Righe scritte il primo maggio del 1876 e custodite nella busta numero 7 del Fondo Garnier dell’Accademia di Agricoltura di Torino, nata l’anno precedente a questo scritto con l’intento, come riporta lo statuto, di "promuovere a pubblico vantaggio la coltivazione dei terreni situati principalmente nei felici domini di S.M., secondo le regole opportune e convenevoli alla loro diversa natura". Dietro a queste parole si cela la storia complessa di un particolarissimo museo, quello pomologico, che merita di essere approfondita. L’autore è Francesco Garnier Valletti, un artista e uno scienziato allo stesso tempo. È stato un uomo eclettico, estroso e solitario quanto bastava per realizzare e concentrarsi sulle sue creazioni. Ma chi era veramente Garnier Valletti?
Nato a Giaveno nel 1808 e morto a Torino nel 1889, era figlio del suo tempo, il positivismo, ma la tassonomia o forse sarebbe meglio dire la biodiversità l’hanno indirizzato in una precisa direzione: la ricerca applicata all’agricoltura. Doveva essere anche un po’ burlone se alle esposizioni internazionali si prendeva gioco dei visitatori mischiando il vero e l’artefatto. Di cosa stiamo parlando? Di Ananas Rouge, Algarkik, Annie Elisabeth, Api Étoilée, Apion de Sardaigne, Archiduc Raineri, Aromatic Russet, la Pomme de Baratte, la Bigia di Giaveno, la Contessa di Saluzzo, la Court Pendu Napoléon, o la Reinette Grand Ville. E si potrebbe andare avanti così leggendo le etichette originali, fino alla millesima mela di cera. Oggi il pezzo forte della sua collezione è visibile in un piccolo museo in mezzo alle Presidenze delle Facoltà scientifiche, in via Pietro Giuria 15 a Torino.
La targa adiacente al portone, con una semplice scritta, indica la presenza del “Museo della frutta Collezione di Francesco Garnier Valletti”, poche parole e un nome ai torinesi stessi poco conosciuto, il tutto non sufficiente per indicare una collezione unica al mondo. Il suo lavoro era quello di ceramista, professione non insolita alla sua epoca, ma era anche così minuzioso e geniale che, se invece di indirizzarlo ai vegetali, fosse stato applicato alle persone chissà, forse oggi lo conosceremmo come Monsieur Garnier e avrebbe fama internazionale come Madame Tussauds. Quel che è certo è che la sua eredità giace tra le teche delle sale del museo; dalle didascalie e dalle frasi autografe che accompagnano l’esposizione si comprende che la sua vita non è stata così luccicante come le bucce delle mele esposte nelle bacheche che ricordano un tempo andato.
Come si diventava ceramisti? Ripercorrendo la sua vita è indubbio che ci volesse pratica e molto estro; Garnier Valletti frequenta il collegio di Giaveno, al termine del quale diventa un confettiere. Nel pieno periodo risorgimentale, si trasferisce a Torino dove sposa Giuseppa Grosso, dalla quale avrà quattro figli. Città nuova, vita nuova e anche attività nuova: dai confetti passa a modellare fiori ornamentali in cera. Otto anni prima delle famose Cinque giornate di Milano, si trasferisce proprio lì, nella capitale del Regno Lombardo-Veneto. Ormai la sua abilità di ceroplasta è così apprezzata da aprirgli le porte non solo dei regni ma di una corte imperiale, così per Vienna comincia a produrre anche frutti, ovviamente sempre in cera.
Un’altra Corte si aggiunge tra i suoi estimatori. Sarà lo Zar di Russia ad accogliere lui e le sue produzioni ma, quando pare essere arrivato all’apice della sua carriera, nel 1848 deve lasciare San Pietroburgo, non tanto per i grandi cambiamenti politici che pervadono l’Europa intera, quanto a causa della morte della moglie. Tornato a Torino per accudire i figli, non si sposterà più da questa città fino alla sua morte, dedicando ogni sua energia a quella che era divenuta la sua attività principale, la pomologia artificiale, che gli farà conquistare il podio di ultimo e ineguagliato protagonista.
Ritornando ai giorni nostri, dal febbraio del 2007, in via Pietro Giuria, proprio nell’ala lasciata libera dalla Facoltà di Agraria, il Comune di Torino espone la sua notevole collezione in cera di frutti come mele, pere, albicocche, ciliegie, susine e fragole, ma anche tuberi e verdure che fanno capolino dalle vetrine di vetro e di legno originali, risalenti anch’esse alla fine dell’Ottocento. Nella medesima sede si trova anche la biblioteca con 19.000 volumi, l’archivio e i laboratori, testimoni del patrimonio storico-scientifico della Regia Stazione Chimica Agraria. Costituita nel 1871 diventerà poi nel 1967 Sezione operativa di Torino dell’Istituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante, oggi CREA, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria.
Per scoprirne l’origine e come sia giunta al suo interno questa peculiare collezione di pomi dobbiamo pensare in quale contesto sia stata creata, e per questo occorre partire dal sorgere in Europa delle società ed accademie, a fine XVIII secolo. Su questa scia, nel 1785, venne fondata a Torino l’Accademia di Agricoltura. Inoltre nel 1841, su iniziativa di Cavour, si costituì un’Associazione agraria con l’obiettivo di dare origine a un “Comizio agrario” (una sorta di comitato organizzativo e informativo) in ogni capoluogo di provincia. Nacquero anche le cosiddette “Cattedre ambulanti di agricoltura” che diedero un fondamentale contributo al progresso dell’agricoltura e che ritorneranno più avanti in questa storia.
Altro tassello da ricordare è l’istituzione a Torino della Stazione Sperimentale Agraria avvenuta il 18 aprile 1871 con Reale decreto n. 188. Si trattava di una “stazione di prova” creata a spese della Provincia, del Comune e dello Stato con sede presso il Regio Museo Industriale Italiano in via dell’Ospedale 32, oggi Piazzale Valdo Fusi. Le sue finalità, indicate nello statuto, andavano dall’analisi delle terre, delle acque e dei concimi, allo studio degli strumenti e delle macchine agrarie, fino alla divulgazione. Il Comune di Torino provvedeva al mantenimento della Stazione con ottomila lire annue, mentre la Provincia con quattromila e il Governo con seimila; il Comune stesso in più fornì alla Stazione anche un appezzamento di terreno presso il Castello del Valentino. Il suo uso era da intendersi in campo sperimentale, però successivamente lo stesso terreno venne destinato ad altri scopi, così la Stazione utilizzò parte del giardino del Regio museo sempre situato nell’attuale Piazza Valdo Fusi.
Fin dal suo nascere la Stazione, come apprendiamo dai documenti, partecipò attivamente alla vita scientifica internazionale, effettuando studi sulla conservazione della frutta, sul colore artificiale della conserva di pomodoro, sulla fermentazione dei vini, sui concimi fosforici, sulla composizione degli aceti e sulle barbabietole, e aumentò il numero di esami svolti su campioni di prodotti agricoli richiesti sia da enti pubblici sia da privati. Verso la fine del secolo le richieste di analisi da parte di privati aumentarono notevolmente, cosicché la Stazione poté permettersi di abbassare i prezzi, consentendo anche ai piccoli agricoltori di usufruire del suo servizio.
Locali ormai limitati e un miglior avvicinamento agli orti sperimentali dell’Accademia o alle serre municipali, o perché no al Parco del Valentino dove si organizzano le grandi Esposizioni Nazionali, facilitano l’imminente trasloco in una palazzina in via Ormea 47, che da diversi anni è sede dei Carabinieri del Borgo, ma all’epoca fu appositamente costruita con tanto di terreno da usare per le ricerche.
Ed ora introduciamo il personaggio grazie al quale nacque l’idea di fondare il Museo. Siamo nel quartiere San Salvario dove il vivaista Auguste Burdin eredita dal padre il più grande vivaio del regno di Sardegna, costituito da una spettacolare serra a ferro di cavallo riscaldata a vapore che diventa destinazione di molte passeggiate dei torinesi. Questo vivaio così notevole è indicato nelle prime guide turistiche della Savoia come meta di grande interesse per la razionale e artistica distribuzione delle coltivazioni e la straordinaria varietà delle specie. Auguste Burdin vuole realizzare un grande progetto paterno: un museo agricolo con annessa fabbrica di macchinari e attrezzi rurali, utile per costruire, su licenza, i nuovi macchinari inventati in Inghilterra, perfezionarli e poi sperimentarli negli stabilimenti e nei poderi modello facendoli così conoscere e mettendoli infine in vendita. Nonostante il superbo progetto Auguste si lancia in investimenti eccessivi e in breve deve ridimensionare patrimonio e prospettive. È in questo periodo che incontra Garnier Valletti, appena rientrato dalla Russia e anche lui in ristrettezze economiche, con il quale si avventura nell’impresa di far sorgere il Museo pomologico.
Oggi potremmo dire che Burdin vide in questo ceramista una strategia pubblicitaria innovativa: la soluzione al problema che da sempre ha limitato l’attività dei grandi vivaisti, ovvero una nomenclatura comune a tutti e non suscettibile a termini dialettali e variazioni linguistiche. Garnier Valletti è quindi impegnato a riprodurre i frutti coltivati nel vivaio torinese, che verranno così presentati al pubblico nella seconda Esposizione di Floricoltura organizzata dalla Reale Accademia di Agricoltura nel maggio 1852 all’interno del palazzo della Reale Accademia delle Scienze. Nella mostra, che ottiene un gran successo, sono presenti 160 frutti artificiali di Garnier Valletti.
Successivamente Burdin perfeziona l’accordo in vista di un progetto ancora più ambizioso, la realizzazione di un grande Museo Pomologico che riproduca tutti gli esemplari catalogati nella “Pomona generale”. L’idea di Burdin è ammirabile: un’esposizione permanente affiancata da esemplari vivi corrispondenti ai frutti esposti e da una scuola sperimentale di potatura per istruire i coltivatori nelle nuove pratiche, mantenendo il Museo al passo con le varietà selezionate da vivaisti e scienziati. Insomma, una vetrina sui progressi agricoli, ma al tempo stesso un canale pubblicitario per la società vivaistica con il fine di richiamare pubblico ed acquirenti. Per realizzarlo si stima un periodo di almeno nove anni, ma nonostante l’avvio incoraggiante, la malattia e successiva morte di Auguste Burdin nel 1854, a soli 39 anni, interrompe il progetto.
Nonostante la morte dell’ideatore il Museo pomologico sopravvive e nel 1857 viene istituita una società per azioni che acquista una parte degli esemplari già realizzati incaricando Garnier Valletti di proseguire il lavoro fino a formare una raccolta completa di tutti i frutti che si coltivavano nei Regi Stati. In questa società Garnier Valletti diventa modellatore ufficiale e crea così la numerosa collezione di frutti, sperimentando anche un metodo di realizzazione diverso, ottenuto grazie ad un impasto di materiali innovativi. Come racconterà, la nuova formula gli era stata ispirata in sogno, esattamente il 5 marzo 1858. Sogno o no, dalle sue mani usciranno disegni e soprattutto le riproduzioni di 1.200 varietà di frutti e 600 di uve, corredate da annotazioni su nomi, qualità, stagione di produzione, come testimoniano i suoi album di appunti, conservati dall’Accademia di Agricoltura di Torino. La Società per il Museo Pomologico si scioglie tre anni dopo e la collezione di Garnier Valletti rimane nei locali dello stabilimento fino al 1878, quando viene offerta in dono al Municipio di Torino a condizione di essere esposta al pubblico.
Album di appunti originali di Garnier Valletti. Foto © Archivio Garnier Valletti dell'Accademia di Agricoltura di Torino.
Sempre in questo anno Garnier Valletti viene nominato Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e nel 1886 accetta la proposta di tenere lezioni pratiche di preparazione di frutti artificiali presso il Comizio Agrario di Torino. Il corso viene però interrotto per il suo ostinato rifiuto a divulgare la formula del materiale usato per la modellazione e tre anni dopo muore di polmonite nella sua abitazione in via Doragrossa 1. Così l’enorme quantità di frutti modellati durante la sua vita entra a far parte dell’eredità lasciata alla figlia Paolina, conservata in parte presso lo stabilimento Cirio in via Nizza, in parte nella sua abitazione.
Nel 1897, la Sezione operativa di Torino dell’Istituto Sperimentale per la Nutrizione delle Piante venne trasferita, come abbiamo detto prima, nella palazzina di via Ormea 47 e nella stessa palazzina trova sede anche il Museo pomologico. La scelta del trasferimento della Stazione non era affatto casuale, infatti questa veniva così a trovarsi vicino alla sede dell’Accademia di Agricoltura e dei suoi nuovi orti sperimentali, alla nuova “Città della Scienza” in cui erano raccolte le Facoltà scientifiche universitarie e all’Orto Botanico: un connubio perfetto tra ricerca, sperimentazione sul campo e fruizione nelle “Esposizioni” del parco del Valentino.
Se oggi utilizziamo quotidianamente il termine “biodiversità” – una tematica attuale ed oggetto di molti progetti di ricerca, di tutela e di rilancio di numerose varietà di frutti antichi ancora esistenti – scopriamo che all’epoca un approccio simile era già emerso. Si trattava di studi effettuati in edifici di ricerca di cui possiamo avere un assaggio proprio presso il Museo dove, oltre ai pomi, si possono ammirare spazi evocativi della Stazione Sperimentale, ricreati volutamente, non tanto per mostrare alambicchi o strumentazioni in uso all’epoca, ma per mostrare quale fosse l’intento originario, ossia fondare una ricerca particolareggiata e unica nel suo genere. Come si legge in una didascalia presente all’interno di una sala, l’attività di ricerca fu
[…] in vantaggio della nostra agricoltura e fu molto apprezzata da chi conobbe questo lavoro, ma la sua difficoltà per riuscirvi fu tanta che nemmeno in due anni si è potuto giungere a quella perfezione desiderata.
Se all’epoca si creavano stupefacenti opere tridimensionali per fissare e classificare la grande varietà presente in natura, oggi ci possiamo avvalere di altri mezzi per preservare non solo il ricordo o la presenza di certe varietà. Riusciremmo però a riprodurre le stesse opere in cera, identiche nella formula trovata da Garnier Valletti? Certo è che questo artista-scienziato, come spesso accade in ogni epoca e in ogni dove, anche se riconosciuto, purtroppo non fu abbastanza ben ripagato per le sue creazioni, come lui stesso ci fa intendere:
Segato morì col suo segreto di pietrificare sangue e carne umana e nessuno riuscì ad imitare il suo segreto ed io morrò senza svelare il mio segreto per imitar le uve se non sarò compensato onestamente.
Il meritato compenso non arriverà, ma ci penserà qualcun altro a farci giungere la formula, in questo caso un suo allievo, non molto fedele che svelerà la tecnica utilizzata: un impasto a base di resine e di cere con l’aggiunta di gesso, di argilla e di polvere di alabastro. Grazie a questa miscela, sapientemente dosata, ancora oggi confonderemmo la frutta artificiale se mischiata a quella reale, come amava fare lo stesso Garnier Valletti durante le esposizioni internazionali per dar prova della sua straordinaria arte.
E sempre in tema di compenso, cosa avrebbe commentato Garnier Valletti quando, nel 1927, il direttore della Stazione di Chimica Agraria Francesco Scurti acquistò per 22.000 lire dal professor Natale Riva, assistente alla Cattedra ambulante di Agricoltura di Alessandria, la sua collezione di “1.021 frutti artificiali plastici” grazie allo stanziamento messo a disposizione dal Ministero per l'Agricoltura? Non ci resta che visitare il Museo, in presenza o virtualmente, per riscoprire un mondo che non c’è più e di cui rimangono come muti testimoni le lucenti creature che non appassiranno mai, di un uomo caparbio, un po’ artista e un po’ scienziato.
👍 Si ringrazia il Museo della Frutta "Francesco Garnier Valletti" e l'Accademia di Agricoltura di Torino per la disponibilità e la gentile concessione delle immagini.