai sentito sereno e al riparo dalla malinconia che costantemente lo inseguiva.

Villa
Villa "Il Meleto" ad Agliè.

Tra le dolci alture del Canavese Guido cercava conforto nei momenti di smarrimento, lontano dalla frenesia e dalle critiche della città, perdendosi, come un bambino, tra i ricordi dei tempi lontani che aleggiavano sulla casa di famiglia con sembianze di spiriti. Al fresco del portico Guido trovava ispirazione per i suoi componimenti: non possiamo non citare una delle sue liriche più conosciute, L’amica di nonna Speranza, in cui ritroviamo la precisa descrizione di come doveva essere ai tempi il salottino della villa:

Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!) il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco, Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi, le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici […].

Le celebri "buone cose di pessimo gusto" tanto care al poeta, intrise di una malinconia sofferente ma famigliare, oggetti materiali emblema di una vita passata mai vissuta dal poeta e di un futuro adombrato dalla visione costante della morte.

Autografo della poesia
Autografo della poesia "L'amica di Nonna Speranza", 1906, di Guido Gozzano.

Amalia Guglielminetti e l’infelicità dell’amore

Torniamo per un attimo alla “Società della Cultura” di cui abbiamo parlato in apertura. Nel 1906, in occasione di uno degli incontri, conosce la poetessa Amalia Guglielminetti: è un incontro tanto importante quanto drammatico, per il modo in cui segnerà gli anni successivi di Guido. Nel 1907 tra i due inizia una relazione. Gozzano è quasi spaventato dall’amore: egli incarna l’essenza stessa del crepuscolarismo, della sicurezza nelle cose banali. Teme di non reggere il confronto con una passione forse più grande di lui. Certo, ha un’anima profondamente romantica, ma più in teoria che in pratica.

Lei, Amalia, classe 1881, è una giovane promessa della poesia, dal carattere femminista e sfacciato, sicuramente meno introverso di quello di Guido. Nel 1907 pubblica un compendio di liriche dal titolo Le vergini folli. Si conoscono come persone e si studiano come scrittori, apprezzando ciascuno i lavori dell’altro e non disdegnando qualche consiglio professionale più o meno disinteressato. Possiamo dire senza peli sulla lingua che, forse, un pochino si sfruttano l’un l’altro. Anche se l’inizio sembra buono, l’aggravarsi costante delle condizioni di salute del poeta influenza non poco la relazione. Nonostante il carattere fuggiasco di lui, Amalia è rapita da quel giovane magro, che appare quasi svogliato e annoiato quando sono insieme. Il 30 novembre del 1907 hanno appuntamento al Valentino. Guido non si presenterà mai. Scrive Amalia:

Allora fuggii davvero umiliata, avvilita, annientata dinanzi a me stessa, pensando di voi tutto il male possibile, soffrendo in me tutto il male possibile. Non osai rincasare subito per non lasciar sospettare alle mie sorelle la mia disdetta. Ho errato quasi un’ora per il Valentino mordendomi le labbra per trattenere in me qualche cosa d’amaro che mi saliva dal cuore, una pietà ironica e aspra per me stessa, per il mio orgoglio, per tutti i piccoli e i grandi colpi già ricevuti in silenzio sussultando, a cui s’aggiungeva ancora questo, inatteso. Sono folle, Guido, a scrivervi queste cose, lo so che voi lo pensate. Vorrei che mi vedeste piangere ancora, mentre scrivo, tanto. Neppure il foglietto rosso che mi portava le vostre scuse ha potuto consolarmi […].
Amalia Guglielminetti fotografata da Mario Nunes Vais.
Amalia Guglielminetti fotografata da Mario Nunes Vais.

Tra speranze e illusioni disattese

L’idea della morte non abbandona mai il poeta e vivere una vita di normalità gli riesce praticamente impossibile. Lei lo cerca, lo vuole vedere, ma lui si nega. Le dice di sì, poi cambia idea, poi non si presenta agli appuntamenti come abbiamo appena visto, costantemente in bilico tra la paura (soltanto una finzione per giustificarsi, forse?) di cedere alla passione e il dolore per non riuscirci. Scrive ad Amalia:

Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualche cosa in noi, qualche cosa di ben più alto valore che quel breve spasimo dei nostri nervi giovanili, mi parve di veder disperso per un istante d’oblio un tesoro accumulato da entrambi, per tanto tempo, a fatica.
Gozzano con gli amici Garrone e De Paoli nel 1912.
Gozzano con gli amici Garrone e De Paoli nel 1912.

Guido, è chiaro, vorrebbe scappare da qualsiasi cosa: dalla città (che puntualmente poi però gli manca) e dalla Guglielminetti, le cui pressanti attenzioni non fanno che esasperarlo ancora di più. Ripudia la passione carnale, preferendo la tranquillità degli affetti mediocri, meno romantici ma più sereni a livello emotivo e forse più facili da sopportare per un carattere di quel tipo, come ci confessa in un altro dei suoi manifesti, “La signorina Felicita”:

Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga...

Nel 1912 Gozzano, su consiglio dei medici, intraprende un lungo viaggio in Oriente nella speranza di migliorare le proprie condizioni di salute. Amalia capisce che non c’è davvero più nulla da fare. Tuttavia, il loro legame sopravviverà, tramutandosi, se così si può dire, in un rapporto epistolare di (non sappiamo quanto) sincera amicizia oltre che di consigli professionali su ambienti da frequentare e critici da convincere. Della loro burrascosa relazione rimane dunque una serie di lettere, grazie alle quali è possibile ricostruire, per quanto possibile, il lungo calvario di speranze e illusioni disattese da entrambe le parti.

La morte di un santo

Le condizioni di salute di Guido, intanto, peggiorano e si fanno sempre più precarie. Alterna i soggiorni nel Canavese a ritiri in Liguria, con la speranza che il clima mite possa giovare al suo fisico giovane ma già provato da anni di sofferenza. I risultati, tuttavia, sono scarsi. Il 16 luglio del 1916, mentre si trova vicino a Genova, ha un attacco più forte del solito. Pochi giorni dopo rientra a Torino con la sorella, per trovare sollievo nell’appartamento di via Cibrario 65. Ed ecco che torniamo tra le mura da cui queste righe sono partite.

Gozzano non ha ancora compiuto trentatré anni, eppure è come se avesse vissuto una vita assai lunga e faticosa: ha il volto scavato, magrissimo, respira in modo quasi impercettibile. Non riesce più ad alzarsi da letto e la camera è un via vai di persone che vogliono salutarlo per quello che potrebbe essere l’estremo addio. Tutte, tranne una: ad Amalia Guglielminetti è severamente proibito di visitarlo. Probabilmente il fisico di Guido non reggerebbe ad un’emozione tanto forte. Mario Dogliotti lo assiste spiritualmente, mentre Carola Prosperi raccoglie in quei giorni i suoi ultimi pensieri. Scriverà:

In quell’agosto il caldo era atroce; di continuo, intorno al volto emaciato del morente, qualcuno agitava un ventaglio; al minimo fruscio egli trasaliva dolorosamente, coi nervi straziati. Ma diceva: Son ben fortunato io. Muoio nel mio letto, mentre tanti giovani muoiono in trincea, lontani dalla casa e dalla mamma.
Lapide di Guido Gozzano ad Agliè.
Lapide di Guido Gozzano ad Agliè.

La "Signora vestita di nulla" bussa alla sua porta al tramonto del 9 agosto del 1916: alle ore 19 Guido esala l’ultimo respiro, salutando per sempre questo mondo e la sua sofferenza. L’amico Eugenio Colmo riporterà:

Pareva un santo. Tutto pelle e ossa, un santo d’avorio.

Un ultimo saluto

Il capo del poeta viene posato sul suo cuscino preferito, bianco, con due rondini intrecciate: come ebbe a scrivere la madre Diodata, era il suo preferito. Oggi è conservato al Meleto. I funerali si tengono, come detto, nella vicina Chiesa di Sant’Alfonso. Il corpo di Guido, dopo le esequie, ritorna per l’ultima volta nella amata Agliè, per non lasciarla più. Finalmente quieto dopo i travagli attraversati dal suo corpo e dalla sua giovane anima.

È curioso come Guido chiuda per sempre gli occhi alle ore 19, esattamente al momento del crepuscolo, in perfetta coerenza con i temi a lui tanto cari e che ne hanno contraddistinto la poetica. Il tramonto della vita non poteva, forse, che avvenire a quell’ora così amata da Guido. All’ora in cui, ad inizio agosto, in via Cibrario i raggi del sole incidono sui vetri delle case e sembrano allungarsi dalle cime delle Alpi che si vedono terse in fondo alla via, come lunghe braccia pronte a stringerti per non lasciarti andare mai. Un momento della giornata a cui aveva dedicato dei versi che rimangono tra i più belli rivolti alla città che tanto adorava:

Come una stampa antica bavarese vedo al tramonto il cielo subalpino… Da Palazzo Madama al Valentino ardono l’Alpi tra le nubi accese… È questa l’ora antica torinese, è questa l’ora vera di Torino...

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